CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 novembre 2021, n. 34425
Licenziamento – Dirigente – Motivo ritorsivo – Genericità della contestazione disciplinare
Rilevato che
Il Tribunale di Roma respingeva entrambe le opposizioni presentate da A.M.U. e dalla s.p.a. D.C.R.E. SGR, avverso l’ordinanza emessa dal giudice del lavoro di Roma, con la quale, in parziale accoglimento dell’impugnativa del licenziamento intimato alla dirigente il 12.4.16, ne aveva dichiarato l’ingiustificatezza, condannando la società al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista per i dirigenti, quantificata in complessivi 12 mesi di retribuzione globale di fatto.
Il Tribunale respingeva entrambe le opposizioni avendo accertato che il licenziamento non era stato intimato per un motivo ritorsivo ma che esso doveva comunque ritenersi ingiustificato alla luce della genericità della contestazione disciplinare mossa alla lavoratrice.
Avverso la sentenza ha proposto reclamo la società soccombente, la quale formulava le seguenti doglianze: a) erronea interpretazione della lettera di contestazione disciplinare, avendo il giudice confuso una premessa della contestazione con il merito della stessa, in violazione degli artt. 1262 e 1263 c.c.; il giudice avrebbe altresì effettuato una interpretazione atomistica della lettera senza valutare tutta la concatenazione dei fatti contestati; b) erronea interpretazione della lettera di licenziamento, giacché il giudice, nel richiamare l’inciso “tutte le contestazioni della missiva 9.3.16” aveva qualificato il punto 1 della lettera di addebiti come contestazione vera e propria, invece che come premessa; c) erroneità della sentenza laddove affermava che la contestazione era generica; d) erroneità della sentenza ove affermava che la U. non fu posta in condizioni di difendersi adeguatamente non avendo messo a disposizione di essa l’integrale documentazione ispettiva; e) erroneità della sentenza ove riteneva il licenziamento ingiustificato f) con conseguente assenza di diritto all’indennità supplementare (comunque erroneamente quantificata).
La U. resisteva e proponeva a sua volta reclamo.
Con sentenza depositata il 16.4.19, la Corte d’appello di Roma accoglieva il solo reclamo della società, condannando la U. a rimborsare alla prima la somma lorda di €.159.661,28 (indennità supplementare) oltre €.7.835,47 versata a titolo di spese legali.
Condannava la U. al pagamento delle spese di tutti le fasi e gradi del processo.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la U., affidato a due motivi, cui resiste la società con controricorso contenente ricorso incidentale condizionato affidato a tre motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che
1.- Con il primo motivo la U. denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7, 15 e 18 L.n.300/70, oltre che degli artt.434 e 116 c.p.c., per essere la sentenza fondata non su documenti ma sulla valutazione dei documenti fatta dalla società, e per aver omesso la decisione sul fatto controverso dell’addebitabilità dei fatti contestati alla società piuttosto che alla ricorrente.
2.- Con il secondo motivo la U. denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 L. n. 300/70 e 116 c.p.c. per non essere stata rilevata la genericità degli addebiti, ritenuti per giunta provati attraverso un erroneo ampliamento del contenuto degli stessi.
3. I motivi che, stante la loro connessione, possono essere congiuntamente esaminati, sono per un verso inammissibili, richiedendo a questa Corte un riesame dei fatti di causa, e per il resto comunque infondati.
La Corte di merito ha accertato, in base alla specifica doglianza della società reclamante, che nella seconda parte della lettera di addebito la società aveva contestato alla U. di avere assunto comportamenti fortemente conflittuali, non rispettosi dei processi aziendali, ed in particolare: aver trasmesso in data 21.1.16, al responsabile Internet Audit una relazione annuale, in luogo del report richiesto, trasmessa con una prima e-mail anche al presidente della società ed ai membri del collegio sindacale e, con una seconda e-mail, al dott. B., responsabile Internai Audit della capogruppo D. Capital s.p.a. Ciò malgrado al solo dottor B. spettasse redigere la “relazione” in questione, affinché potesse trasmetterla, nel rispetto di quanto previsto dalle procedure aziendali, agli organi competenti della società.
