CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 gennaio 2019, n. 1190

Cessione ramo d’azienda – Sopravvivenza del contratto collettivo della cedente – Applicabilità della disciplina dettata dall’art. 2112 cod. civ

Premesso

che con sentenza n. 39/2014, depositata il 5 febbraio 2014, la Corte d’appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto le domande proposte da J. M. M.el M. e dagli altri lavoratori indicati in epigrafe nei confronti di M. Fly S.p.A. e di M. S.p.A., volte ad ottenere l’accertamento della illegittimità ed inefficacia dell’accordo quadro stipulato da M. S.p.A. con le organizzazioni sindacali UIL e ANPAV in data 31/3 – 4/4/2009 e conseguentemente del loro diritto a vedersi applicate le condizioni previste dal contratto collettivo aziendale per gli assistenti di volo del 29/5/2002, in quanto ancora in vigore (fino al 31/5/2013) a seguito di vari e successivi rinnovi; domande altresì volte all’accertamento della nullità ed illegittimità dell’operazione di cessione del ramo di azienda aviation da M. S.p.A. ad E. S.p.A., realizzata, con effetto dal 28/2/2010, mediante sottoscrizione da parte di M. dell’aumento del capitale sociale della controllata E. (poi M. Fly S.p.A.) e conferimento del ramo d’azienda quale corrispettivo, nonché all’accertamento, in ogni caso, della illegittimità ed inefficacia dell’applicazione, ai rapporti lavorativi dei ricorrenti, a far data dall’1/3/2010, del contratto aziendale della cessionaria;

– che la Corte ha osservato a sostegno della propria decisione che il contratto aziendale M. S.p.A. del 29/5/2002 era definitivamente scaduto il 31/12/2007 e che, anche a volerne ritenere l’avvenuto tacito rinnovo (ma soltanto fino al 30/8/2009), esso aveva formato oggetto di regolare disdetta da parte della società, con la conseguenza che il rapporto di lavoro dei ricorrenti era rimasto regolato dall’accordo quadro, a partire dalla data (1/6/2009) di efficacia dello stesso e fino a quella del trasferimento del ramo di azienda; la Corte – condivisa la statuizione del giudice di primo grado circa la sussistenza di un’ipotesi di trasferimento di ramo di azienda riconducibile all’art. 2112 cod. civ. – ha poi escluso la sopravvivenza del contratto collettivo della cedente nel caso in cui – come nella specie – la cessionaria applichi ai propri dipendenti altro contratto collettivo di pari livello e ciò in adesione a consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ritenuto del tutto conforme alla normativa nazionale e comunitaria;

– che avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori con sette motivi, cui M. Fly S.p.A. e M. S.p.A. hanno resistito con controricorso;

– che entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa;

– che i ricorrenti hanno altresì depositato nota di produzione in data 24 settembre 2018, ribadendo l’istanza di fissazione di udienza pubblica di discussione;

Rilevato

che con il motivo esposto sub A) i ricorrenti, denunciando il vizio di cui all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. con riferimento all’art. 25 Cost., all’art. 158 cod. proc. civ. e agli artt. 7 bis e 7 ter della legge sull’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12/1941), deducono la nullità della sentenza di appello in quanto pronunciata da un collegio in composizione difforme da quella risultante dall’applicazione delle tabelle di organizzazione dell’ufficio, in violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge;

