CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 giugno 2020, n. 11624
Tributi – Accertamento – Reddito di impresa – Operazioni inesistenti – Controlli incrociati – Indagini effettuate presso un soggetto terzo – Onere di prova contraria
Rilevato che
– Con sentenza n. 34/01/2012, depositata in data 27 febbraio 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Basilicata, accoglieva l’appello proposto da G.P. nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 192/03/09 della Commissione tributaria provinciale di Matera che aveva rigettato il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio di Pisticci, a seguito di indagini effettuate presso un soggetto terzo, aveva contestato nei confronti di quest’ultimo, esercente attività di installazione di impianti elettrici, un maggiore reddito di impresa, ai fini Irpef, Irap e Iva, per l’anno 2004, per indebita deduzione di costi e detrazione di imposta in relazione a una fattura emessa nei confronti del contribuente dalla ditta S. di S.F.C. di imponibile di euro 23.961,28, oltre Iva, recante la dicitura “pagare 2.000,00 Iva” relativa ad operazioni asseritamente inesistenti;
– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che:l) illegittima era la ripresa a tassazione dei costi dedotti dal contribuente in relazione a una fattura emessa nei confronti di quest’ultimo da S.F.C. – presso la sede della cui ditta era stata reperita – per un imponibile di euro 23.961,28 con la dicitura “pagare 2.000,00 Iva” riferibile all’emittente, in quanto, nella specie, le dichiarazioni rese dal terzo – acquisite dalla polizia tributaria e trasfuse nel p.v.c. – non assurgevano a elemento indiziario della inesistenza delle operazioni dato che il “recupero di euro 2.000,00” avrebbe potuto costituire, sul piano logico, “il recupero di un saldo del prezzo relativo ad una operazione effettiva”; 2) “la valenza probatoria della dicitura in oggetto avrebbe dovuto essere corroborata da ulteriori indagini” atteso che un documento non inserito nella contabilità dell’emittente e in quella del ricevente, di regola, provavano l’esistenza dell’operazione;
– avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato due motivi; rimane intimato il contribuente;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis. 1 cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1 – bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
– con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la CTR
– a fronte della produzione da parte dell’Ufficio di elementi presuntivi della inesistenza dell’operazione ravvisabili nella comprovata paternità del P. della dicitura apposta sulla fattura “pagare euro 2.000,00 Iva” recante la sua firma e nella dichiarazione dell’emittente la fattura circa il carattere “di comodo” della stessa – invertito illegittimamente l’onere della prova sull’Ufficio (richiedendo “ulteriori indagini”), senza fare ricadere sul contribuente quello della prova contraria circa l’effettività dell’operazione;
– con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo della sentenza, avendo la CTR, con un’affermazione apodittica, ricondotto la paternità della dicitura sulla fattura in questione “pagare euro 2.000,00 Iva” all’emittente e non già al contribuente nonché interpretato erroneamente la dichiarazione del terzo S.F.C., negando ad essa valore probatorio, senza considerare che costituiva, di norma, prova della fittizietà della fattura il pagamento dell’Iva all’emittente da parte del destinatario della stessa, e che a fondamento dell’avviso di accertamento vi erano non solo le dichiarazioni del terzo ma soprattutto la documentazione contabile ed extracontabile rinvenuta presso la sede dell’emittente la fattura nonché l’anomala situazione dello studio di settore presentato;
– i motivi – da trattarsi congiuntamente per connessione – sono fondati per le ragioni di seguito indicate;
– va premesso che “ai fini della identificazione del soggetto onerato della prova, nella ipotesi di contestazione formulata dall’Ufficio in ordine alla inesistenza, o parziale inesistenza, delle operazioni commerciali fatturate, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato in tema di iva (ma i principi valgono per tutte le imposte accertabili mediante la contestazione della veridicità delle fatturazioni) che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass., sent. 19352 del 2018; n. 29002 del 2017; n. 428 del 2015; n. 17977 del 2013); in particolare, questa Corte, nelle ipotesi, come quella di specie, di operazioni oggettivamente inesistenti, ha affermato che «ove la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass. nn. 21953/07, 9784/10, 9108/12, 15741/12, 23560/12; 27718/13, 20059/2014, 26486/14, 9363/15; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006, C-439/04; 21 febbraio 2006, C-255/02; 21 giugno 2012, C-80/11; 6 dicembre 2012, C-285/11; 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, dopo di che spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; tale prova, tuttavia, non può consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. nn. 28572 del 2017; 5406 del 2016, 28683 del 2015, 428 del 2015, 12802 del 2011, 15228 del 2001); e comunque, una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente [rilevante invece nella diversa ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti], il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo» (Cass. n. 18118 del 2016, in motivazione; Cass. n. 16473 del 2018); quanto alla prova di cui è onerata l’Amministrazione, e che già dal principio appena riportato si desume possa avere anche solo natura indiziaria, la Corte ha affermato che ai fini dell’accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) ed art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove “certe”. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. e 2697, comma 2,c.c. (Cass., ord. n. 14237 del 2017);
