CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 novembre 2021, n. 34531

Tributi – IVA – Frode carosello – Commercio di autoveicoli importati dall’estero – Interposizione di impresa fittizia avente natura di cartiera – Consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale – Onere probatorio

Fatti di causa

A seguito di una verifica fiscale eseguita da propri funzionari e conclusa con processo verbale di constatazione – attraverso il quale era emerso che la ditta A. di A. M. aveva acquistato autoveicoli nel corso dell’anno 2007 dalla ditta individuale G.C.I.E. di M.F., che era stata creata al solo fine di interporsi fittiziamente come “cartiera” e di rendersi debitrice dell’Iva, poi non versata, nelle operazioni con la ditta A., verso la quale la G. C. aveva emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti a prezzi inferiori a quelli di mercato, secondo il tipico meccanismo della frode IVA cd. carosello nel cui ambito un operatore nazionale, anziché acquistare direttamente all’estero, interpone fra sé ed il fornitore un operatore commerciale fittizio – la Agenzia delle Entrate accertò a carico del sig. A. M., esercente l’attività di commercio di autoveicoli, per l’anno 2007, ai fini della imposizione diretta e dell’IRAP, costi indeducibili e minori componenti negativi per fatture oggettivamente inesistenti emesse dalla G. C. I. di M. F. per euro 21.934,00, nonché l’indebita detrazione a fini IVA, relativa a fatture d’acquisto per operazioni soggettivamente inesistenti, per euro 71.942,00.

L’accertamento fu impugnato dal contribuente per difetto di motivazione e per violazione dell’art. 54 del DPR n. 633 del 1972 davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Trapani, la quale, con sentenza n.216/2/2011, lo annullò per difetto di motivazione e per violazione del principio di contestualità della motivazione, non avendo l’Ufficio fornito neppure nelle controdeduzioní alcuna prova o indizio certo da cui desumere “un accordo sceleris finalizzato alla fraudolenza dei rapporti commerciali tra il ricorrente ed il sig. M.”.

Con successivo appello la Agenzia delle Entrate dedusse che l’accertamento era compiutamente motivato con riferimento al pregresso processo verbale di constatazione, notificato all’A. in data 3.11.2008, attraverso il quale era emersa la piena prova non solo della inesistenza soggettiva delle fatture emesse dalla G. C., ma anche dell’accordo fraudolento fra l’A. ed il M., titolare della G. C., poiché era rimasto dimostrato che tale ditta era stata creata al solo fine di interporsi fittiziamente nei rapporti con l’A. in quanto non esisteva strutturalmente, mancava di locali e di beni strumentali, di qualsiasi organizzazione, di qualsiasi capitale e di scopo dì profitto (considerato che ogni rivendita di beni acquistati generava quasi sempre una perdita) e persino del rischio di impresa, atteso che la provvista per il pagamento dei creditori – come dichiarato dal M. in sede di accesso e come confermato dai flussi finanziari – era creata dagli stessi clienti e che inoltre le operazioni fraudolente si concludevano con il mancato versamento dell’IVA da parte del soggetto interposto e la detrazione invece da parte dell’interponente A., cosicché quest’ultimo poteva offrire sul mercato, per effetto della frode IVA, prodotti a condizioni competitive, artificiosamente create, alterando gli equilibri commerciali propri di un regime di libera concorrenza.

L’appello fu respinto dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia con sentenza n. 2587/25/2014, depositata in data 2 settembre 2014. La CTR rilevò che l’appello era infondato poiché spettava all’Ufficio dimostrare non solo la natura di “cartiera” del cedente ed il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento, ma anche la connivenza nella frode da parte del cessionario, mediante presunzioni consistenti nella esposizione di elementi obiettivi – che potevano anche coincidere con quelli dimostrativi della frode da parte del cedente – tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del cedente, il quale doveva coglierla per il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio della sua attività imprenditoriale e commerciale qualificata; il che nella specie non era stato provato dall’Ufficio, non essendo sufficiente né l’asserita mancanza di locali, posto che la operatività commerciale poteva essere assicurata attraverso semplici “collegamenti informativi”, né la applicazione di un ricarico modesto sul prezzo di acquisto e neppure che la provvista per il pagamento dei fornitori fosse assicurata degli stessi clienti, mentre in sede penale l’A. era stato assolto dal tribunale di Trapani con sentenza irrevocabile dal corrispondente reato fiscale per l’anno 2008 per insufficienza degli elementi acquisiti e con sentenza non definitiva per gli anni 2005, 2006 e 2007, non essendo stata “rinvenuta alcuna documentazione comprovante l’esistenza di contatti tra la A. dell’A. ed i fornitori stranieri”, avendo il Procuratore G. segnalato con l’atto di appello che in un solo caso l’A. aveva effettuato un bonifico all’estero direttamente al fornitore.

La Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, con atto notificato per mezzo del servizio postale in data 13-17 marzo 2015, affidato a quattro motivi.

Ha resistito il contribuente con controricorso e successiva memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, violazione dell’art. 2697 cc e degli artt. 17 e 19, comma 1, del DPR n. 633 del 1972, per avere la sentenza impugnata erroneamente escluso, in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale consolidato della Corte di Cassazione, che la prova presuntiva, relativa alla consapevolezza dell’acquirente finale di stare acquistando da società “cartiera”, potesse consistere nella mancanza totale di struttura della interposta, nella applicazione di un ricarico modesto sul prezzo di acquisto e nel fatto che la provvista di pagamento dei fornitori fosse creata dagli stessi clienti, il tutto preordinato al mancato versamento dell’IVA, e cioè in quei plurimi elementi che, valutati alla luce dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che li connotavano, erano tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente.

2. Con il secondo motivo deduce violazione, sempre in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, degli artt. 2727 e 2729 c.c. e 54 del DPR n. 633 del 1972, per avere la sentenza impugnata erroneamente applicato le regole sulla divisione dell’onere probatorio e sulla valenza indiziaria degli elementi probatori prodotti dall’Ufficio e risultanti dalle indagini compendiate nel pvc e nei relativi allegati, come esplicitamente indicato nell’avviso di accertamento, che dimostravano come il contribuente “non poteva non sapere” di trovarsi davanti ad una “cartiera”, il che spostava sul contribuente l’onere di dimostrare il contrario.

3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 654 cpp e 116 cpc, per avere la sentenza impugnata attribuito efficacia probatoria alla sentenza penale di assoluzione definitiva dal reato fiscale per la successiva annualità di imposta 2008 e alle sentenze penali assolutorie per insufficienza degli elementi acquisiti, non definitive, per le annualità di imposta 2005, 2006 e 2007, benché nel giudizio tributario non possa essere attribuita alcuna efficacia vincolante alla sentenza penale fosse pure in giudicato ed ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali la amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, potendo invece il giudice tributario soltanto procedere ad un apprezzamento critico del contenuto della decisione penale, secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere probatorio nel giudizio tributario, ponendo a confronto la pronuncia penale con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio e verificandone la rilevanza nell’ambito specifico in cui essa è destinata ad operare; il che nella specie non era avvenuto, avendo il giudice d’appello acriticamente assunto l’esistenza stessa della pronuncia assolutoria come elemento tale da escludere la fondatezza degli accertamenti impugnati nel giudizio.

4. Infine, con il quarto motivo la Agenzia delle Entrate si duole, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cpc, di omesso esame di un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione fra le parti per avere la sentenza impugnata omesso di considerare i fatti oggetto delle presunzioni emerse in sede di verbale di constatazione, che, se presi in esame, avrebbero consentito di verificare che la ditta del sig. M. era una mera “cartiera” e da ciò desumere, in conformità a plurime pronunce della Corte di Giustizia, che l’IVA, che il cessionario assumeva di avere pagato al cedente per l’operazione soggettivamente inesistente, non era detraibile in quanto pagata ad un soggetto che non era legittimato alla rivalsa né era assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, in ossequio al disposto degli artt. 1 e 19 del DPR n. 633 del 1972.

