CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 ottobre 2019, n. 25991
IVA – IVA versata per l’acquisto di beni destinati all’esercizio della propria attività sanitaria – Rimborso – Non sussiste
Rilevato che
dalla narrazione in fatto della pronuncia impugnata si evince che: il Centro Medico Diagnostico A. s.r.l. aveva proposto istanza di rimborso dell’Iva versata per l’acquisto, dal 1995 al 2004, di beni destinati all’esercizio della propria attività sanitaria, in considerazione della immediata applicabilità in proprio favore dell’art. 13, lett. c), parte B della Direttiva Cee n. 388/1977; avverso il silenzio rifiuto dell’amministrazione finanziaria aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Latina; avverso la suddetta pronuncia la contribuente aveva proposto appello;
la Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, ha rigettato l’appello, in particolare, ha ritenuto che: la previsione di cui 13, lett. c), parte B della Direttiva Cee n. 388/1977, era stata oggetto di pronuncia della Corte di giustizia del 6 luglio 2006 (cause C-18/05 e C-155/05) con la quale era stata fornita l’interpretazione dell’ambito di applicazione della medesima, in particolare era stato precisato che l’esenzione prevista si applica solo alla rivendita di beni preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di un’attività oggetto di esenzione secondo la medesima previsione in quanto l’iva versata in occasione dell’acquisto iniziale di detti beni non abbia formato oggetto di un diritto di detrazione; tale linea interpretativa trovava conferma dalla successiva Direttiva n. 2006/112/ Cee nonché nella previsione di cui all’art. 19 del d.P.R. n. 633/1972, che consente la detrazione dell’imposta pagata al momento dell’acquisto o dell’importazione di beni e servizi solo nella misura in cui gli stessi siano impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, oltre che con l’applicazione del pro-rata;
avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso il Centro Medico Diagnostico A. s.r.l. affidato a due motivi di censura; l’Agenzia delle entrate si è costituita depositando controricorso; con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3), 4) e 5), per violazione e falsa applicazione dell’art. 132, cod. proc. civ., dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e dell’art. 7 della legge n. 212/2000, per illogicità, insufficienza e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia relativo alla carenza del presupposto della incodizionabilità nonché alla sussistenza di tutti i presupposti per l’immediata applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 13, parte B, lett. c), della Direttiva Cee n. 388/1977, nonché per carenza di motivazione della sentenza; il motivo è inammissibile;
va evidenziato, in primo luogo, che il motivo è articolato in diverse ragioni di censura relative alla ritenuta violazione dell’art. 360, comma primo, nn. 3), 4) e 5), cod. proc. civ., quindi prospetta errores in iudicando o in procedendo ovvero difetto di motivazione, senza che sia possibile evincere, dal contesto del motivo in esame, una chiara distinzione delle specifiche ragioni di censura che attengono all’una o all’altra delle diverse ipotesi contemplate dalla suddetta previsione normativa e senza adeguatamente specificare quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono invece essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dall’art. 360, comma primo, cod. proc. civ., in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016); in secondo luogo, va osservato che la ragione di fondo che si ricava dall’esame del contenuto del motivo di ricorso in esame attiene alla ritenuta immediata applicabilità della Direttiva Cee n. 388/1977, ritenendo la ricorrente che la stessa abbia i caratteri della sufficiente precisione e della incondizionata formulazione; tale profilo, tuttavia, non è conferente con la ratio deciderteli della pronuncia in esame, in quanto la stessa parte ricorrente evidenzia che, mentre il giudice di primo grado aveva ritenuto che la Direttiva difettasse della incondizionata formulazione, ha poi precisato che il giudice del gravame riteneva come la Direttiva fosse immediatamente applicabile al nostro ordinamento; la pronuncia del giudice del gravame, invero, ha argomentato circa l’esatta portata della previsione contenuta nell’art. 13, parte B, lett. c), della Direttiva Cee n. 388/1977, senza quindi escluderne la immediata applicabilità, ma ha piuttosto ritenuto che il suo contenuto non consentiva, secondo le diverse ragioni poste a fondamento della decisione, di ritenere sussistenti i presupposti per il chiesto rimborso;
questa ragione della decisione non è stata in alcun modo censurata dalla ricorrente, che ha orientato, come detto, la ragione di censura unicamente sotto il profilo della diretta applicabilità della Direttiva in esame;
con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, nn. 3), 4) e 5), per insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione, per violazione dell’art. 132, cod. proc. civ., dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e dell’art. 7 della legge n. 212/2000, riguardo alla sussistenza del diritto della ricorrente al rimborso dell’Iva assolta sugli acquisti in relazione ad operazioni esenti Iva, nonché in relazione all’asserita carenza di prova in ordine alle prestazioni rimborsabili;
in particolare, secondo parte ricorrente, la decisione del giudice del gravame sarebbe illogica, contraddittoria e inconferente rispetto al thema probandum e decidendum oggetto del giudizio, tenuto conto del fatto che la ricorrente svolge attività di laboratorio di analisi in regime di convenzione, sicché sono realizzati i presupposti per l’applicazione dell’esenzione, cioè lo svolgimento di un’attività a condizioni analoghe rispetto a quelle degli organismi pubblici, senza che possa avere rilevanza il fine di lucro perseguito dagli enti privati convenzionati rispetto agli organismi pubblici;
il motivo è inammissibile;
anche in questo caso va rilevato, in primo luogo, che il motivo è articolato in diverse ragioni di censura relative alla ritenuta violazione dell’art. 360, comma primo, nn. 3), 4) e 5), senza alcuna specifica distinzione della riconducibilità ai distinti vizi della sentenza da ricondursi alle diverse ragioni di contestazione; in ogni caso, la ragione di fondo del motivo di ricorso in esame, come sopra delineato, non attiene alla ratio decidendi della pronuncia del giudice del gravame quanto, piuttosto, alle ragioni di decisione di primo grado;
nella sentenza di appello, in realtà, e stato escluso il diritto al rimborso ragionando in ordine al corretto ambito di applicazione della previsione normativa comunitaria, evidenziando chiaramente che la stessa trova applicazione secondo il parametro interpretativo segnato dalla pronuncia della Corte di giustizia del 6 luglio 2006 (cause C-18/05 e C-155/05);
in particolare, proprio con riferimento alla questione in esame, la Corte di giustizia ha precisato che «La prima parte dell’art. 13, parte B, lett. c), della sesta direttiva permette così, con l’esenzione da essa prevista, di evitare che la rivendita di beni formi oggetto di una nuova imposizione, mentre questi ultimi sono stati preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di un’attività esentata in forza dello stesso articolo e, pertanto, in occasione di tale acquisto, l’IVA è stata versata in maniera definitiva, senza possibilità di detrarla. 31 Di conseguenza, occorre risolvere la prima questione posta nella causa C-18/05 e la questione unica posta nella causa C-155/05 dichiarando che la prima parte dell’art. 13, parte B, lett. c), della sesta direttiva dev’essere interpretata nel senso che l’esenzione da essa prevista si applica unicamente alla rivendita di beni preliminarmente acquistati da un soggetto passivo per le esigenze di un’attività esentata in forza dello stesso articolo, in quanto l’IVA versata in occasione dell’acquisto iniziale dei detti beni non abbia formato oggetto di un diritto a detrazione»;
tali principi sono stati applicati dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., Sez. U., 17 aprile 2009, n. 9142); in conclusione, i motivi di ricorso sono inammissibili, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite che si liquidano in complessive euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite che si liquidano in complessive euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.
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