CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 febbraio 2022, n. 5131
Fallimento – Ammissione al passivo – Crediti per prestazioni di consulenza – Esclusione – Violazione del dovere di astensione riguardo ad un’attività di consulenza consapevolmente prestata a favore di un soggetto prossimo allo stato di decozione
Rilevato che
Con decreto del 7 ottobre 2015, il Tribunale di Salerno respingeva l’opposizione al passivo presentata da S. C. volta ad ottenere il riconoscimento del credito di € 43.160, oltre Iva ed interessi, quale compenso per le prestazioni di opera intellettuale svolte in adempimento di un contratto di consulenza professionale stipulato in data 10 luglio 2009 con la società A. A. e C. M. e Pastifici in Salerno s.p.a., poi fallita, avente ad oggetto l’assistenza tecnico-professionale per la prosecuzione della riorganizzazione del gruppo A. e la creazione di una società holding e di società controllate necessarie per le esigenze di razionalizzazione del gruppo in diversi settori.
Osservava il tribunale che dalla documentazione acquisita si evinceva che, nell’analisi aziendale operata in occasione di un precedente mandato professionale del 26 gennaio 2006, il ricorrente aveva evidenziato l’improcrastinabile necessità di incidere sui costi di produzione, e che nemmeno una mera riduzione di essi si sarebbe rivelata funzionale al riordino aziendale; nella relazione del 26 aprile 2007 si rappresentava, poi, che il sistema informativo dell’azienda non era in grado di determinare i costi di produzione per il singolo prodotto e che il risanamento postulava un piano di intervento supportato da numeri credibili e verificati, ribadendosi che si produceva ad un costo più alto del prezzo di mercato e che era a rischio la sopravvivenza aziendale.
Secondo il tribunale, a fronte di tale quadro, a parte l’esiguità della documentazione prodotta a fondamento della domanda, doveva richiamarsi il principio, enunciato dalla giurisprudenza di merito, secondo il quale il professionista adito per la assistenza di un soggetto ormai prossimo alla decozione, ove consapevole del difetto dei presupposti per il salvataggio dell’impresa coi mezzi proposti, deve astenersi dall’attività di consulenza, senza aggravare le perdite, essendo per altro l’oggetto del contratto e della prestazione impossibile e contrario ai principi del sistema fallimentare che vietano atti di aggravamento del dissesto o infruttuosi per la massa.
Avverso tale decreto S.C. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La curatela è rimasta intimata. Il ricorrente ha depositato memoria. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione ovvero la violazione o falsa applicazione di norme di diritto o l’omesso esame circa un fatto decisivo (art. 360, n. 3 e 5, cod. proc. civ.). In particolare il ricorrente evidenzia di aver impugnato il provvedimento del giudice delegato anche in ragione del richiamo operato al procedimento penale, pendente innanzi al Tribunale di Salerno, che lo vedeva imputato per concorso in bancarotta. Il giudice delegato aveva escluso il credito dal passivo fallimentare «anche perché la prestazione è considerata penalmente illecita nel decreto che dispone il giudizio avverso il professionista ove il fallimento è considerato parte offesa per € 52.241,60». Poiché, dunque, la curatela si era costituita come persona offesa nel procedimento penale, il giudice delegato, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto, in applicazione dell’art. 75 cod. proc. pen., ammettere il credito con riserva, ai sensi dell’art. 96 I.fall., in attesa della definizione del processo penale, tanto più che nel procedimento penale la curatela aveva prospettato l’esistenza di un controcredito risarcitorio pari ad € 52.241,60.
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione ovvero la violazione o falsa applicazione di norme di diritto o l’omesso esame circa un fatto decisivo (ex art. 360, n. 3 e 5, cod. proc. civ.), evidenziando che il richiamo fatto dal giudice delegato all’illiceità della prestazione, attesa la pendenza del procedimento penale, contrasta con la presunzione di innocenza, laddove nessuna rilevanza poteva assegnarsi al decreto che dispone il giudizio che, del resto, formulava un’ipotesi accusatoria del tutto infondata. Tali rilievi, benché formulati nel ricorso in opposizione, sarebbero stati del tutto trascurati dal tribunale in sede di opposizione.
