CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 aprile 2018, n. 9417
Tempi di vestizione e svestizione degli abiti necessari alla prestazione di lavoro – Inclusione nell’orario retribuito – Obbligatorietà degli indumenti da lavoro, impossibilità di indossarli e dismetterli a casa, esistenza di uno spogliatoio necessariamente sotto il controllo datoriale – Operazione di vestizione non rientrante tra gli atti di diligenza meramente preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa – Mancanza di discrezionalità comporta per il lavoratore essere, in tali frangenti, a disposizione del datore di lavoro
Rilevato
che la Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 9007/2012, in riforma della pronuncia di segno contrario del Tribunale della stessa sede, ha accolto la domanda con cui G.G., R.P. e G.F., dipendenti di S.I. s.p.a., avevano chiesto che fossero riconosciuti come facenti parte dell’orario retribuito i tempi necessari alla vestizione e svestizione degli abiti necessari alla prestazione di lavoro quali addetti alle mense R.; che la Corte valorizzava l’obbligatorietà della vestizione degli indumenti da lavoro, l’impossibilità di indossarli e dismetterli a casa, l’esistenza a tal fine di uno spogliatoio – da considerare già ambiente di lavoro – e di armadi necessariamente sotto il controllo datoriale, anche dal punto di vista della sicurezza, ritenendoli elementi che inducevano a ritenere che i relativi tempi fossero appunto da considerare come di lavoro effettivo;
che la Corte escludeva che potesse indurre a diverse conclusioni il fatto che la normativa contrattuale non contemplasse la computabilità dei tempi di vestizione nell’orario di lavoro, trattandosi di omissione che non poteva pregiudicare i diritti soggettivi dei lavoratori;
che S. ha proposto ricorso per cassazione affidandosi ad un unico complesso motivo, cui hanno resistito i lavoratori con controricorso, poi illustrato da memoria;
Considerato
che con l’unico motivo, rubricato ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la ricorrente sostiene l’erroneità della sentenza impugnata per non avere escluso la sussistenza di elementi di eterodirezione datoriale rispetto alla vestizione, omettendo di valorizzare correttamente il fatto che, trattandosi di indumenti resi necessari dall’interferire del lavoro con alimenti, l’obbligo di indossarli gravava direttamente sul lavoratore e che tale vestizione si attuava in un luogo, gli spogliatoi della sede R., al di fuori del diretto controllo del datore di lavoro, sicché la volontà di quest’ultimo si manifestava come irrilevante e gli indumenti costituivano una mera condizione soggettiva per la legittima offerta della prestazione da parte del lavoratore;
che il motivo è infondato, in quanto il (pacifico) gravare dell’obbligo di vestizione di determinati indumenti di lavoro anche sul lavoratore, oltre a non escludere l’obbligo datoriale di imporre e controllare che tale utilizzazione sia effettiva, è in realtà elemento privo di rilievo alcuno;
che, infatti, l’assenza per il lavoratore di libertà di scelta rispetto a tempi e luoghi in cui indossare gli indumenti necessari, non permette di ritenere la relativa operazione come relativa agli atti di diligenza meramente preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, imponendo, proprio per la mancanza di discrezionalità, che il tempo necessario per il suo compimento debba essere retribuito (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352; Cass. 16 giugno 2014, n. 13706, nonché, seppure in ambito di pubblico impiego, Cass., S.U., 12 marzo 2013, n. 11828);
che ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera a) del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, per individuare un orario come di lavoro è necessario e sufficiente che il lavoratore sia a “disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, con definizione sovrapponibile anche a quella della successiva Direttiva 2003/88/CE, art. 2, n. 1;
che, in questa prospettiva, è evidente l’ininfluenza del fatto che il lavoratore sia a propria volta obbligato dalla normativa a indossare certi indumenti, in quanto ciò non esclude la possibile mancanza di una sua discrezionalità nel decidere quando e dove operare la propria vestizione;
che tale mancanza di discrezionalità comporta di per sé che il lavoratore sia, in tali frangenti, a “disposizione del datore di lavoro” ai sensi e per gli effetti della citata disciplina;
che più in specifico si è altresì ritenuto che la “eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare non solo dall’esplicita disciplina d’impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”, sicché possono “determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro”(Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352);
che, anche da questo punto di vista, ricorrono i presupposti per il riconoscimento del rientrare della vestizione, nel caso di specie, in orario di lavoro e ciò non solo perché è palesemente improponibile che si indossino camice, o cuffie e cappellino per contenere i capelli, nel tragitto verso il lavoro, ma anche per avere la Corte d’Appello, in piena osservanza dei principi appena citati, accertato in concreto la sussistenza di specifico vincolo quanto a tempi e luoghi, in quanto, per ragioni sanitarie, gli indumenti dovevano essere indossati con contiguità locale e temporale rispetto all’attività di lavoro presso la mensa, onde evitare la contaminazione con “polvere, agenti atmosferici, sporcizia ed altro, come ragionevolmente si verificherebbe qualora fosse permesso ai dipendenti di indossare gli stessi a casa e per tutto il tragitto sino al luogo di lavoro” (così, testualmente, la sentenza impugnata);
che la pacifica assenza di richiami espressi alla questione nell’ambito della contrattazione collettiva rende ogni profilo a ciò attinente del tutto irrilevante; che la controversia non può pertanto che essere definita sulla base delle regole di fonte normativa come sopra declinate;
che il ricorso va quindi rigettato, con regolazione delle spese secondo soccombenza;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 – quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.
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