CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 ottobre 2018, n. 25872
Rapporto di lavoro – Portiere – Comportamento persecutorio da parte dell’amministratore – Licenziamento illegittimo – Mobbing – Configurabilità – Risarcimento danno biologico, morale ed esistenziale
Rilevato che
C.C. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli il Condominio di via S. esponendo di aver lavorato come portiere con alloggio dal 1/8/1992 – con regolare inquadramento dal 1/2/1993 – sino al 31/5/2008. Deduceva di aver subito nel corso del rapporto, un comportamento persecutorio da parte dell’amministratore e di taluni condomini; di non aver percepito una retribuzione adeguata alle mansioni effettivamente svolte; di aver subito un licenziamento illegittimo. Sulla scorta di tali premesse, impugnava l’intimato recesso e chiedeva la condanna della parte datoriale al risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale. All’esito della regolare instaurazione del contraddittorio, il giudice adito accoglieva in parte il ricorso e condannava il condominio al pagamento della somma di euro 82.211,94 a titolo di differenze retributive, comprensive di t.f.r., rigettando le domande volte a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento e di risarcimento del danno da mobbing, ferma restando la condanna del C. al rilascio dell’immobile occupato.
La Corte distrettuale confermava la pronuncia del giudice di prima istanza.
In estrema sintesi, osservava che non suffragato da prova era da ritenersi l’assunto attoreo circa la retrodatazione del rapporto al 1/8/1992; che neanche era ipotizzabile il riconoscimento della qualifica superiore D1, riservata dalla contrattazione collettiva ai lavoratori addetti alla attività di vigilanza esercitata in relazione a stabili a prevalente utilizzo commerciale, di compiessi residenziali o di immobili di notevoli dimensioni, non potendo il condominio convenuto essere assimilabile ad alcuna delle categorie enunciate, trattandosi di complesso edilizio di medie dimensioni.
Tale inquadramento neanche poteva essere affermato alla stregua del riconoscimento della qualifica D1 disposto da parte del condominio nel corso del rapporto, in quanto frutto di un probabile errore.
La Corte di merito confermava altresì l’iter argomentativo seguito dal primo giudice in ordine alla insussistenza degli elementi coessenziali alla configurazione di un comportamento vessatorio da parte datoriale, mancando i requisiti “della intenzionalità della condotta nonché l’elemento delle condotte mobbizzanti, ascrivibili “all’animus nocendi”. La difficoltà di configurarla fattispecie del mobbing era anche ascrivibile alla frammentazione del condominio datore di lavoro, in una pluralità di “datori di lavoro impersonati dai singoli condomini”. Corollario delle suesposte considerazioni in tema, era la conferma della legittimità del licenziamento” in realtà giustamente motivato per accertata inabilità al lavoro”.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il C. affidato a cinque motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso il condominio intimato.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2730, 2697 c.c., 116 e 416 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3-5 c.p.c.
Si deduce che la Corte ha gravemente violato le disposizioni in tema di confessione, avendo l’Amministratore del condominio attestato, nel certificato di servizio del 16/9/1992, che il rapporto di lavoro era iniziato il 1/8/1992 quale portiere con alloggio. Tali dichiarazioni si saldavano con quelle rese dal testimone I., il quale aveva confermato che il predetto aveva cominciato a lavorare presso il condominio tra il luglio e l’agosto 1992.
La circostanza addotta dalla sentenza che il periodo contestato fosse solo “di qualche mese” è ritenuta logicamente ininfluente ai fini della prova più o meno rigorosa della circostanza, considerato che anche un breve periodo è rilevante ai fini di determinare le differenze retributive spettanti.
L’illogicità e l’incongruenza del ragionamento ridonderebbero quindi in termini di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti.
2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2103, 2730, 2697 c.c., 116 e 416 c.p.c. nonché del c.c.n.l. 4/12/2003 per i “dipendenti da proprietari di fabbricati ai sensi dell’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.. Si critica la sentenza impugnata per aver denegato il riconoscimento della qualifica corrispondente al livello D1 che si deduce pienamente corrispondente al contenuto delle mansioni svolte dal lavoratore, data l’imponenza del compendio immobiliare oggetto della attività di custodia, descritto dal medesimo ricorrente e non oggetto di alcuna contestazione da parte dell’ente condominiale. In tal senso il riconoscimento del livello D1 intervenuto da parte datoriale nell’anno 2007 testimonia la fondatezza della tesi accreditata, che risulta ulteriormente confortata dalla circostanza evidenziata dalla medesima Corte d’appello, inerente alla mancata richiesta restitutoria da parte del condominio.