5. Il primo e il secondo motivo di ricorso sono fondati e possono essere esaminati congiuntamente poiché aggrediscono il profilo della ratio decidendi della sentenza impugnata in relazione alla valutazione della prova relativa al “coinvolgimento dell’acquirente nelle cd. frodi carosello poste in essere dal fornitore” (costituente, secondo l’incipit della sentenza impugnata, il tema processuale da affrontare, sul presupposto, pacifico, che la G.C. di M. F. era completamente mancante di una struttura autonoma operativa e che l’IVA non era stata versata) ed alla divisione del relativo onere probatorio.

5.1. Appare in primo luogo corretta la deduzione, con riguardo ai suddetti motivi, del vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cpc., poiché, in tema di ricorso per cassazione, tale vizio consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24054 del 12/10/2017 Rv. 646811 — 01; Sez. L, Sentenza n. 16698 del  16/07/2010 Rv. 614588 — 01), come avvenuto nella specie, considerato che, in particolare, il primo ed il secondo motivo di ricorso pongono proprio una questione di erronea ricognizione della fattispecie normativa astratta, relativa alle operazioni ritenute tassabili ai fini delle imposte dirette e da assoggettare ad IVA da parte dell’Ufficio ai fini fiscali e della interpretazione della regola che ne disciplina la prova e la divisione dell’onere probatorio, ancor prima ed indipendentemente dalla ricostruzione della fattispecie concreta che spetta esclusivamente al giudice di merito e su cui comunque la Agenzia ricorrente si è soffermata solo ai fini della ricognizione dei fatti della causa strumentali rispetto alle doglianze relative alla erroneità dei princìpi giuridici applicati dalla sentenza impugnata, in assenza, quindi, della mediazione derivante dalla valutazione delle risultanze di causa.

5.2. A tale stregua, il vizio di violazione di legge è stato quindi correttamente posto dalla Agenzia ricorrente con riguardo, in particolare, alla violazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia erroneamente disconosciuto la prova presuntiva ed attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 — 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01), poiché, vedendosi nell’ambito della prova della inesistenza soggettiva delle operazioni in relazione una cd. frode carosello, si trattava di verificare, anche alla stregua della interpretazione offerta dalla giurisprudenza interna e comunitaria, se fossero state o meno correttamente applicate le regole di valutazione della prova e di distribuzione dell’onere della prova in relazione ad un accertamento emesso ai sensi dell’art. 54 del DR n. 633 del 1972.

5.3. Sul punto, la sentenza impugnata, dopo avere premesso che, alla stregua della giurisprudenza della Corte di Cassazione, spettava all’Ufficio offrire la prova della inesistenza di una struttura autonoma operativa in capo alla G. C. ed il mancato pagamento dell’IVA, ma anche della connivenza o meglio del coinvolgimento nella frode del cessionario — costituente il tema di discussione nel presente giudizio, secondo l’incipit della sentenza impugnata, che, a pagina 4, pare dare per dimostrato che gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, erano stati provati attraverso le risultanze del pvc — ha precisato che la “connivenza nella frode” poteva essere provata anche tramite presunzioni “consistenti nella esposizione di elementi oggettivi che possono coincidere con quelli dimostrativi della frode in capo al cedente” (e cioè la natura di “cartiera” del cedente per mancanza di autonoma struttura operativa e il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e simili), per poi però aggiungere che a tal fine non erano sufficienti né la mancanza di locali idonei, poiché la operatività commerciale poteva avvenire anche soltanto mediante “semplici collegamenti informativi”, né un ricarico modesto sul prezzo di acquisto, che il contribuente aveva comunque contestato e neppure il fatto che la provvista per il pagamento dei fornitori fosse creata esclusivamente dai versamenti degli stessi clienti, per cui la interpretazione del rapporto commerciale pretesa dall’Ufficio non era sorretta da elementi sufficienti.

