CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 novembre 2021, n. 34418

Licenziamento collettivo – Vizio della comunicazione di apertura – Violazione dei criteri di scelta – Effettiva necessità dei programmati licenziamenti – Accertamento

Premesso

che con sent. n. 173/2020, pubblicata il 5 maggio 2020, la Corte di appello di Firenze ha respinto il reclamo di T.S. S.p.A. e confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede – come già all’esito della fase sommaria – aveva annullato il licenziamento intimato a B.C. in data 21 settembre 2017 a conclusione della procedura ex artt. 4 ss. L n. 223/1991 avviata con comunicazione del 3 luglio 2017, disponendo applicarsi la tutela di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 sul rilievo della idoneità del vizio della comunicazione di apertura a determinare la violazione dei criteri di scelta;

– che la Corte ha fondato la decisione sul richiamo di un proprio precedente (sentenza n. 147/2019), reso a fronte dell’impugnazione di un altro licenziamento intimato nell’ambito della medesima procedura, rilevando in particolare che: – né con la comunicazione del 3 luglio 2017, né con l’Accordo sindacale del 2 novembre 2016 (rispetto al quale la procedura era stata riavviata “in continuità”), erano state indicate le ragioni che giustificavano la limitazione dei lavoratori da licenziare ai soli addetti alle unità produttive dell’area di Firenze e non anche le ragioni che impedivano di ovviare ai licenziamenti (anche solo in parte) con il trasferimento dei dipendenti in esubero nell’unità di Nusco, sebbene anche in quest’ultima esistesse un reparto di assemblaggio con lavoratori di analogo profilo professionale; – tale vizio non risultava sanato ai sensi del comma 12 dell’art. 4 l. n. 223/1991 poiché nell’Accordo finale del 19 settembre 2017 le parti si erano semplicemente date atto di avere esperito la procedura, senza alcun riferimento alla volontà di operare una “sanatoria”; – era da condividere l’applicazione della tutela di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, secondo quanto già ritenuto sul punto dal giudice dì primo grado;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società con quattro motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso;

Rilevato

che con il primo motivo di ricorso viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., avendo la Corte di appello omesso di prendere in considerazione ciò che la società aveva invece effettivamente esplicitato sia nella comunicazione di avvio della procedura, sia nell’Accordo 2 novembre 2016 (e, prima ancora, nella comunicazione di avvio della procedura aperta nel 2016, che tale Accordo aveva concluso) e cioè le ragioni tecnicoproduttive e organizzative, in forza delle quali gli esuberi erano da ritenersi sussistenti soltanto nelle unità produttive dell’area di Firenze, e non anche in quella di Nusco, e l’impossibilità di procedere alla loro ricollocazione;

– che, con il secondo motivo, viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1369 cod. civ. in relazione all’Accordo sindacale 2 novembre 2016 e all’Accordo sindacale 19 settembre 2017 (per quest’ultimo, nella parte riferibile ad una eventuale “sanatoria” dei vizi procedurali), non avendo la Corte avuto riguardo né al tenore letterale degli stessi, né alla volontà dei contraenti;

– che, con il terzo, viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, commi 2, 3 e 12, e degli artt. 5 e 24 l. n. 223/1991, avendo la Corte di appello errato nel ritenere che la società avrebbe dovuto indicare le ragioni del mancato coinvolgimento nella procedura di mobilità anche degli addetti all’unità produttiva di Nusco, poiché con la comunicazione di avvio erano stati compiutamente forniti tutti gli elementi prescritti al fine di assicurare un effettivo confronto sindacale; avendo inoltre errato nell’escludere che con l’Accordo sindacale dei 19/9/2017 fosse intervenuta alcuna sanatoria dei vizi della comunicazione di cui all’art. 4, comma 2, in quanto, con tale accordo, sebbene non approvato dall’assemblea dei lavoratori, le parti si erano date “comunque” atto dell’avvenuto esperimento della procedura;

– che, con il quarto, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 12, e 5 l. n. 223/1991, nonché degli artt. 18, commi 4 e 7, l. n. 300/1970, la società ricorrente si duole che la Corte abbia confermato la sentenza di primo grado là dove, con l’annullamento del licenziamento, era stata disposta la reintegrazione della lavoratrice, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria fino a dodici mensilità, poiché, essendo stato rilevato un mero vizio procedurale, la tutela da applicarsi era quella indennitaria;

osservato

che il primo motivo è inammissibile in presenza di c.d. “doppia conforme” (art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ.); né la ricorrente, ai fine di evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi);

– che risulta anzi dimostrata la piena sovrapponibilità delle due pronunce, poiché sia il Tribunale che la Corte di appello di Firenze hanno essenzialmente accertato, sulla base della documentazione prodotta, come la società non avesse chiarito le ragioni per le quali la platea dei licenziandi doveva essere ridotta ai soli addetti alle unità produttive dell’area di Firenze e non poteva essere estesa a quelli dell’unità di Nusco, sebbene anche in questo stabilimento esistesse un reparto di assemblaggio (la C. e gli altri licenziati dell’area fiorentina erano stati adibiti al reparto manufacturing assembly) cui erano assegnati dipendenti di analogo profilo professionale;