3. Il terzo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2087; 9110, 2118, 1256 c.c. nonché omesso esame di fatti decisivi, ed omessa motivazione, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 e n. 5 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia escluso che l’impossibilità sopravvenuta delle prestazioni per motivi di salute . fosse riconducibile ad una condizione patologica imputabile al datore di lavoro, trascurando di considerare una serie di fatti riconducibili all’osservanza di orari di lavoro eccedenti i limiti della legge n.66/2003; alla mancata fruizione delle ferie nella misura spettante; al pagamento di spese ingiustificate; tutte oggetto di discussione fra le parti e decisive ai fini della valutazione della ricorrenza del mobbing. Si lamenta anche che la Corte abbia sottostimato taluni episodi pur riferiti dai testimoni escussi, secondo i quali il ricorrente sarebbe stato oggetto di numerose minacce e di violenze da parte di alcuni condomini.
4. Con la quarta critica si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 1218, 2087, nonché omesso esame di fatti decisivi, ed omessa motivazione, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 e n. 5 c.p.c.
I giudici dei gravame avrebbero omesso di pronunciarsi sull’ulteriore motivo d’appello con il quale si rimarcava che le condotte poste in essere dai condomini gravemente lesive dell’integrità psicofisica del soggetto, anche se atomisticamente considerate, implicavano il diritto del danneggiato ai ‘ristoro, sotto il profilo del danno biologico, morale, esistenziale.
5. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2099, 2114, 2118, 2120, 2697 c.c. nonché omesso esame di fatti decisivi, ed omessa motivazione, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 e n. 5 c.p.c.. Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito in punto di quantum, erronee in ordine alla individuazione della data di decorrenza e di cessazione del rapporto, avendo sotto tale profilo omesso di motivare sulla tale ultima data, indicata dal primo giudice nel 31/5/2008. ma risultante da documentazione di provenienza del Condominio, nel 29/6/2008; erronee altresì, quanto all’esclusione di talune indennità, pur oggetto di allegazione non contestata dalla controparte.
6. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono inammissibili.
Mediante la denuncia del vizio di violazione di legge, il ricorrente, intende prospettare un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello elaborato dai giudici del gravame, con procedimento inibito nella presente sede di legittimità (vedi ex plurimis, Cass. 11/1/2016 n. 195, Cass. 16/7/2010 n. 16698). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è infatti segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.
Nello specifico, invece i rilievi formulati dal ricorrente — che si riferiscono indistintamente a violazioni prospettate come violazione di legge e come vizio di motivazione – sono volti, nella sostanza, a sindacare un accertamento di fatto condotto dai giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere non fosse stata dimostrata, alla stregua delle circostanze riferite dai testimoni escussi e dai dati documentali acquisiti, la fondatezza delle numerose doglianze formulate dal lavoratore in sede di gravame.
A tale ricostruzione il ricorrente ne contrappone una difforme, proponendo una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti, che, tuttavia, non è ammissibile nella presente sede.
La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute olia idonee a sorreggere la motivazione, involgono invero, apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere l proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (vedi ex aliis, Cass. 4/7/2017 n. 16467), tanto più a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif, in I. n. 134 del 2012 che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti.
Deve al riguardo considerarsi che il nuovo testo dell’art. 360 cod. proc. civ. n. 5 applicabile alla fattispecie ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nell’ottica descritta la parte ricorrente deve dunque indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881, Cass. sez. un. 7/4/2014 n. 8053). Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris. In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza dei vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.
Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in se, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
7. Nella fattispecie qui scrutinata, deve rilevarsi che la Corte di merito ha proceduto ad un accertamento in concreto ampio e articolato del materiale istruttorio acquisito, argomentando in ordine alla valenza delle deposizioni testimoniali raccolte, valutandone il peso probatorio e vagliando i dati documentali, così pervenendo alle conclusioni già descritte nello storico di lite.
In tal senso vanno disattese le articolate censure, attinenti alla effettiva durata dei rapporto, avendo la corte esaminato sia la deposizione del teste I. che il certificato di servizio dell’amministratore, escludendone la portata decisiva ai fini della soluzione della questione delibata; ha poi valutato la ricorrenza dei requisiti coessenziali al riconoscimento della qualifica superiore rivendicata; ha vagliato le denunciate condotte che si deduceva fossero state realizzate dai condomini, escludendo potessero costituire fonte di risarcimento danni da mobbing; ha negato che la risoluzione del rapporto di lavoro potesse essere causalmente connessa a tali condotte, confermando la pronuncia di primo grado in ordine alla legittimità del licenziamento intimato al C., in ragione della “accertata inabilità al lavoro”.
La struttura motivazionale che innerva l’impugnata sentenza, non risponde, quindi, ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero (Iena irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità, secondo l’orientamento tracciato dalle Sezioni Unite di questa Corte.
L’espletato accertamento investe, infatti, pienamente, per quanto sinora detto, la quaestio facti, e rispetto ad esso il sindacato di legittimità si arresta entro il confine segnato dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.
Essendo stato presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’arti, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui ai d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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