5.4. Orbene, come correttamente rilevato con il ricorso per cassazione dalla Agenzia delle Entrate, alla stregua dei criteri indicati dall’art. 54, comma 2, del DPR n. 633 del 1972, propri della tipologia di accertamento adottato nel caso in esame, che sono quelli presuntivi, incombeva indubbiamente all’Ufficio – che non ha mai contestato il proprio onere probatorio, mentre ha sostenuto di averlo onorato -, ex art. 2697 c.c., in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche  in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità  professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava però poi sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (v. Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018 Rv. 647837 —01 e successive conformi: Sez. 5 -, Ordinanza n. 27555 del 30/10/2018 Rv. 651004 — 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020 Rv. 658429— 01; Cass. 27/02/2020 n. 5339; Cass. 24/08/2018 n. 21104; Cass. 15/05/2018, n. 11873; Cass. 19/04/2018, n. 9721; da ultimo v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020 Rv. 658429 — 01 secondo cui “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto“; conforme Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 12590 del 2020).

5.5. Altrettanto consolidato è il principio per cui tale prova può essere data dalla Amministrazione Finanziaria anche mediante presunzioni, dotate di gravità, precisione e concordanza, restando invece priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture, quanto le evidenze contabili dei pagamenti, quanto, infine, l’inesistenza di un dimostrato vantaggio perché i prezzi di vendita erano, in ipotesi, conformi o superiori alla media di mercato. Si tratta, invero, di circostanze, le prime, già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente (e relative a dati e documenti facilmente  falsificabili), e, l’ultima, ininfluente perché riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode (v. Cass. n. 20059 del 2014 cit.; Cass. n. 428 del 14/01/2015; Cass. n. 29002 del 05/12/2017; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C277114, che precisa che «in circostanze del genere il soggetto passivo deve essere considerato … partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle»).

5.6. In siffatte ipotesi, in tema di IVA, nelle c.d. “frodi carosello” – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (“buffers”) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più  bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno infatti presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari trattandosi di mezzi normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 867 del 20/01/2010 Rv. 611768 —01; v. ancora, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018 Rv. 647837 — 01; Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018 Rv. 651269, e, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 5339 del 27/02/2020 Rv. 657341 – 01).

5.7. Anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte giustizia 22 ottobre 2015, C- 277/14) è consolidato il principio per cui, in tema di detrazione dell’IVA correlata ad operazioni inesistenti, la prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, può essere fornita dall’Amministrazione mediante presunzioni – come espressamente prevede l’art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – valorizzando, nel quadro indiziario, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l’assenza della minima dotazione personale e strumentale adeguata alla predetta esecuzione, l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione (conforme la sentenza C-439/04 par. 59 Axel Kittel con cui la Corte di Giustizia ha ritenuto che deve essere negata la detraibilità se l’operatore “sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA”).

Analogamente, con la sentenza 21 giugno 2012 nelle cause riunite C-80/11 e C-142/11 (Mahagében Kft e Péter Dàvid) la Corte di Giustizia ha ritenuto che: «Gli articoli 167, 168, lettera a), 178, lettera a), 220, punto 1, e 226 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega ad un soggetto passivo il diritto di detrarre, dall’1% dell’imposta sul valore aggiunto di cui egli è debitore, l’1% dell’imposta dovuta o versata per i servizi che gli sono stati forniti, con la motivazione che l’emittente della fattura correlata a tali servizi, o uno dei suoi fornitori, ha commesso irregolarità, senza che detta amministrazione dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che il soggetto passivo interessato sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal suddetto emittente o da un altro operatore intervenuto a monte nella catena di prestazioni». Inoltre, «Gli articoli 167, 168, lettera a), 178, lettera a), e 273 della direttiva 2006/112 devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega il diritto a detrazione con la motivazione che il soggetto passivo non si è assicurato che l’emittente della fattura correlata ai beni a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio del diritto a detrazione avesse la qualità di soggetto passivo, che disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che avesse soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, o con la motivazione che il suddetto soggetto passivo non dispone, oltre che di detta fattura, di altri documenti idonei a dimostrare la sussistenza delle circostanze menzionate, benché ricorrano le condizioni di sostanza e di forma previste dalla direttiva 2006/112 per l’esercizio del diritto a detrazione e sebbene il soggetto passivo non disponga di indizi che giustifichino il sospetto dell’esistenza di irregolarità o evasioni nella sfera del suddetto emittente».