2.1. I primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, sono inammissibili.
2.2. Essi, infatti, affrontano un profilo che non è stato proprio trattato dal tribunale che ha incentrato le ragioni del rigetto su ben altri profili: il tribunale, infatti, ha considerato dirimente, «a parte l’esiguità della documentazione posta a fondamento della domanda», la violazione del dovere di astensione riguardo ad un’attività di consulenza consapevolmente prestata a favore di un soggetto prossimo allo stato di decozione (e ciò, dunque, del tutto indipendentemente dalla pendenza del procedimento penale).
2.3. Il ricorrente, quindi, sottopone a censura un aspetto che, pur se trattato dal giudice delegato, non ha costituito in alcun modo il fondamento negativo della decisione impugnata, che affonda le proprie radici in altro fatto, del tutto preliminare, considerato dal tribunale da solo sufficiente a giustificare il rigetto, senza che ciò possa integrare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo non avendo il ricorrente nemmeno allegato (e nemmeno potendolo fare, sussistendo altro profilo da solo idoneo a fondare l’esclusione del credito) la decisività dei fatti trascurati.
3. Il terzo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 33 I.fall., 2697 cod. civ., 112 cod. proc. civ.), nonché l’omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione, evidenziando la scorrettezza dell’assunto secondo il quale il professionista, adito da un soggetto prossimo alla decozione, ove consapevole del difetto dei presupposti per il salvataggio dell’impresa con i mezzi proposti, dovrebbe astenersi dall’attività di consulenza al fine di evitare l’aggravamento delle perdite. Del resto il tribunale avrebbe del tutto errato nel ritenere che il professionista fosse a conoscenza del dissesto societario, in quanto l’insolvenza non era ancora attuale e le stesse banche, che avevano erogato prestiti di significativa entità, non si erano avvedute di nulla.
4. Il quarto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2229 e 2233 cod. civ., 112 cod. proc. civ.), nonché l’omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione, avendo il tribunale operato una valutazione ex post, ingiustificatamente escludendo l’utilità anche solo potenziale dell’attività svolta dal ricorrente, laddove le obbligazioni assunte dal professionista sono di mezzi e non di risultato e, nel caso in esame, fondate su un contratto avente data certa anteriore alla procedura concorsuale.
4.1. I due motivi, che in quanto strettamente connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
4.2. Premesso che il tribunale ha preliminarmente rilevato l’esiguità della documentazione posta dalla parte a fondamento della domanda, la principale ragione del rigetto è stata correttamente fondata sulla violazione dei doveri di diligenza assunti dal professionista mediante il contratto di opera professionale.
4.3. Come giustamente osservato dal P.G., «non vi sono, peraltro, ragioni per escludere che la violazione del dovere di diligenza possa consistere nell’aver omesso di informare il cliente inducendolo a conferire un incarico del tutto inutile ed anzi dannoso per le risorse dell’impresa che potrebbe vedersi costretta ad esborsi inappropriati perché finalizzati ad un obiettivo ipoteticamente favorevole» ma nei fatti irraggiungibile.
4.4. Tale assunto trova conferma nella giurisprudenza di legittimità: Cass. 19/07/2019, n. 19520, in relazione ai doveri informativi a carico dell’avvocato, ha affermato un principio chiaramente suscettibile di regolare le asimmetrie informative in ogni contratto d’opera professionale (compreso il presente caso), laddove afferma che «Nell’adempimento dell’incarico professionale conferitogli, l’obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo, dovendo ritenersi il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello “jus postulandi”, attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire in giudizio».
5. Di tali principi il decreto impugnato ha fatto buon governo, sicché il ricorso va rigettato, mentre nessuna statuizione va adottata riguardo alle spese del presente giudizio di legittimità essendo rimasta intimata la parte vittoriosa.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.