– quanto al denunciato vizio motivazionale, per insegnamento consolidato di questa Corte la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, oppure quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (Cass., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24148; Cass. n. 10211 del 2018); ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. 30822 del 2017; Cass. n. 19547 del 2017);
-la CTR, non facendo buon governo dei principi sopra richiamati, con una motivazione incongrua e affetta da vizi logici-giuridici – a fronte del recupero da parte dell’Ufficio dei costi dedotti dal contribuente in relazione ad una fattura asseritamente fittizia emessa dalla ditta S. di S.F.C. – presso la cui sede veniva rinvenuta – non registrata nella contabilità dell’emittente, recante la firma di P. Giuseppe e la annotazione “pagare euro 2.000,00 Iva” (v. stralcio avviso di accertamento riportato in ricorso pag. 6) apoditticamente riferendo la detta dicitura all’emittente – ha ritenuto illegittimo l’accertamento valutando isolatamente la dichiarazione del terzo (F.S.) circa fittizietà della fattura in questione (c.d. di comodo)- che ha stimato non assurgere neanche ad indizio – sull’asserito presupposto della possibile, sul piano logico, corrispondenza del “recupero di euro 2.000,00″al “recupero di un saldo del prezzo relativo ad una operazione effettiva” – e, dunque, omettendo di considerare gli altri elementi indiziari posti dall’Ufficio a fondamento dell’accertamento (annotazione, firma del contribuente, mancata registrazione della fattura nella contabilità dell’emittente) e affermando erroneamente, sul punto, che tali ulteriori elementi difettassero del tutto; ciò in contrasto con l’insegnamento di questa Corte secondo cui “nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7, decreto legislativo n. 546/1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice” (Cass. civ., 2 ottobre 2019 n. 24531; 16 maggio 2019, n. 13174; Cass. civ., 7 aprile 2017, n. n. 9080); invero, nella mancata valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari posti dall’Ufficio a fondamento dell’accertamento (fattura non contabilizzata dall’emittente, firma del destinatario, annotazione e dichiarazione del terzo), la CTR ha disatteso il principio di diritto secondo cui «La valutazione della prova presuntiva esige che il giudice di merito esamini tutti gli indizi di cui disponga non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, cosi da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare» (Cass. sez. 3, n. 5787 del 2014; v. Cass., sez. 6-5, n. 30276 del 2017); in particolare, al riguardo, si osserva che, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, nella ricerca e nella valutazione degli elementi presuntivi del proprio convincimento, il giudice del merito è investito del più ampio potere discrezionale, nel senso che è libero di scegliere gli elementi che ritiene maggiormente attendibili e meglio rispondenti all’accertamento del fatto ignoto ed a valutarne la gravità e la concludenza. Tale potere discrezionale vale tuttavia allorché detto giudice giunga alla conclusione della sussistenza del fatto ignoto; quando, invece, perviene a diversa conclusione, non può escludere dalla valutazione quegli elementi di fatto che, se presi in considerazione, avrebbero comportato un differente giudizio. Tuttavia, nella ricerca di tali elementi, il giudice non può trascurare dal prendere in esame quelli che appaiono maggiormente indizianti, salvo che non motivi congruamente e logicamente tale omissione; in ogni caso, deve comunque procedere ad un esame organico e complessivo (globale) degli elementi di fatto presi in considerazione, cioè esprimere un ragionamento non viziato da illogicità o da errori giuridici, quale l’esame isolato dei singoli elementi presuntivi, al fine di ritenerne la irrilevanza caso per caso (Cass. n. 7084-90; n. 6850-82; n. 2002-76). È ovvio poi che, se in tema di prove per presunzione, il controllo della Corte di Cassazione non può riguardare il convincimento del giudice del merito sulla rilevanza probatoria degli elementi indiziari o presuntivi, convincimento che costituisce indubbiamente un giudizio di fatto, può tuttavia incidere sulla congruità e logicità della motivazione posta a base del cennato convincimento (Cass. n. 26923 del 2019); la valutazione isolata della dichiarazione del terzo ha comportato, altresì, uno erroneo aggravamento dell’onere probatorio a carico dell’Amministrazione, avendo la CTR affermato che, “la valenza probatoria della dicitura avrebbe dovuto essere corroborata da ulteriori indagini”;
– in conclusione, il ricorso va accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio – anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità – alla Commissione tributaria regionale della Basilicata, in diversa composizione per un riesame della vicenda nel merito;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia – anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità – alla Commissione tributaria regionale della Basilicata, in diversa composizione;