CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 gennaio 2020, n. 613
Tributi – TOSAP – Area in concessione – Gestione del servizio di parcheggio – Esenzione impositiva
Rilevato che
1. Con sentenza depositata il 24 giugno 2014 n. 6355/29/2014, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale di Napoli accoglieva l’appello proposto dal “CONSORZIO URBANIA VIVERE LA CITTA'”, in liquidazione, avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Caserta il 26 giugno 2012 n. 352/12/2012, con compensazione delle spese giudiziali.
2. Avverso la sentenza di appello, la “P. S.r.l.”, nella qualità predetta, proponeva ricorso principale per cassazione, consegnato per la notifica il 3 dicembre 2014 ed affidato a tre motivi; il “CONSORZIO URBANIA VIVERE LA CITTA”, in liquidazione, si costituiva con controricorso; il Comune di Aversa (CE) si costituiva con controricorso, proponendo ricorso incidentale per cassazione consegnato per la notifica il 9 gennaio 2015 ed affidato a due motivi (pedissequamente coincidenti con i primi due motivi del ricorso principale).
Considerato che
1. Con il primo motivo in comune, la ricorrente principale ed il ricorrente incidentale censurano la sentenza impugnata, denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., per aver erroneamente escluso l’occupazione dell’area destinata a parcheggio da parte dell’affidataria del servizio ai fini dell’applicazione della TOSAP per gli anni 2009 e 2010.
2. Con il secondo motivo in comune, la ricorrente principale ed il ricorrente incidentale lamentano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 38, 39 e 49 del D.L.vo 15 novembre 1993 n. 507, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per essere state erroneamente apprezzate dal giudice di appello, per un verso, l’insussistenza del presupposto impositivo della TOSAP, cioè l’occupazione del suolo pubblico in forza di titolo concessorio, e, per altro verso, la sussistenza della causa di esenzione impositiva, cioè l’occupazione del suolo pubblico in sostituzione del Comune.
3. Con il terzo motivo, la sola ricorrente principale denuncia nullità della sentenza impugnata per inammissibilità dell’appello a causa dell’omessa indicazione dei motivi specifici di cui all’art. 53 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., nonché per violazione o falsa applicazione 53 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per essere stata erroneamente apprezzata dal giudice di appello la specificità dei motivi di gravame, nonostante la proposta eccezione di inammissibilità.
Ritenuto che
1. Il terzo motivo – del ricorso principale, da esaminare in via preventiva per pregiudizialità logica – è palesemente infondato (sotto entrambi gli aspetti prospettati).
Nella specie, ad un’attenta lettura, non risulta che l’atto di appello fosse assolutamente carente (e, dunque, insufficiente) sul piano della formulazione (per quanto sintetica) di censure in ordine alle statuizioni della sentenza di primo grado e, per conseguenza, potesse aver inficiato la validità della sentenza di secondo grado.
Invero, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, nel processo tributario, l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dall’art. 53 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza. È, pertanto, irrilevante che i motivi siano enunciati nella parte espositiva dell’atto ovvero separatamente, atteso che, non essendo imposti dalla norma rigidi formalismi, gli elementi idonei a rendere “specifici” i motivi d’appello possono essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (Cass., Sez. 5^, 19 gennaio 2007, n. 1224; Cass., Sez. 5^, 13 novembre 2008, n. 27080; Cass., Sez. 5^, 12 gennaio 2009, n. 346; Cass., Sez. 5^, 31 marzo 2011, n. 7393). Inoltre, anche la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dall’art. 53 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (Cass., Sez. 6^, 1 luglio 2014, n. 14908; Cass., Sez. 5^, 3 agosto 2016, n. 16163).
2. Il primo motivo (del ricorso principale e del ricorso incidentale) si rivela inammissibile.
Invero, è pacifico che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.L.vo 2 febbraio 2006 n. 40, prevede l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” (ex plurimis Cass., Sez. 5^, 8 agosto 2014, n. 2152; Cass., Sez. 5^, 3 ottobre 2018, n. 24035), tale che, se oggetto di esame, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (ex plurimis: Cass., Sez. Lav., 25 giugno 2018, n. 16703; Cass., Sez. 2^, 29 ottobre 2018, n. 27415).
Più precisamente, la nozione di punto decisivo della controversia, di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., sotto un primo aspetto, si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, asserisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa (da ultime: Cass., Sez. 3^, 7 dicembre 2004, n. 22979; Cass., Sez. Lav., 14 febbraio 2013, n. 3668; Cass., Sez. Lav., 9 settembre 2013, n. 20612).
Il fatto, di cui sia stato omesso l’esame, ai fini dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., deve essere stato altresì <<oggetto di discussione fra le parti>>, sicché deve trattarsi necessariamente di un fatto “controverso”, e cioè contestato, non dato per pacifico tra le parti. Se il giudice afferma in sentenza, viceversa, che un fatto è esistente o provato, perché pacifico o non contestato, e quindi non “discusso”, il fatto è stato così comunque oggetto di esame nella sentenza impugnata, e, se vuole censurarsi tale punto della decisione, si rimane sempre al di fuori del vizio ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (in termini: Cass., Sez. 2^, 18 ottobre 2018, n. 26274).
A ben vedere, la controversia tra le parti nel caso in disamina attiene, più propriamente, alla qualificazione giuridica della situazione di fatto ai fini del riconoscimento (o disconoscimento) del presupposto impositivo della TOSAP, essendone pacifica la ricostruzione sul piano storico (con riguardo ai titoli giustificativi del rapporto corrente tra i controricorrenti). Per cui, trattandosi di questione relativa alla sussunzione della fattispecie concreta in una fattispecie astratta piuttosto che in un’altra, il vizio denunciato esula dalla portata dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..