5.8. Successivamente, questa Corte (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5873 del 28/02/2019, Rv. 653071 – 01) ha fatto espressa applicazione di siffatta giurisprudenza unionale elaborando il principio di diritto secondo cui «non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)» (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, che osserva con chiarezza – in motivazione – come costituisca principio di carattere generale che la prova dei fatti possa essere data anche mediante presunzioni).

5.9. Peraltro, la stessa Corte Europea mostra di valorizzare appieno la prova indiziarla o presuntiva, laddove afferma che la sussistenza di “indizi”, che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente delle fatture, deve indurre l’operatore avveduto ad assumere informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi. In difetto, non potrà che essere escluso – per le ragioni suindicate – il diritto del medesimo alla detrazione di imposta (C. Giust. CE, 21.6.12, cit.) (Cass. 14 dicembre 2012 n.23078; Cass. 14 dicembre 2012 n. 23560; Cass. 24 maggio 2013 n.12963).

5.10. Alla luce di tali consolidati princìpi, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, spettava quindi all’Ufficio dimostrare che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta posta in essere con operazioni commerciali preordinate, anche se vere, ad eludere l’imposizione fiscale, sulla   base di elementi presuntivi sufficienti ed adeguati a ritenere provato lo scopo fraudolento, quali, ad esempio, il carattere fittizio delle operazioni commerciali effettuate tramite società cartiere (indipendentemente dalla loro effettiva realizzazione) destinate a concludere un piano illecito di sfruttamento di evasione IVA e la mancanza di una effettiva organizzazione aziendale delle società fornitrici; ma la sentenza impugnata, pur avendo citato nella premessa tali princìpi, non ne ha tenuto alcun conto nella motivazione della stessa, trascurando completamente il contenuto del pvc recepito dall’accertamento, attraverso il quale era risultato, come peraltro si legge anche nella sentenza impugnata, a pagine 2 e 3, laddove viene trascritta la tesi dell’Ufficio, per la quale la frode carosello era stata dimostrata attraverso le risultanze del pcv ed i relativi allegati, posto che “la ditta non esisteva strutturalmente, infatti mancava la struttura (non vi erano beni strumentali, non vi erano locali idonei), mancava l’organizzazione, mancava il capitale, mancava lo scopo di profitto (considerato che ogni rivendita di beni acquistati generava quasi sempre una perdita), mancava il rischio d’impresa, atteso che la provvista per il pagamento dei fornitori era creata dagli stessi clienti, come dichiarato dal M. in sede di accesso e confermato dall’esame dei flussi finanziari, che inoltre la operazione fraudolenta si concludeva sistematicamente con il mancato versamento dell’IVA da parte del M. e la detrazione dell’IVA da parte di A. e che in conseguenza di tale meccanismo fraudolento l’interponente poteva offrire sul mercato prodotti a condizioni competitive, create artificiosamente, alterando gli equilibri commerciali di un regime di libera concorrenza”.

5.11. Sotto tale profilo la sentenza impugnata è quindi eccentrica rispetto alla giurisprudenza unionale e di questa stessa Corte sopra richiamata, in quanto, da un lato, svaluta ingiustificatamente gli elementi indiziari costituiti dalla mancanza assoluta di struttura, mezzi, capitale e finalità di profitto in capo alla ditta G. C., nonché gli ulteriori elementi della mancanza di qualsiasi provvista in proprio e della sistematica rivendita in perdita delle autovetture, facendone discendere la mancanza di prova della conoscibilità da parte della società contribuente che le numerose operazioni invocate a fondamento del diritto a detrazione si inscrivevano in un’evasione o in una frode, sostanzialmente pretendendo che l’Amministrazione offrisse una prova certa ed incontrovertibile, peraltro neppure indicata per caratteristiche e connotati; dall’altro, non valuta in alcun modo analiticamente gli elementi della fattispecie per verificare se ricorressero gli indizi che avrebbero dovuto rendere edotto il contribuente, con la diligenza media richiesta ad un imprenditore onesto che opera sul mercato. A tale riguardo si consideri che la vendita di autovetture sottocosto costituisce elemento sintomatico di una possibile frode erariale che, a prescindere dall’entità della percentuale applicata dal  venditore, avrebbe dovuto comunque insospettire l’acquirente ed indurlo ad accertarsi della regolarità dell’operazione commerciale. Ed inoltre nell’appello l’Agenzia delle entrate aveva dato atto anche di altri elementi sintomatici di frode fiscale, tra cui, in primo luogo, la mancanza di qualsiasi struttura organizzativa della cedente che doveva apparire evidente a chiunque intrattenesse rapporti con essa.