In particolar modo, quanto alla e-mail indirizzata al dr. B., soggetto estraneo alla società, veniva contestato alla U.: “lei ha accompagnato il documento con diversi rilievi polemici ed a tratti diffamatori circa l’operato della società, accusata, tra l’altro, di mancanza di “indipendenza ed equilibrio di giudizio”, nonché di averle tolto la dignità, di aver dato una rappresentazione non fedele alla realtà, di aver posto in essere “mille trappole e vigliaccherie” con la asserita finalità di “calpestare la dignità e ferire la sua persona”, di consentire ai più di non assumere la responsabilità delle proprie azioni, minacciando altresì di portare il documento da lei redatto, assieme a molte altre evidenze all’esterno della società “per un giudizio che possa essere meno squilibrato”, sottolineando altresì che questa storia sarebbe “finita con la sua riabilitazione in azienda o la sua sconfitta decretata da qualcuno esterno”.
Veniva altresì contestato alla U. di aver continuato a lavorare, nonostante la sua malattia, da remoto intervenendo più volte sulle attività in corso e criticando l’operato dei colleghi nella attività di competenze della U. stessa; di aver inviato in data 2.3.16 una email in cui criticava diffusamente l’operato della sua diretta collaboratrice e dei suoi colleghi, nei cui confronti assumeva toni e modalità aggressivi, preannunciando l’invio di una segnalazione in merito all’organismo di vigilanza della società.
I comportamenti contestati, unitamente alle mancanze accertate – consistenti nell’omissione (almeno parziale) dei controlli antiriclaggio (di cui alle pagg.7 e 8 della sentenza impugnata)- appaiono, specie se rapportati al comportamento di un dirigente, assolutamente idonei a ritenere la giustificatezza del recesso (per cui è sufficiente una ragione obiettiva e non pretestuosa).
I motivi sono, per il resto e come detto, inammissibili per criticare essenzialmente l’interpretazione della contestazione disciplinare (interpretazione rimessa al giudice di merito e non censurabile se non per evidenti vizi logici o violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale) ed in sostanza la valutazione degli addebiti disciplinari, e dunque dei fatti contestati, anch’essa rimessa alla discrezionale valutazione del giudice di merito.
Ed invero il vizio di motivazione, giusta il novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non può riguardare un erroneo apprezzamento delle risultanze istruttorie ovvero il travisamento di fatti comunque esaminati nella decisione impugnata (Cass. S.U. n. 22398/16), così come l’interpretazione di un atto unilaterale tra vivi è un apprezzamento (o giudizio) di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in Cassazione in base al novellato n. 5 dell’art. 360, co.1, c.p.c. (ex aliis, Cass. ord. n.10333/18, Cass. n. 17991/18, Cass. ord. n.20718/18), salva la specifica denuncia di violazione delle norme di ermeneutica contrattuale (nella specie insussistente).
In tema di interpretazione del contratto, inoltre, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati, ex aliis Cass.n.2465/15, non essendo necessario che l’interpretazione della corte di merito sia l’unica possibile o la migliore, essendo sufficiente che sia una di quelle possibili, Cass. n.5670/19.
Deve infine considerarsi che mentre la sussunzione del fatto incontroverso (nella sua materialità storica e negli elementi soggettivi ed oggettivi) nell’ipotesi normativa, è soggetta al controllo di legittimità, l’accertamento del fatto controverso e la sua valutazione, pur qualificata la censura come violazione di norme di diritto, è soggetto soltanto al controllo motivazionale (quanto alle sentenze impugnate prima dell’11.9.12) e successivamente all’omesso esame di un fatto storico decisivo, in base al novellato art. 360, comma 1, n. 5. c.p.c.
Deve allora rimarcarsi che “..Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un nuovo e diverso vizio specifico (non essendo più consentita la censura di insufficiente o contraddittoria motivazione, cfr. Cass. sez.un. n. 14477/15) che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez.un. 22 settembre 2014 n. 19881). Cfr. da ultimo Cass. ord. n. 27415/18.
Le censure in esame non appaiono rispettose dei suddetti enunciati.
Sull’addebitabilità dei fatti contestati alla società piuttosto che alla ricorrente, poi, non sono state esposte specifiche e rituali censure.
Va poi rammentato, quanto alla specificità dell’addebito, che la sua previa contestazione, necessaria nei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite (come nella specie) le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.; per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è comunque necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione (cfr. Cass. n.9590/18).
Nella specie la U. risulta essersi difesa adeguatamente rispetto agli addebiti, sicché non può ritenersi sussistere alcuna genericità della contestazione.
Il ricorso principale deve essere pertanto rigettato. Il ricorso incidentale, esplicitamente condizionato, resta assorbito.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito l’incidentale.
Condanna la U. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00 per esborsi, €.5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della U., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.