CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 giugno 2021, n. 17018
Tributi – IVA – Accertamento – Termini – Mancata adesione ai condoni ex artt. 7 e 8 della Legge n. 289 del 2002 – Proroga biennale dei termini di accertamento – Legittimità – Operazioni ritenute soggettivamente inesistenti – Deducibilità – Onere di prova di effettività, inerenza, competenza, certezza e determinabilità dei costi
Rilevato che
E.M.C. impugnava l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per Iva, Irpef e Irap per l’anno 2002, con il quale era stata rideterminato il reddito d’impresa ed era stato recuperato il credito Iva, già concesso a rimborso, in quanto relativo ad operazioni soggettivamente inesistenti.
La contribuente deduceva la decadenza dell’azione accertativa dell’Amministrazione per l’inapplicabilità della proroga del termine biennale prevista dall’art. 10 l. n. 289 del 2002, non essendosi avvalsa del condono, e l’infondatezza della pretesa erariale.
L’impugnazione era rigettata dalla CTP di Cosenza. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.
E.M.C. propone ricorso per cassazione con quattro motivi, poi illustrato con memoria. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Considerato che
1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 22 dir. 77/388/CEE, come sostituita dalla dir. 2006/112/CE, dell’art. 10 del Trattato CE e degli artt. 57 d.P.R. n. 633 del 1972 e 43 d.P.R. n. 600 del 1973 per aver la CTR disatteso l’eccezione di tardività dell’accertamento ai fini Iva dovendosi escludere l’applicabilità della proroga biennale dei termini dell’accertamento in forza della decisione della Corte di Giustizia, 17 luglio 2008, Commissione CE c/Italia, in C-132/06, che ha escluso la compatibilità comunitaria della disciplina del condono estesa all’Iva.
2. Il motivo è infondato.
2.1. Occorre prendere le fila, invero, dalla stessa sentenza invocata, che, nell’affermare che “in conformità al principio della neutralità fiscale,… nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e beneficiano, a tale riguardo, di una certa libertà”, ha precisato che tale libertà “è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare contribuenti” (punti 38 e 39).
Alla luce di questo principio, dunque, la valutazione della Corte si è soffermata dapprima sull’art. 8, l. n. 289 del 2002, osservando che “I contribuenti che non hanno osservato gli obblighi relativi agli esercizi d’imposta compresi tra il 1998 e il 2001 – ovvero, in determinati casi, un anno soltanto prima dell’adozione di questa legge – possono sottrarsi ad ogni accertamento e alle sanzioni applicabili fino a un limite equivalente al doppio dell’importo dell’IVA che risulta nella dichiarazione integrativa”, sottrazione che risulta definitiva.
Analogamente quanto al successivo art. 9 che “consente ai contribuenti che non hanno osservato gli obblighi in materia di IVA, relativi agli esercizi d’imposta compresi tra il 1998 ed il 2001, di sottrarsi definitivamente a questi ultimi e alle sanzioni dovute per il mancato rispetto degli stessi, versando … delle somme forfettarie sproporzionate rispetto all’importo che il soggetto passivo avrebbe dovuto versare sulla base del volume d’affari risultante dalle operazioni da lui effettuate, ma non dichiarate”.
2.2. La Corte ne ha derivato la conseguenza che “gli artt. 8 e 9 della legge n. 289/2002 svuotano di contenuto” gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva, che sono alla base del sistema comune dell’IVA “e incidono, pertanto, sulla struttura stessa di questa imposta” poiché comportano “una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta”.
2.3. Emerge, dunque, una univoca e chiara indicazione: non sono compatibili con l’ordinamento unionale le disposizioni che, se applicate all’Iva, porterebbero ad una indiscriminata rinuncia all’accertamento dell’imposta dovuta, principio, questo, ribadito in termini ancor più netti dalle successive sentenze 11 dicembre 2008, C-174/07 (relativa all’art. 3, comma 4, l. n. 350 del 2003, estensiva 2002 del condono) e 15 luglio 2015, C-82/14 (relativa alla riduzione dell’Iva e al rimborso di cui all’art. 9, comma 17, della l. n. 289 del 2002).
