CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 luglio 2019, n. 19258
Rapporto di lavoro – Dequalificazione – Risarcimenro danni – Proporzionalità tra l’ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato
Rilevato che
La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, condannava T.I. s.p.a. al risarcimento del danno da dequalificazione risentito da M.R., nella misura del 50% delle retribuzioni maturate nel periodo 7/7/09-21/6/2011, nonché al pagamento dell’importo di euro 322,79 mensili nel periodo maggio-giugno 2010, confermando la statuizione della sentenza relativa alla reiezione delle domande di pagamento dell’indennità di trasferta e degli incentivi alle vendite, trattandosi di voci connesse con l’espletamento delle trasferte, indubbiamente cessate, e con il raggiungimento di obiettivi di carattere commerciale, estranei ai nuovi ruoli ricoperti dal lavoratore.
La cassazione di tale decisione è domandata da M.R. sulla base di unico motivo, successivamente illustrato da memoria,- cui resiste con controricorso T.I. s.p.a.
Considerato che
1. Con unico motivo si denuncia violazione degli artt. 2103, 1223 c.c. e 36 Cost. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si deduce che la acclarata dequalificazione del ricorrente dal ruolo di Sales Manager Clienti Distribuzione Area Nord Ovest a quello di supporto alle agenzie del canale “push”, per la verifica del rispetto delle procedure commerciali da parte dei punti vendita, aveva determinato la perdita degli emolumenti “trasferta” ed “incentivi alle vendite”, legati al patrimonio professionale della qualifica di venditore rivestita, e dotati di natura ontologicamente retributiva, in quanto tale governata dal principio di irriducibilità.
Nel motivo di doglianza, viene rimarcato che il tratto qualificativo degli emolumenti rivendicati va rinvenuto nella correlazione con il patrimonio professionale e la specializzazione tecnica acquisita dal lavoratore, non riducibile a particolari modalità di svolgimento della prestazione. Si evidenzia dunque che, nello specifico, si verte in tema di eleménti retributivi proporzionati alla qualità e quantità del lavoro svolto, rientranti appieno nella sfera di disciplina dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2103 c.c.
2. La censura non è condivisibile.
Deve innanzitutto rimarcarsi in linea generale che l’adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., connesso al principio di irriducibilità della retribuzione predicato dal lavoratore, presuppone la valutazione della sussistenza dell’asserito difetto di proporzionalità e di sufficienza della retribuzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato e le primarie esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, considerando quale parametro – come statuito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 470 del 2002 – l’importo globale della retribuzione di fatto percepita dal lavoratore.
Va altresì considerato che, nello specifico, detta prospettazione non risulta sia stata elaborata da parte ricorrente, che ha incentrato le proprie difese essenzialmente sull’affermato nesso intercorrente fra le voci retributive di cui era stato privato, ed il patrimonio professionale acquisito nel corso delle mansioni di venditore espletate per un periodo di oltre quindici anni.
Nell’ottica descritta – e al di là delle pur assorbenti considerazioni in tema di violazione del principio di specificità del ricorso che, in violazione dei dettami sanciti dall’art. 366 primo comma nn. 4 e 6 c.p.c. non reca enunciazione alcuna dei contenuti della documentazione attinente alla erogazione delle voci retributive anteriormente al mutamento delle mansioni assegnategli – deve ritenersi che la mera contrapposizione del giudizio inerente alla natura professionale delle prestazioni in relazione alle quali risultano erogate le voci retributive oggetto di rivendicazione, rispetto a quella elaborata dal giudice del gravame, si traduca in un rinnovato apprezzamento del merito della questione delibata, incensurabile in questa sede di legittimità, risultando del tutto congrua la motivazione che sorregge la statuizione impugnata.
La articolata censura, palesa, dunque, innegabili carenze sotto tutti i delineati profili.
3. Occorre in via ulteriore rammentare che la richiesta di differenze retributive formulata dal ricorrente in relazione alle voci innanzi considerate, non è riconducibile a quella risarcitoria accolta dalla Corte distrettuale, alla stregua di criterio equitativo ex art. 1226 c.c. parametrato alla misura della retribuzione incrementata dal 40% al 50% (cfr. Cass. 17.6.15, n. 12253).
E’ invece qui in discussione la domanda avente ad oggetto un’obbligazione retributiva pura, riferita a specifiche indennità delle quali il ricorrente lamenta l’omessa erogazione a seguito della adibizione a mansioni incongruenti, perché dequalificanti, rispetto alla originaria qualifica da lui rivestita, ed in relazione alle quali lamenta l’omessa applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione.
Tale principio, dettato dall’art. 2103 c.c., nell’opinione espressa con orientamento privo di difformità dalla giurisprudenza di legittimità e qui condivisa, implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto.
L’irriducibilità della retribuzione, che si può desumere dal divieto di assegnazione a mansioni inferiori e dalla necessaria proporzione tra l’ammontare della retribuzione e la qualità e quantità del lavoro prestato, è stata intesa nel senso che la voce retributiva connessa ai particolari modi di svolgimento del lavoro, può esser soppressa ove vengano meno quei modi di svolgimento della prestazione, dovendo essere conservata solo in caso contrario (argomenta da Cass. 23.7.2008 n. 20310).
Nell’ottica descritta è stato sostenuto che il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall’art. 2103 c.c., deve essere computato con riferimento ai corrispettivi attinenti alle qualità professionali tipiche della qualifica rivestita (cd. indennità intrinseche), con esclusione dei compensi rapportati a specifici disagi o difficoltà connessi alle prestazioni, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati (cd. indennità estrinseche, vedi Cass. 6.12.2017 n. 29247).
Ribadito, dunque, che la domanda risarcitoria connessa alla accertata dequalificazione formulata dal R., ha rinvenuto pieno accoglimento nel giudizio di merito, si ritengono appropriati ed immuni da censure gli approdi ai quali è pervenuta, con riferimento alla questione retributiva, la Corte territoriale, la quale ha correttamente posto in rilievo la circostanza che gli emolumenti dei quali il ricorrente rivendica il computo – ed integrati dagli incentivi alla vendita e dalle indennità di trasferta – in quanto dipendenti dalle modalità di svolgimento delle precedenti mansioni cessate e dal raggiungimento degli obiettivi di carattere commerciale, non connessi al contenuto delle nuove mansioni svolte dal dipendente non rientrano nel computo delle differenze retributive che legittimamente il ricorrente avrebbe potuto rivendicare.
In conclusione, alla luce delle sinora esposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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