– che con successivi motivi i ricorrenti censurano la sentenza impugnata: – con il motivo rubricato come 1°), deducendo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 434 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ., per avere la Corte omesso di esaminare l’eccezione di inammissibilità, per difetto di specificità, dei ricorsi in appello proposti dalle società; – con il 2°), deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e degli artt. 115, 1° e 2° comma, cod. proc. civ., nonché degli artt. 2725, 2727, 2729 e 1352 cod. civ. e dell’art. 51 CCL M. S.p.A., in relazione all’art. 360 n. 3, per avere la Corte ritenuto accertata la disdetta del contratto aziendale del 2002, come successivamente rinnovato, sulla base di una presunzione illogica, in quanto desunta da fatti (e cioè la repentina attività sindacale che ne era seguita) inidonei a dimostrarne l’avvenuto invio, ed inoltre inammissibile, dovendo la disdetta, per risultare valida, essere fatta per iscritto e mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento; – con il 3°), deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1367 cod. civ., dell’art. 51 CCL M. S.p.A., dell’art. 115 cod. proc. civ., nonché dell’art. 2103 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, per avere la Corte ritenuto corretta l’applicazione dell’accordo in data 31/3 – 4/4/2009 da parte di M. S.p.A. e peraltro sulla scorta di una interpretazione del contenuto dei documenti contrattuali che aveva erroneamente escluso la perdurante efficacia dell’originario contratto aziendale fino al 31/12/2011; – con il 4°), deducendo la violazione o falsa applicazione degli artt. 1344, 2112 e 2697 cod. civ., nonché dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, per avere la Corte ritenuto legittima l’operazione di trasferimento, pur in difetto di effettiva autonoma sussistenza del ramo di azienda ceduto e sebbene l’operazione fosse stata realizzata all’interno di un medesimo gruppo societario con la volontà di regolare i rapporti di lavoro dei dipendenti della cedente in base ad un contratto collettivo ad essi complessivamente più sfavorevole; – con il 5°), deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 cod. civ., dell’art. 3 par. 3 della Direttiva 2001/23/CE e degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 360 n. 3, per avere la Corte erroneamente ritenuto che la società cessionaria potesse applicare ai lavoratori trasferiti il proprio contratto aziendale;

– con il 6°), deducendo vizio di motivazione ex art. 360 n. 5, per avere la Corte omesso di esaminare la domanda con cui era stata chiesta l’applicazione delle condizioni del contratto del 2009 in luogo del contratto E., per il periodo successivo alla cessione del ramo di azienda e fino al 31/5/2013, data di scadenza dell’accordo suddetto;

Osservato

che il motivo proposto sub A) è infondato, stabilendo l’art. 7 bis, comma 1, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, come modificato dall’art. 4, comma 19, I. 30 luglio 2007, n. 111, che “la violazione dei criteri per l’assegnazione degli affari, salvo il possibile rilievo disciplinare, non determina in nessun caso la nullità dei provvedimenti adottati”;

– che, d’altra parte, anche in epoca anteriore a tale espresso intervento legislativo, era del tutto consolidato l’orientamento, secondo il quale “non costituisce motivo di nullità del procedimento e della sentenza la trattazione della causa da parte di un giudice diverso da quello individuato secondo le tabelle, determinata da esigenze di organizzazione interna al medesimo ufficio giudiziario, pur in mancanza di un formale provvedimento di sostituzione da parte del Presidente del Tribunale, perché, ai sensi del primo comma dell’art. 156 cod. proc. civ., la nullità di un atto per inosservanza di forme non può esser pronunciata se non è comminata dalla legge e pertanto è configurabile una mera irregolarità, inidonea a produrre alcuna conseguenza negativa sugli atti processuali o sulla sentenza”: Cass. n. 6964/2001 (conformi: n. 24018/2004; n. 8174/2006);

– che, dei successivi motivi di ricorso, il primo è infondato, posto che la Corte di appello, procedendo all’esame delle ragioni di doglianza contenute nei ricorsi delle società (e, quindi, implicitamente disattendendo l’eccezione di inammissibilità di tali atti per difetto di conformità al modello di cui all’art. 434 cod. proc. civ.), ha fatto proprio l’indirizzo delle Sezioni Unite di questa Corte, le quali, con la sentenza n. 27199/2017, hanno precisato che “gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla I. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata“: progetto che, invece, gli appellati sembrano richiedere, secondo una lettura della norma superata dalla richiamata giurisprudenza (conforme Cass. n. 13535/2018), là dove rilevano, negli atti di gravame delle società, la mancanza di “indicazione delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”;

– che il secondo motivo è infondato, là dove censura quella parte della motivazione, in cui la Corte ha ritenuto accertata la trasmissione della disdetta del contratto M. S.p.A. del 29/5/2002 alle organizzazioni sindacali firmatarie, sul rilievo che “tutta la successiva e repentina attività sindacale, di cui agli atti, trova causa proprio nel vuoto contrattuale che la disdetta aveva originato e che le parti avevano inteso colmare” (cfr. sentenza impugnata, p. 22): e ciò alla stregua del principio di diritto, secondo il quale “nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto e il fatto ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità” (Cass. n. 154/2006; conformi, fra le molte: Cass. n. 10460/2006; n. 12802/2006);