L’art. 10, della l. n. 289 del 2002, invece, stabilisce che “per i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9 della presente legge, in deroga alle disposizioni dell’articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, i termini di cui all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e all’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, sono prorogati di due anni”.
Si tratta, pertanto, di una disposizione di portata complementare ma opposta a quella dei citati artt. 8 e 9: i termini di accertamento (i.e. i termini entro i quali l’Amministrazione può procedere all’accertamento) sono prorogati di un biennio se il contribuente non si avvale della disciplina condonistica.
Non si assiste, in altri termini, ad una “indiscriminata rinuncia all’accertamento dell’imposta dovuta” ma, anzi, viene assicurato, rispetto alla generalità dei contribuenti che non si sono avvalsi della disciplina di favore, un più congruo termine per portare a compimento l’accertamento.
2.4. Se ne può dedurre che l’applicazione dell’art. 10 non è impedita od ostacolata, in sé, dalle statuizioni della Corte di Giustizia.
La ratio della disposizione, del resto, risponde a ben altra finalità, congruamente ed utilmente individuata dalla Corte costituzionale (sent. n. 356 del 2008), che ha affermato che la proroga dei termini risponde a finalità ed esigenze proprie dell’Amministrazione che, in concomitanza con l’approvazione del condono si trova a dover compiere ulteriori e gravosi accertamenti («si deve rilevare che la proroga disposta dalla norma censurata (art. 10) ha la finalità non di “punire” chi abbia scelto di non avvalersi del condono, ma di ovviare al sensibile aggravio di lavoro e ai relativi rischi di disservizio e di mancato rispetto degli ordinari termini di prescrizione e di decadenza della pretesa fiscale, che prevedibilmente derivano agli uffici finanziari dalla necessità di eseguire le operazioni di verifica conseguenti alla presentazione delle richieste di condono dei contribuenti»).
2.5. Va dunque data continuità al principio affermato dalla Corte, secondo il quale “In tema di condono fiscale, dalla incompatibilità con il diritto dell’Unione europea del condono per IVA di cui alla l. n. 289 del 2002 non discende la disapplicazione dell’art. 10 della I. citata, che dispone la proroga di due anni dei termini per l’accertamento, poiché tale norma non comporta alcuna rinuncia al pagamento di quanto dovuto per tale imposta, ma anzi ne costituisce un rafforzamento dell’accertamento e della riscossione” (Cass. n. 24014 del 24/11/2016; Cass. n. 17621 del 05/07/2018).
3. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c.per aver reso la CTR una motivazione apparente, con rinvio per relationem a prove non illustrate e, acriticamente, alle conclusioni della sentenza di primo grado.
Denuncia, inoltre, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. omesso esame di fatti decisivi con riguardo alla destinazione dell’immobile acquistato alla propria attività commerciale e all’effettivo esercizio della stessa, avendo la CTR omesso di valutare la documentazione offerta a riprova dalla contribuente.
3.1. Il primo profilo della doglianza è infondato ed ai limiti dell’inammissibile.
3.2. La CTR, infatti, ha precisato che «per quanto riguarda il merito, è stata raggiunta la prova che le fatture emesse sono relative ad operazioni inesistenti. Dalla disamina delle scritture e dei documenti contabili, i cui dati vengono esposti nella dichiarazione fiscale, è emersa, infatti, la non effettiva corrispondenza alla realtà dei dati indicati in fattura, trascritti nei registri obbligatori e riportati nella dichiarazione annuale. L’Amministrazione finanziaria ha, all’uopo, fornito oggettivi elementi di prova in ordine all’inesistenza dell’operazione o all’inattendibilità delle scritture esibite dalla contribuente, senza che quest’ultima abbia offerto la prova circa la verità ed inerenza dell’operazione medesima».
