CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2018, n. 18825
Licenziamento disciplinare – Grave insubordinazione nei confronti del suo superiore gerarchico – Rifiuto di svolgere talune mansioni – Espressioni minacciose – Prova
Rilevato che
Con sentenza resa pubblica in data 7/7/2016 la Corte d’appello di Messina confermava la pronuncia del giudice di prima istanza il quale aveva rigettato le domande proposte da G.A. nei confronti della s.p.a. P. volte a conseguire l’annullamento di due sanzioni disciplinari irrogategli in data 28/10/2010 e 9/11/2010, ed accolto il ricorso con il quale il lavoratore aveva impugnato il licenziamento disciplinare irrogatogli in data 27/12/2010.
A fondamento del decisum la Corte distrettuale de duceva, per quel che in questa sede interessa, che l’ultimo addebito contestato al dipendente consisteva nell’aver assunto un comportamento di grave insubordinazione nei confronti del suo superiore gerarchico il quale aveva chiesto di svolgere talune mansioni – peraltro non rientranti nelle sue competenze – che egli si era rifiutato di svolgere.
Opinava tuttavia, che detto comportamento non poteva considerarsi dimostrato alla stregua del materiale istruttorio raccolto, giacchè aveva rinvenuto conferma esclusivamente nelle dichiarazioni rese dal teste D.P. – considerato direttamente coinvolto nella vicenda, per essere state a lui indirizzate le dedotte espressioni minacciose – non ulteriormente riscontrate da quelle rese dagli altri testimoni escussi.
Perveniva, quindi, al convincimento della insussistenza del comportamento addebitato al lavoratore, che avrebbe perpetuato la contestata recidiva nell’insubordinazione.
Avverso tale decisione la società P. interpone ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste con controricorso l’intimato. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Considerato che
1. Con due motivi la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si duole che la Corte distrettuale abbia disposto malgoverno del materiale istruttorio, sminuendo il peso probatorio delle dichiarazioni rese dal teste D.P. e tralasciando la valenza di quelle rese da altro testimone, il quale avrebbe invece supportato in chiave confermativa, la deposizione del D.P..
Critica altresì la Corte territoriale per non aver correttamente scrutinato la fattispecie complessiva che comprendeva un articolato comportamento di insubordinazione, aggravato dalla recidiva specifica con riferimento ai fatti posti in essere in contesto extra lavorativo nei confronti del responsabile del personale della società, in tal modo elaborando un non corretto giudizio in ordine alla proporzionalità della sanzione irrogata alla mancanza ascritta.
2. I motivi che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, vanno disattesi.
Essi, nella sostanza, si traducono nella critica della sentenza impugnata in ordine alla prova dei fatti oggetto di addebito che attengono alla ricostruzione della vicenda storica quale elaborata dalla Corte di Appello ed alla valutazione del materiale probatorio operata dalla medesima, esprimendo un diverso convincimento rispetto a quello manifestato dai giudici del merito, non consentito nella presente sede di legittimità (vedi ex plurimis, Cass. 11/1/2016 n. 195, Cass. 16/7/2010 n. 16698).
Secondo il costante orientamento espresso da questa Corte (vedi ex plurimis, Cass. 11/1/2016 n. 195), da ribadirsi in questa sede, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispècie astratta recata da una norma di legge ed implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione, che nella specie, non viene prospettato.
L’accertamento in fatto della ricorrenza delle condizioni che concorrevano a definire la sussistenza del comportamento ascritto al ricorrente, mediante la rivalutazione e l’apprezzamento del complessivo materiale probatorio acquisito al giudizio, non è, quindi, scrutinabile, in quanto tende a stigmatizzare l’impugnata sentenza per il malgoverno dei dati istruttori acquisiti, veicolando la critica mediante uno strumento non appropriato, e così pervenendo ad una revisione delle valutazioni della Corte di merito per il conseguimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (vedi ex aliis, Cass. 4/4/2014 n. 8008, Cass. SS.UU. 25/10/2013 n. 24148).
E’ bene ricordare che il ricorso per cassazione non introduce un terzo giudizio di merito tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia dei vizi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ.
La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono infatti apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (vedi ex aliis, Cass. 4/7/2017 n. 16467).
3. Deve poi, considerarsi che con il nuovo testo dell’art. 360 cod. proc. civ. n. 5 applicabile alla fattispecie ratione tempons, la scelta operata dal legislatore è stata quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”, sotto il profilo della mera motivazione apparente, motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, ovvero mancante sotto il profilo grafico.
4. Nello specifico, deve rilevarsi che la Corte di merito ha proceduto ad un accertamento in concreto ampio e articolato del materiale istruttorio acquisito, argomentando in ordine alla valenza delle deposizioni testimoniali raccolte, valutandone il diverso peso probatorio e pervenendo alla conclusione che la condotta ascritta al lavoratore – consistita nel rifiuto di svolgere alcune mansioni assegnategli, assumendo un tono minaccioso nei confronti del suo superiore – non fosse stata dimostrata: da un canto non era stato confermato l’uso di espressioni minacciose nei confronti del superiore; dall’altro era emerso che le mansioni richieste (movimentazione di un tubo di peso superiore agli 80 kg), non rientravano nei compiti a lui assegnati e non erano pertanto, esigibili. La pronuncia impugnata non risponde, quindi, ai requisiti della mera apparenza ovvero della illogicità manifesta che avrebbero giustificato il sindacato in questa sede di legittimità.
L’espletato accertamento investe pienamente la quaestio facti, e rispetto ad esso il sindacato di legittimità si arresta entro il confine segnato dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014.
5. Onde perde ogni rilievo anche la questione prospettata in ordine alla violazione del principio di proporzionalità della sanzione al comportamento addebitato, giacchè, nello specifico, dal giudice del gravame è stata ritenuta mancante del tutto la prova del fatto oggetto di contestazione, con motivazione, per quanto sinora detto, esente da censure.
Né assume valenza significativa ai fini qui considerati, la sentenza di condanna irrogata in sede penale dal Tribunale di Messina, confermata in sede di appello, per il reato di violenza privata, inerente ad uno degli episodi oggetto di sanzione disciplinare, attinente ad una condotta che non è rilevante giacchè non attiene all’episodio oggetto di contestazione in relazione al provvedimento espulsivo irrogato, la Corte distrettuale ha ritenuto indimostrato.
Alla stregua dei consolidati e condivisi principi esposti, i motivi di doglianza vanno disattesi. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso – art. 13.
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