– che il motivo in esame è poi inammissibile, in relazione alla censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 1352 cod. civ. e 51 del contratto aziendale, sotto il profilo che la comunicazione di disdetta dovesse rivestire la forma convenzionale della raccomandata con avviso di ricevimento, trattandosi di questione nuova, e cioè di questione di cui non è dedotto che fosse già compresa nel giudizio di appello, e che, pertanto, non può essere prospettata per la prima volta in sede di legittimità (Cass. n. 907/2018);

– che il terzo motivo è infondato, dovendosi in proposito confermare il principio di diritto, per il quale “la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. n. 28319/2017; conformi, fra le più recenti: n. 16987/2018; n. 11254/2018);

– che il quarto motivo è infondato;

– che infatti – sulla premessa dell’accertata esistenza di un collegamento economico- funzionale tra imprese distinte appartenenti ad un medesimo gruppo, quale emergente dagli indici del caso concreto (controllo societario da parte di M. S.p.A. sulla cessionaria; identità della persona dell’A.D.; unicità di sede legale delle due società), altri e diversi essendo i requisiti necessari a configurare un unico centro di imputazione di interessi e rapporti secondo i rigorosi parametri dimostrativi e probatori richiesti a tal fine dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le pronunce più recenti, Cass. n. 19023/2017) – la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che fosse venuta in essere una cessione di azienda conforme alle previsioni di cui all’art. 2112 cod. civ., essendovi stato “mutamento del soggetto cui imputare l’attività d’impresa ceduta” e ciò “a prescindere dalle concrete modalità o strumento tecnico-giuridico con cui detto trasferimento venga realizzato” (nella specie, sottoscrizione da parte di M. S.p.A. dell’aumento di capitale di E. e versamento del corrispettivo mediante conferimento alla stessa delle proprie attività di esercizio trasporto aereo: cfr. pp. 23-24);

– che, al riguardo, è stato invero precisato che per la configurabilità del trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., il cui accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se fondato su una motivazione adeguata e immune da errori, “è necessario il concorso di due requisiti: uno, obiettivo, rappresentato dalla continuità dell’azienda come entità economica organizzata dall’imprenditore e uno, soggettivo, consistente nella sostituzione dell’imprenditore” (Cass. n. 5025/2001; conf. Cass. n. 14642/2006); ed è stato inoltre precisato, con indirizzo egualmente consolidato e risalente, che l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 2112 cod. civ. “prescinde dall’esistenza di un rapporto contrattuale tra l’imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione dell’azienda, assumendo rilievo, invece, la circostanza che vi sia continuità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, restando immutati il complesso organizzato dei beni dell’impresa e l’oggetto di quest’ultima” (Cass. n. 2200/1998 e successive numerose conformi; per l’idoneità, ai fini dell’applicazione della stessa disciplina, “di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio”: n. 11918/2013);

– che il quinto motivo di ricorso è parimenti infondato, essendosi la Corte di appello uniformata al consolidato principio di diritto, secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze di altra impresa, per effetto di trasferimento dell’azienda, o di un suo ramo, “si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l’azienda cedente solamente nel caso in cui l’impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell’impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell’impresa cessionaria anche se più sfavorevole” (Cass. n. 5882/2010 e numerose conformi);

– che la questione di pregiudizialità europea, come prospettata nell’ambito del motivo ora in esame, non appare rilevante ai fini della definizione della controversia, posto che – ribadita l’infondatezza/inammissibilità, per le considerazioni già svolte, del motivo (2°) avente ad oggetto l’accertamento della Corte di appello circa l’avvenuta comunicazione, alle organizzazioni sindacali, della disdetta del contratto aziendale di M. S.p.A. in data 29/5/2002 – non risulta riproposta alla medesima Corte la domanda subordinata relativa all’applicazione in ogni caso, anche per il periodo successivo all’1 marzo 2010 (e cioè per il periodo successivo all’attuazione dell’operazione di trasferimento di azienda), dell’accordo del 31 marzo 2009, già svolta avanti al giudice di primo grado; né comunque risulta dedotto dagli odierni ricorrenti, in entrambi i gradi di merito, che le condizioni normative ed economiche previste dal contratto collettivo aziendale della cessionaria fossero peggiorative rispetto a quelle contenute in tale accordo;

– che infine il sesto motivo è da considerarsi inammissibile, sia per i rilievi appena svolti, sia perché concernente una censura non prospettabile in sede di legittimità con il mezzo del vizio motivazionale, il quale riguarda l’omessa valutazione di un “fatto” storico avente portata decisiva ai fini della risoluzione della controversia;

Ritenuto

in conclusione che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.