5.12. Orbene, tali elementi, complessivamente considerati, chiaramente indicativi di evasione e/o frode fiscale, sono stati erroneamente svalutati e, addirittura, nemmeno considerati dai giudici di appello, che avrebbero dovuto invece ritenerli sintomatici dell’inesistenza delle operazioni commerciali accertate e porre a carico del contribuente l’onere di provarne l’effettività (v. Cass. n. 12590 del 2020).

5.13. I suddetti princìpi sono stati violati dalla sentenza impugnata anche laddove ha concluso la argomentazione che ha portato all’annullamento dell’accertamento impugnato escludendo, in modo tranciante, che gli elementi addotti dall’Ufficio come prova della frode carosello e della evasione dell’IVA – pacificamente mai versata -, consistenti nella mancanza di qualsiasi struttura (nel senso non solo logistico, ma anche di mancanza di qualsiasi mezzo, di qualsiasi organizzazione, di qualsiasi capitale e di qualsiasi rischio e finalità di lucro) da parte della G. C. del M., nel mancato impiego di qualsiasi capitale proprio e nella sistematica perdita generata da ogni rivendita, potessero essere elementi degni della benché minima considerazione, come se una ditta di I. azione e vendita di autovetture potesse operare attraverso i soli “sistemi informativi”, disponendo di un computer, senza avere i mezzi, gli strumenti, le strutture, i capitali ed i supporti per acquistare all’estero, trasportare, I. are e allocare i veicoli e tenere i rapporti con i fornitori e con gli acquirenti.

5.14. D’altronde, se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio cedente, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi peculiari e anomali dell’operazione commerciale, tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi sia in punto di identità del soggetto che in apparenza figura come emittente la fattura, sia in punto di potenziale perpetrazione di una potenziale evasione. E la rilevanza di detti indici è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e finanche suscettibili di reiterazione nel tempo (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020 Rv. 658429 – 01).

5.15. Così operando la sentenza impugnata ha altresì violato i princìpi propri di valutazione della prova indiziaria poiché  ha frantumato gli indizi, esaminandoli singolarmente per escludere che ciascuno di essi avesse carattere dimostrativo decisivo, senza considerare che è proprio della prova indiziaria che i singoli indizi, pur se gravi e precisi, siano singolarmente privi di carattere di decisività, derivando la loro concludenza ai fini della prova soltanto dal loro esame coordinato e dalla concordanza nel cui ambito si accresce la forza e la rilevanza del singolo indizio.

5.16. Nella fattispecie in esame, peraltro, il contribuente non ha mai neppure dedotto di avere operato in buona fede tenendo le trattative con la ditta fittizia, né ha tentato di offrire la prova della propria buona fede.

6. Appare fondato pure il terzo motivo di ricorso con cui la Agenzia delle Entrate, al fine di concludere l’esame della ratio decidendi posta dalla sentenza impugnata a sostegno dell’annullamento dell’accertamento impugnato, lamenta – con specifico riguardo alla annualità di imposta 2007, che qui viene in considerazione – che la sentenza penale di assoluzione del contribuente dal correlato reato fiscale, portata dalla sentenza impugnata a sostegno della tesi del contribuente, non era in giudicato e che comunque, neppure se fosse stata in giudicato, sarebbe stata vincolante con riguardo alla esclusione della concludenza della prova offerta dall’Ufficio in ordine alla interposizione fittizia della ditta M. ed alla sua consapevolezza in capo al ricorrente.

