CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 luglio 2021, n. 20258
Iscrizione d’ufficio alla gestione commercianti – Socio accomandatario di società – Attività di locazione immobiliare – Attività di mera riscossione dei canoni di un immobile affittato non costituisce di norma attività di impresa
Rilevato che
Con sentenza del 30.12.14, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza del 2011 del tribunale di Monza, ha dichiarato non dovute le somme portate dalla cartella opposta con la quale l’INPS aveva chiesto euro 6.421 a titolo di contributi e sanzioni per l’iscrizione d’ufficio alla gestione commercianti del signor L. quale socio accomandatario di società svolgente attività di locazione immobiliare.
In particolare, la corte territoriale ha ritenuto che l’obbligo di iscrizione sorge solo ove il socio accomandatario svolga attività di natura commerciale, non essendo tale il mero godimento immobiliare ottenuto dalla locazione di immobili né -come nella specie – il comodato gratuito a coltivatore diretto.
Avverso tale sentenza ricorre l’INPS per un motivo, cui resiste il Locati con controricorso, illustrato da memoria.
Considerato che
Con unico motivo di ricorso si deduce violazione dell’articolo 1 commi 202 – 203 e 208 della legge 662 del 1996, per avere la sentenza impugnata trascurato che la riscossione dei canoni di locazione immobili rientra nella gestione del patrimonio immobiliare e nell’attività di impresa
Questa Corte (tra le tante, Cass. Sez. L, Ordinanza n. 5052 del 2020, N. 3479/20, 17643/16) ha già affermato il principio, cui si intende dare continuità, secondo cui, ai fini della iscrizione nella gestione commercianti, l’attività di mera riscossione dei canoni di un immobile affittato non costituisce di norma attività di impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società commerciale (Cass. n. 3145 del 2013), salvo che si dia prova che costituisca attività commerciale di intermediazione immobiliare (Cass. n. 845 del 2010; Cass. 24.5.2018 n. 12981), e che inoltre l’eventuale impiego dello schema societario per attività di mero godimento, in implicito contrasto con il disposto dell’art. 2248 cc, non può trovare una sanzione indiretta nel riconoscimento di un obbligo contributivo di cui difettino i presupposti, per come sopra ricostruiti (Cass. n. 27588 del 2016). 4. Inoltre, è stato precisato che l’onere della prova grava sull’ente che esige i contributi (Cass. n. 3835 del 2016; Cass. n. 5210 del 2017) ed esso può dirsi assolto attraverso la prova di un effettivo svolgimento di una attività di lavoro prevalente ed abituale all’interno della società, rispetto alla quale la dichiarazione del contribuente nella compilazione del modello unico può svolgere una funzione probatoria a condizione che la stessa offra gli elementi di fatto da cui sia desumibile la sussistenza effettiva dell’attività lavorativa, riguardando altrimenti la citata annotazione soltanto le pretese impositive che si fondino sui dati allegati dall’obbligato (Cass. n. 8611 del 2019; Cass n. 19467 del 2018). 5. Quanto, poi, ai requisiti congiunti di abitualità e di prevalenza dell’attività di socio di società, essi sono da riferire all’attività lavorativa espletata dal soggetto considerato in seno all’impresa che costituisce l’oggetto della società, a prescindere dall’attività eventualmente esercitata in quanto amministratore, per la quale semmai ricorre l’obbligo dell’iscrizione alla gestione separata di cui alla legge n. 335 del 1995, in modo che sia assicurato alla gestione commercianti il socio di società che si dedica abitualmente e prevalentemente al lavoro in azienda, indipendentemente dal fatto che il suo apporto sia prevalente rispetto agli altri fattori produttivi (naturali, materiale e personali) dell’impresa (cfr. Cass. 17.7.2017 n. 17639). 6. Nel caso in esame, con valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità, la Corte territoriale ha applicato correttamente i suddetti principi negando la sussistenza dell’attività prevalente ed abituale di lavoro dell’intimata.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
Spese secondo soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna l’Inps al pagamento del spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 2500 per compensi professionali, oltre spese al 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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