CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 giugno 2022, n. 19243
Demansionamento – Durata – Prova – Nuova collocazione assunta dopo la prospettata dequalificazione – Risarcimento danni
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Bari ha respinto l’appello proposto dalla Città Metropolitana di Bari avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso di D.P. e, ritenuto provato il lamentato demansionamento, aveva condannato l’ente locale al risarcimento del danno;
2. la Corte territoriale ha rilevato che l’originario ricorrente, inquadrato nella categoria D, livello economico D4, dopo aver svolto le mansioni di geometra capo presso il Servizio Edilizia Scolastica, con titolarità della relativa posizione organizzativa, era stato assegnato al Servizio Innovazioni Tecnologiche e Statistica, ove aveva curato compiti relativi alla gestione amministrativa e contabile dei servizi di telefonia fissa e immobile, riconducibili all’area C;
3. il giudice d’appello ha aggiunto che in effetti il Tribunale non si era limitato alla comparazione in astratto delle mansioni ed aveva espresso il giudizio di non equivalenza anche tenendo conto dell’esperienza professionale acquisita dal P., tuttavia ha ritenuto non rilevante il motivo di censura perché, in ogni caso, si era di fronte a mansioni che non rientravano nell’inquadramento formale ed erano riconducibili alla qualifica inferiore;
4. ha, poi, ritenuto condivisibile la liquidazione equitativa del danno ed ha richiamato giurisprudenza di questa Corte per evidenziare che, sebbene il danno da demansionamento non sia in re ipsa, il giudice può valutare, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la nuova collocazione assunta dopo la prospettata dequalificazione;
5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Città Metropolitana di Bari sulla base di quattro motivi, ai quali ha opposte difese con controricorso D.P.;
6. la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata.
Considerato che
1. il primo motivo del ricorso denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. violazione e falsa applicazione degli artt. 52 d.lgs. n. 165/2001 e 2103 cod. civ. e addebita alla Corte territoriale di avere contraddittoriamente utilizzato sia il criterio di equivalenza formale sia quello di equivalenza in senso sostanziale, violando il richiamato art. 52 che assegna rilievo solo alla classificazione operata dalle parti collettive;
2. con la seconda censura, intitolata «violazione e falsa applicazione di legge, ed in particolare dell’art. 132 comma 2 n. 4, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5. Motivazione assente, apparente, manifestamente irriducibilmente contraddittoria, perplessa ed obiettivamente incomprensibile», la Città metropolitana sostiene che la motivazione della sentenza sarebbe intrinsecamente contraddittoria quanto al criterio utilizzato per esprimere il giudizio di equivalenza e, quindi, non idonea a far comprendere le ragioni della decisione;
3. il terzo motivo, formulato ai sensi dei nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia la violazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ. nonché dell’art. 115 cod. proc. civ. e addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto provato il demansionamento, che andava, invece, escluso perché al P. erano state attribuite mansioni riconducibili alla categoria D tanto che egli, negli anni dal 2012 al 2016, aveva percepito anche l’indennità per la specifica responsabilità prevista dall’art. 17 del CCNL 1.4.1999;
4. infine con la quarta critica la ricorrente si duole della violazione degli artt. 1126 e 2056 cod. civ. e sostiene che il danno non può essere in re ipsa e che, in ogni caso, il giudice deve dare conto dei parametri utilizzati ai fini della liquidazione equitativa, pena il difetto della necessaria motivazione della pronuncia resa;
5. il ricorso è inammissibile in tutte le sue articolazioni; i primi due motivi, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, non colgono l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata (che è l’unica che in questa sede rileva), perché il giudice d’appello, pur dando atto dell’utilizzazione da parte del Tribunale di entrambi i criteri di equivalenza, formale e sostanziale, ha valorizzato solo il primo ed ha respinto l’impugnazione della Città Metropolitana sul rilievo che era stato provato lo svolgimento di mansioni riconducibili al profilo professionale di istruttore amministrativo, sussumibile nell’area C, inferiore a quella di inquadramento del P. (pag. 7 e pag. 9 della motivazione ove si legge rispettivamente: «…risulta acclarato che a seguito del suo trasferimento il lavoratore non continuava a svolgere mansioni proprie del suo inquadramento formale (categoria D) ma mansioni appartenenti ad un inquadramento inferiore (categoria C)…. «è chiaramente ricompresa nella categoria C la figura di “istruttore amministrativo” che ben si attaglia alle mansioni attribuite al P., così come descritte nel ricorso introduttivo e riconosciute dal datore di lavoro»);
5.1. nel giudizio di cassazione, a critica vincolata, i motivi devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, sicché la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., e determina l’inammissibilità, in tutto o in parte del ricorso, rilevabile anche d’ufficio ( cfr. fra le tante Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007);
6. la terza censura, che si incentra sulla errata valutazione della documentazione prodotta, è parimenti inammissibile perché, anche a voler prescindere dal mancato rispetto dell’onere di specifica indicazione imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge contesta la valutazione delle risultanze istruttorie e sollecita un giudizio di merito non consentito alla Corte di legittimità;
6.1. è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui una censura relativa all’errata applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può essere formulata per lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice d’appello, perché la violazione può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra tante Cass. n. 18092/2020 e Cass. n. 1229/2019);
6.2. è stato anche affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la censura di violazione delle norme processuali predette non può legittimare una “trasformazione” in error in procedendo del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica”, vizio non più denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 23940/2017) e ciò perché, all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal d.l. n. 83/2012, «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante» (Cass. n. 11892/2016 e negli stessi termini Cass. n. 23153/2018);
6.3. analoghe considerazioni vanno espresse in relazione alla denuncia di violazione dell’art. 2697 cod. civ. perché il vizio è configurabile solo qualora il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata, non anche quando si assuma che, a seguito di un’incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente provato o non provato il fatto oggetto di dimostrazione, atteso che in questo caso la denuncia prospetta un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo nei ristretti limiti fissati dal riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (cfr. fra le tante Cass. n. 17313/2020);
7. anche il quarto motivo non sfugge alla dichiarazione di inammissibilità giacché il giudice d’appello non ha ritenuto il danno in re ipsa bensì, nel condividere la liquidazione equitativa effettuata dal Tribunale, richiamata giurisprudenza di questa Corte, ha valorizzato, per affermare la sussistenza di un danno alla professionalità, la durata e l’entità del demansionamento nonché il livello di professionalità raggiunto nella precedente funzione ricoperta, ed ha anche evidenziato che l’appellante nulla aveva lamentato in merito all’assenza di prova del danno da demansionamento (pag. 8 della sentenza impugnata);
7.1. il motivo non coglie pienamente la ratio decidendi della sentenza impugnata, che non si è discostata dal principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui «in caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, sicché per la liquidazione del danno è ammissibile, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione» (Cass. n. 12253/2015 e Cass. n. 16596/2019);
8. in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo;
9. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 3.500,00 per competenze professionali ed € 200,00 per esborsi, oltre al rimborso spese generali del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
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