Ora, l’erronea sussunzione del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 cod. proc. civ. (nella specie, nel n. 5, anziché nel n. 3 del comma 1), come pure l’incongruenza fra le norme di legge di cui si prospetta la violazione e le argomentazioni di supporto, è causa di inammissibilità del ricorso (ex plurimis Cass., Sez. 3^, 5 giugno 2007, n. 13066; Cass., Sez. 3^, 11 maggio 2012, n. 7268; Cass., Sez. 3^, 16 settembre 2013, n. 21099; Cass., Sez. 3^, 17 settembre 2013, n. 21165; Cass., Sez. 6^, 14 maggio 2018, n. 11603).
3. Da ultimo, il secondo motivo (del ricorso principale e del ricorso incidentale) è infondato.
Il presupposto impositivo della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) è costituito, ai sensi degli artt. 38 e 39 del D.L.vo 15 novembre 1993 n. 507, dalle occupazioni, di qualsiasi natura, di spazi ed aree, anche soprastanti e sottostanti il suolo, appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei Comuni e delle Province, che comporti un’effettiva sottrazione della superficie all’uso pubblico. Nel caso di area del demanio comunale, appartenente alla rete viaria della città, adibita a parcheggio di autoveicoli, in concessione a società privata, rileva in concreto se quest’ultima occupi l’area, sottraendola all’uso pubblico, integrando, così, il presupposto della TOSAP, ovvero se ad essa società sia soltanto attribuito – quale sostituto dell’ente nello sfruttamento dei beni – il mero servizio di gestione del parcheggio, con il potere di esazione delle somme dovute dai singoli per l’uso, quale parcheggio dei loro veicoli, dell’area pubblica a ciò destinata dal comune, dovendosi ravvisare, in tal caso, un’occupazione temporanea ad opera del singolo e non della concessionaria, che non sottrarrebbe al pubblico uso l’area (non oggetto, in quanto tale, della concessione e rimasta, anche di fatto, nella disponibilità del Comune), con esenzione di quest’ultima dalla tassazione in forza dell’art. 49, comma 1, lett. a), del D.L.vo 15 novembre 1993 n. 507, salvo che dall’atto di concessione non emerga una diversa volontà pattizia (in tal senso: Cass., Sez. 5^, 21 giugno 2004, n. 11553; Cass., Sez. 5^, 15 settembre 2009, n. 19841; Cass., Sez. 5^, 21 luglio 2017, n. 18102).
Nella specie, la Commissione Tributaria Regionale ha accertato, con valutazione in fatto non censurabile se non sotto il profilo del vizio di motivazione, che dalle clausole descrittive dell’oggetto del contratto emergeva che la concessione di suolo pubblico al privato per l’esercizio dell’attività di impresa era volta unicamente a consentire la gestione del servizio di gestione del pubblico parcheggio e del correlativo potere di esazione delle somme dovute dagli utenti.
In proposito, si evidenzia come il giudice di appello abbia efficacemente messo in risalto:
a) la spettanza al Comune del potere di individuazione delle aree destinate a parcheggio, con ampia facoltà di ampliarle o ridurle, senza interlocuzione della società affidataria, svolgendo quest’ultima un mero servizio di gestione della riscossione delle tariffe per la sosta, pure predeterminate dall’ente locale, a cui il corrispettivo è trasferito, sia pure in parte, con un minimo garantito;
b) il conferimento alla società affidatala della gestione del servizio di parcheggio secondo le indicazioni e le direttive dell’ente locale, che impone una serie di vincoli nel concreto svolgimento dell’attività ed esercita i controlli nell’interesse dei cittadini.
Per cui, è conseguenziale la ravvisabilità dell’esenzione prevista dall’art. 49, lett. a, del D.L.vo 15 novembre 1993 n. 507, sul rilievo che la società affidataria del servizio di gestione delle aree destinate a parcheggio è un mero sostituto del Comune, che resta l’unico e solo occupante della sede stradale, potendo delimitarne la parte non strettamente necessaria alla fruizione di libera circolazione, che rivela potenzialità economiche connesse all’opportunità di parcheggio dei veicoli, e conservando la disponibilità delle aree destinate a parcheggio, delle quali esso continua a governare le modalità di utilizzo, nonostante il riconoscimento della spettanza di un indennizzo (non di un corrispettivo) a favore della società affidataria nel caso di protrazione del divieto oltre un determinato limite.
Aggiungasi, come è stato già rilevato da questa Corte in analoga fattispecie (Cass., Sez. 5^, 21 giugno 2004, n. 11553), che il pagamento di un corrispettivo per il parcheggio da parte del cittadino non è affatto incompatibile né con la gestione del solo servizio di parcheggio da parte della società affidataria (ove questa, a sua volta, in qualche modo trasferisca economicamente al Comune, in tutto od in parte, il percepito corrispettivo), né con la permanenza della disponibilità dell’area per il Comune.
4. In conclusione, si deve dichiarare l’inammissibilità del primo motivo in comune del ricorso principale e del ricorso incidentale e rigettare il secondo motivo in comune del ricorso principale e del ricorso incidentale, nonché il terzo motivo del ricorso principale.
5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.
6. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità del primo motivo in comune del ricorso principale e del ricorso incidentale; rigetta il secondo motivo in comune del ricorso principale e del ricorso incidentale, nonché il terzo motivo del ricorso principale; condanna la ricorrente principale ed il ricorrente incidentale, in solido tra loro, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole nella misura complessiva di € 10.000,00 per compensi, oltre spese forfettarie ed altri accessori di legge; dà atto dell’obbligo a carico della ricorrente principale e del ricorrente incidentale di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
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