CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2018, n. 18826
Licenziamento disciplinare – Attività di collocazione e consegna dei prodotti alimentari commercializzati presso i clienti – Sottrazione di denaro – Sostituzione di contanti con un assegno personale – Intensità del profilo intenzionale – Proporzionalità della sanzione
Rilevato che
La Corte d’Appello di Napoli confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta da V. De G. nei confronti della B. s.r.l. volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli in data 2/3/2011.
La Corte distrettuale perveniva a tali conclusioni, condividendo l’iter motivazionale percorso dal giudice di prima istanza.
Questi aveva accertato la fondatezza degli addebiti mossi al ricorrente – il quale svolgeva attività di collocazione e consegna dei prodotti alimentari commercializzati presso i clienti in qualità di piazzista – e consistiti, in sintesi, nell’aver in una occasione trattenuto per sé i contanti ricevuti da clienti diversi dal destinatario della merce, versando in cassa fra l’altro, un assegno di elevato importo, emesso dal cliente “il G.” (bloccato quanto a possibili dilazioni di pagamento), successivamente risultato insoluto; nell’avere emesso due fatture con pagamento dilazionato in favore dello stesso cliente “bloccato” per superamento di fido; nell’aver versato due asségni rilasciati dal medesimo cliente a saldo di fatture, poi rimasti insoluti.
Tali comportamenti rivestivano valore di particolare-gravità avuto riguardo all’interesse della parte datoriale ad una corretta esecuzione della prestazione lavorativa, giustificando l’irrogazione della massima sanzione disciplinare.
Avverso tale pronuncia interpone ricorso per cassazione il De G. affidato ad unico motivo.
Resiste con controricorso la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Considerato che
1. Con unico articolato motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 12 disp. sulla legge in generale in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art.360 comma primo n. 5 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia ritenuto dimostrate le circostanze oggetto dell’atto di incolpazione e le abbia reputate idonee ad integrare la giusta causa di licenziamento. Si richiama a sostengo della critica, la prassi aziendale che consentiva ai piazzisti di cambiare gli assegni con denaro contante incassato durante le vendite, erroneamente considerata smentita dalle testimonianze acquisite, e si evidenzia la circostanza trascurata dai giudici del gravame, concernente il deposito di numerosi assegni intestati alla convenuta ed incassati da esso ricorrente in assenza di rilievi da parte dei superiori.
Si deduce, poi, come non provata la sussistenza di un limite di vendita a dilazione (cd. fido) il cui onere incombeva sulla parte datoriale, pur accertata dalla Corte distrettuale alla stregua di una non ponderata valutazione delle dichiarazioni testimoniali rese nel giudizio di primo grado.
Ci si duole, da, ultimo, del giudizio di proporzionalità della sanzione disciplinare irrogata, rispetto agli addebiti ascritti, espresso dai giudici del gravame, ritenuto erroneo sul rilievo che: la mera “sostituzione di contanti con un assegno personale”…non integrava “certo una sottrazione di denaro ma una mera sostituzione con un titolo astrattamente identico”; l’eventuale superamento del fido avrebbe comportato, “al più una cattiva valutazione del rischio del cliente”; comunque vi era stata offerta di restituzione dell’importo.
2. Il motivo presenta profili di inammissibilità.
Occorre premettere che, secondo l’insegnamento di questa Corte, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
Quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (ex plurimis, vedi Cass. 26/4/2012 n. 6498, Cass. 29/3/2017 n. 8136).
Nello specifico, non può sottacersi che oltre all’invocazione – peraltro solo formale – di violazioni o false applicazioni di norme, la articolata censura investe l’accertamento in fatto compiuto dai giudici del merito in ordine alla ritenuta sussistenza della giusta causa di licenziamento; tale accertamento non è suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità perché prospettato attraverso un rinnovato apprezzamento del merito, ben oltre i limiti imposti dall’art. 360, co. 1, n. 5, novellato, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.
Inoltre il vizio attinente alla ricostruzione dei fatti e la loro valutazione, per i giudizi di appello instaurati – come quello oggetto di scrutinio – successivamente, al trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, non può essere denunciato, rispetto ad un reclamo proposto dopo la data sopra indicata, (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.). Ossia il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (vedi ex plurimis, Cass. 27/7/2017 n. 18659), per cui l’invocato sindacato sul giudizio di merito circa la sussistenza e l’apprezzamento dei fatti disciplinari, espresso concordemente nel doppio grado ad esso riservato, è precluso a questa Corte.
3. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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