Si tratta di motivazione che, seppure sintetica, permette con chiarezza di comprendere le ragioni e l’iter della decisione, esclusa dunque ogni apparenza. Né si pone una questione di motivazione con mero rinvio alla decisione della CTP, avendo il giudice d’appello sì condiviso le conclusioni della sentenza di primo grado ma con autonoma e specifica enunciazione delle ragioni poste a fondamento della sua decisione.
È parimenti escluso che sia stato operato un rinvio generico ed astratto alle fonti di prova, che, invece, sono specificamente indicate – e agilmente individuabili – con una valutazione concreta e in fatto delle loro risultanze, risolvendosi la censura, dunque, in una contestazione della sufficienza e adeguatezza della motivazione, non più consentita ex art. 360 n. 5 c.p.c.
3.3. Inammissibile è il secondo profilo di doglianza.
3.4. La contribuente, infatti, lamenta l’omesso esame di elementi istruttori, individuati in a) registro degli acquisti e fatture dei fornitori dei prodotti dolciari posti in vendita, nel periodo, nel negozio della contribuente; b) le fatture per la fornitura di energia elettrica relative all’immobile de quo; c) verbale di sopralluogo del 27.11.2003 della U.O. Igiene Pubblica dell’AsI 2 di Castrovillari, da cui si evincerebbe che l’attività era effettivamente esperita; d) lettera di assunzione della contribuente presso le Poste Italiane del 8.6.2004.
Occorre tuttavia ricordare che, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 8053 del 2014, Rv. 629831), il nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; la parte ricorrente è tenuta ad indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., e art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.
– il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
Orbene, le suddette condizioni sono assenti: la doglianza è carente in punto di autosufficienza poiché nessun atto è stato riprodotto; né è stato precisato come e quando siano stati oggetto di discussione e siano stati posti all’attenzione del giudice; carente è pure l’asserita decisività e ciò tanto più che una parte degli asseriti fatti sono relativi ad annualità diverse da quella oggetto della ripresa (mentre, per quanto riguarda gli elementi sub b), nessuna annualità viene indicata in ricorso).
4. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 8 d.l. n. 16 del 2012 conv. con la l. n. 42 del 2012 per aver la CTR escluso la deducibilità dei costi ancorché afferente ad operazioni soggettivamente inesistenti.
4.1. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.
La lamentata violazione di legge non sussiste atteso che, seppure, in forza dell’art. 8, comma 1, d.l. n. 16 del 2012, non è preclusa la deducibilità dei costi sostenuti in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti, occorre pur sempre, tuttavia, che il contribuente dimostri che essi rispondono ai requisiti di effettività, inerenza, competenza, certezza e determinabilità (ex multis Cass. n. 4645 del 21/02/2020; Cass. n. 32587 del 12/12/2019; Cass. n. 27566 del 30/10/2018), requisiti la cui sussistenza, con puntuale valutazione in fatto («senza che quest’ultimo abbia offerto la prova circa la verità ed inerenza dell’operazione medesima»), qui non più censurabile, è stata espressamente esclusa dalla CTR, da cui l’inammissibilità, in parte qua, del motivo.
5. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 132 c.p.c.e 118 disp. att. c.p.c. per aver la CTR omesso ogni statuizione sul motivo relativo alla contestata rideterminazione del reddito d’impresa, non avendo l’Ufficio specificato nell’avviso gli elementi di fatto e diritto a suo fondamento.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Premesso che la doglianza avrebbe dovuto essere proposta come omessa pronuncia, il motivo, oltre che inammissibilmente mancante di specificità, è del tutto carente per autosufficienza.
Va rilevato, infatti, la ricorrente ha omesso di riprodurre la doglianza su cui la CTR avrebbe omesso di statuire ma si è limitata ad un generico riassunto della stessa.
È invece necessario, ai fini della deducibilità in cassazione, che al giudice del merito sia stata rivolta una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi (Cass. n. 15367 del 04/07/2014; in termini generale v. anche Cass. n. 20924 del 05/08/2019).
6. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, sono regolate per soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna E.M.C. al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessive € 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.