6.1. In base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti incluse in una frode carosello, il giudice tributario, nel verificare se il contribuente fosse consapevole dell’inserimento dell’operazione in un’evasione di imposta, non può infatti riferirsi alle sole risultanze del processo penale, ancorché riguardanti i medesimi fatti, ma, nell’esercizio dei suoi poteri, è tenuto a valutare tali circostanze sulla base del complessivo materiale probatorio acquisito nel giudizio tributario, non potendo attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile su reati tributari alcuna automatica autorità di cosa giudicata, attesa l’autonomia dei due giudizi, la diversità dei mezzi di prova acquisibili e dei criteri di valutazione (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 27814 del 04/12/2020 Rv. 659817 — 01; conformi Sez. 6- 5, Ordinanza n. 28174 del 24/11/2017 Rv. 646971 —01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16262 del 28/06/2017 (Rv. 644927 – 01), nonché i limiti di prova  che vigono nel processo tributario a norma dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (il che rende improprio il richiamo contenuto nella sentenza impugnata ai mezzi più incisivi posti a disposizione dell’accusa in sede penale); con la conseguenza che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.

6.2. Correttamente, quindi, la Agenzia delle Entrate ha lamentato violazione e falsa applicazione dell’art. 654 cod. proc. pen. in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., per avere la sentenza impugnata, al fine di ritenere sussistente il diritto del contribuente alla detrazione IVA, recepito acriticamente la sentenza penale di assoluzione, peraltro neppure in giudicato per l’anno in considerazione. Non è infatti dubbio, per monolitico insegnamento di questa Corte, come già rilevato, che in tema di prova spetti in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un  giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante.

Tuttavia, proprio con riferimento ad operazioni soggettivamente inesistenti usualmente denominate frodi carosello, il giudice della nomofilachia ha chiarito che – attesa l’autonomia tra giudizio penale e giudizio tributario, la diversità di mezzi di prova acquisibili nei due ambiti processuali e di criteri di valutazione del materiale acquisito, per l’operare solo nel giudizio tributario di presunzioni – la verifica della consapevolezza del contribuente che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta non può essere condotta in ambito tributario unicamente alla stregua delle risultanze del processo penale. Precisamente, il giudice tributario, pur potendo trarre elementi di convincimento dai fatti materiali accertati nel giudizio penale, è tenuto sempre ad operare una valutazione critica di dette circostanze fattuali in relazione al complessivo materiale probatorio acquisito al giudizio tributario.

6.2. Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza, anche se in ipotesi definitiva, in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.), deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare (così, testualmente, Cass. 12/02/2014, n. 3105; nello stesso ordine di idee, Cass. 24/11/2017, n. 28174; Cass.  28/06/2017, n. 16262; Cass. 23/05/2012, n. 8129).

6.3. Una valutazione del genere manca però nel caso in esame poiché la sentenza impugnata si limita a segnalare che il giudice penale avrebbe valorizzato l’insufficienza ai fini penali degli elementi acquisiti per mancato rinvenimento della documentazione comprovante l’esistenza di contatti fra l’A. ed i fornitori esteri, ad eccezione di un pagamento eseguito direttamente da A. al fornitore estero. Tale elemento è peraltro irrilevante ai fini della esclusione della prova delle operazioni soggettivamente inesistenti poiché – a parte il rilievo che l’elemento doveva essere raffrontato con la prova emersa nel giudizio tributario – la apparente regolarità contabile dei pagamenti all’interposto, invece che direttamente al fornitore straniero, non assume alcun rilievo, per i fini che qui interessano, al pari di quella della regolarità della contabilità e dei pagamenti ed addirittura della mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018 Rv. 651269 — 01; Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018 Rv. 647837 – 01), trattandosi di elementi che vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 33915 del 19/12/2019 Rv. 656602 – 01).

7. L’accoglimento dei pregressi motivi di ricorso, I.ando la devoluzione al giudice del rinvio del compito di una rivalutazione complessiva dell’intero materiale istruttorio acquisito al processo, assorbe la decisione sul quarto motivo di ricorso, con cui si contesta l’omesso esame dei fatti storici posti a base delle presunzioni emergenti dalla verifica compendiata nel pvc e trasfusa nell’accertamento che dovranno essere esaminati in sede di rinvio dal giudice del merito.

8. Cassata la sentenza impugnata per i profili illustrati, va disposto il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in diversa composizione, cui è demandata anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

accoglie i primi tre motivi di ricorso, assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.