CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 dicembre 2020, n. 28824
Titolare di trattamento pensionistico diretto e di reversibilità – lntegrazione al trattamento minimo – Mero errore materiale – Periodo non compreso nella precedente pronuncia – lnammissibilità della tutela frazionata del credito – Parcellizzazione, con distinti ricorsi, di un credito già esistente al momento della prima domanda
Rilevato che
con ricorso depositato il 27 ottobre 2009, C.R., n.q. di erede di M.S., premesso che quest’ultima era stata titolare di un trattamento pensionistico diretto e di uno di reversibilità, che le era stata negata l’integrazione al trattamento minimo per il secondo e che la questione era già stata esaminata ed accolta con precedente giudizio nel corso del quale la domanda era stata limitata temporalmente, escludendo un primo periodo, per mero errore materiale, ha chiesto la condanna dell’INPS alla ricostituzione della detta pensione di reversibilità quanto al e cioè dal 1.10.1983 al 31 dicembre 2002;
il Tribunale rigettava il ricorso evidenziando la necessità di affermare il principio della infrazionabilità del credito;
su impugnazione della R., la Corte d’appello di Lecce ha riformato la sentenza ritenendo che il citato principio potesse esercitare effetti solo in punto di regolazione delle spese ed ha condannato l’INPS a ricostituire la pensione nei termini richiesti dalla parte;
per la cassazione di tale sentenza, propone ricorso l’INPS, affidato ad unico motivo, cui resiste con controricorso Concetta R..
Considerato che
il ricorrente denuncia la violazione e\o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 c.c. oltre che dell’art. 88 c.p.c. e degli artt. 2 e 111 Cost. lamentando che la decisione della Corte territoriale non risulta conforme ai più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità che hanno ribadito l’inammissibilità della tutela frazionata dello stesso credito;
il motivo è infondato;
quanto al principio dell’infrazionabilità del credito che si assume violato, occorre evidenziare che la questione della legittimità del frazionamento, in distinti processi, della domanda giudiziale relativa al medesimo ovvero a diversi crediti esigibili, derivanti dal medesimo rapporto (in origine ritenuta consentita da Cass. SS.UU. 10.4.2000 n. 108 e poi ritenuta incompatibile con il nuovo assetto costituzionale da Cass. SS.UU. 15.11.2007 n. 23726), riguarda la parcellizzazione, con distinti ricorsi, di un credito già esistente al momento della prima domanda e che può essere azionato sin dall’inizio per l’intero (Cass. n. 11789/17);
in particolare, Cass. SS.UU. n. 4097 del 2017 ha affermato che le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, – sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata;
tali concetti, risultano necessariamente ancorati alla premessa logica che l’attore, il quale, secondo le parole della citata sentenza delle Sezioni Unite n. 4907 del 2017 < deve farsi carico di un esercizio consapevole e responsabile del diritto di azione che la Costituzione gli garantisce>, abbia consapevolmente scelto di frazionare l’esercizio dell’azione. Viceversa, principi elaborati a proposito di tale possibile forma di abuso del processo non sono richiamabili nell’ipotesi in cui il separato esercizio dell’azione derivi da un mero errore materiale nella redazione dell’atto, come è accaduto nel caso di specie;
dalla sentenza impugnata, oltre che dai contenuti dei verbali d’udienza riportati dalla controricorrente, si evince che la originaria parte ricorrente, resasi tempestivamente conto di aver errato nell’indicazione della decorrenza del diritto rivendicato, presentò altro ricorso al medesimo Tribunale e chiese prontamente che i due procedimenti fossero riuniti; per disfunzioni dell’Ufficio, legate all’avvicendamento del magistrato originariamente assegnatario della causa da riunire, tale riunione non fu realizzata;
è evidente che la fattispecie in esame non può essere ricondotta a quella della consapevole frammentazione del credito, ma, più semplicemente, ad una ipotesi di erronea redazione dell’atto che, di per sé, non può logicamente comportare la perdita del diritto solo perché non si è rimediato, non per mancanza della parte attrice, attraverso lo strumento processuale della riunione dei procedimenti di cui all’art. 274 c.p.c.;
in conclusione, il ricorso va rigettato;
le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo;
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna l’INPS al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.