– che, in ogni caso, il fatto “decisivo”, che si denuncia come omesso, può essere soltanto secondo il paradigma normativo dell’art. 360 n. 5 – un “fatto storico” (in questi termini già Sez. U n. 8053 e n. 8054 del 2014), vale a dire un accadimento, o una situazione, che appartengano al mondo esteriore e siano connotati in senso naturalistico, così da concorrere, con attitudine determinante, alla ricostruzione fattuale della vicenda dedotta in giudizio;

– che, nella specie, la ricorrente lamenta, invece, una carenza di adeguata lettura dei documenti prodotti (in particolare, della comunicazione di avvio del 3 luglio 2017 e della comunicazione 6 settembre 2016, nonché dell’Accordo concluso il 2 novembre 2016) e dunque, in sostanza, un’erronea interpretazione del loro contenuto;

– che egualmente inammissibile è il secondo motivo;

– che esso, infatti, non si conforma nella sua formulazione al più volte affermato principio di diritto, secondo il quale l’interpretazione dei contratti, e degli atti negoziali in genere, è riservata all’esclusiva competenza del giudice di merito, essendo il sindacato di legittimità limitato alla sola verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ., nonché alla coerenza e logicità della motivazione; con la conseguenza che, qualora venga dedotta la violazione dei citati canoni interpretativi, deve essere precisato in qual modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, senza che sia sufficiente a tale scopo il generico richiamo ai criteri astrattamente intesi e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti non riferibile a tale violazione, ma consistente nella prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (Cass. n. 1754/2006, fra le molte conformi);

– che, in particolare, quanto all’Accordo del 2 novembre 2016, non risulta chiarito perché la Corte territoriale avrebbe trascurato di applicare, o avrebbe erroneamente applicato, i criteri di cui all’art. 1362 cod. civ. (cfr. ricorso per cassazione, p. 67), limitandosi la censura a indicare la rilevanza di taluni elementi considerati idonei a giustificare un diverso esito interpretativo; mentre, quanto all’Accordo del 19 settembre 2017, è immediatamente desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata che la Corte, al contrario di quanto affermato dalla ricorrente con il motivo in esame, ha utilizzato, nell’escludere la ricorrenza di una “sanatoria”, proprio il criterio letterale (cfr. p. 8, 4° capoverso), riportando il tenore della clausola e così sottolineando che, con essa, le parti si erano date atto unicamente dell’esperimento della procedura (senza indicazioni circa la sua “correttezza” o altri elementi che potessero implicare una volontà “sanante”);

– che anche il terzo motivo non può trovare accoglimento;

– che la Corte di appello ha accertato come sia nella comunicazione del 3 luglio 2017, sia nell’Accordo del 2 novembre 2016 (e neppure in altri accordi raggiunti nel corso della procedura), fossero state “mai indicate le ragioni per cui l’ambito entro il quale scegliere i lavoratori da licenziare” dovesse essere “limitato alle sole unità dell’area fiorentina e non anche a quella di Nusco” (cfr. sentenza, p. 7);

– che le conclusioni, cui la medesima Corte è pervenuta sulla base di tale accertamento (che – si ribadisce – resta incensurato, per la inammissibilità del primo e del secondo motivo), risultano pienamente in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte e ancora di recente affermato che “In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, le esigenze di cui all’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della L n. 223 citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti” (Cass. n. 22178/2018; conforme, fra le molte n. 4678/2015);

– che la sentenza impugnata si sottrae alle censure svolte con il presente motivo anche là dove ha escluso la configurabilità, nell’Accordo del 19 settembre 2017, di una clausola di “sanatoria” ex art. 4, comma 12, l. n. 223/1991;

– che, infatti, quest’ultima, indipendentemente dalla mancata ratifica dell’accordo da parte dell’assemblea dei lavoratori, non può dirsi integrata mediante l’apposizione di una mera clausola di stile (come nella specie: “Le parti con la firma del presente verbale si danno comunque atto di avere esperito la procedura di cui agli articoli 4 e 24 della Legge 223/1991”), richiedendosi, per la evidente rilevanza degli interessi in gioco, l’adozione di espressioni che, pur non “sacramentali”, diano conto della reale consapevolezza dei vizi della comunicazione e della inequivoca volontà di attuarne il superamento;

– che il quarto motivo è infondato;

– che, risolvendosi il vizio nella violazione dei criteri di selezione dei licenziandi, per la del tutto ingiustificata esclusione dalla comparazione di lavoratori adibiti ad analoghe attività e in possesso di professionalità omogenea, è da ritenersi corretta l’applicazione della tutela ex art. 18, comma 4, l. n. 223/1991, come già precisato da Cass. n. 2587/2018 (conforme Cass. n. 19010/2018);

ritenuto

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.