CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 maggio 2018, n. 12094
Licenziamento disciplinare – Contestazione – Rapporto di continuità con due precedenti mancanze – Contesto di tensioni tra le parti – Provvedimenti datoriali non assistiti da presunzione di legittimità – Inottemperanza del lavoratore più risultare a posteriori giustificata
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 15/2/2016, in riforma della decisione del locale Tribunale, accoglieva la domanda avanzata da M. N. – dipendente della F. s.r.l. con mansioni di guardia giurata – intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 16/7/2011 e la reintegra nel posto di lavoro;
a fondamento del licenziamento, la società aveva posto la circostanza che il N. non avesse eseguito entro il prescritto semestre le esercitazioni di tiro (contestazione del 27/6/2011) e l’insubordinazione costituita dalla mancata riscossione della fatture (contestazione del 30/6/2011);
respinta l’eccezione d’inammissibilità dell’appello per carenza di specificità dei motivi, la Corte territoriale riteneva che i fatti a base del licenziamento fossero in rapporto di continuità con due precedenti mancanze, oggetto di contestata recidiva, sanzionate con provvedimenti disciplinari conservativi (una sospensione di un giorno per essersi il N. rifiutato di curare l’attività di riscossione sul presupposto che l’incombenza fosse riservata ai dipendenti inquadrati nel IV livello super e analoga sospensione, ma di cinque giorni, per aver annotato di suo pugno sull’apposito registro, contro la volontà del capo turno, di aver raggiunto il luogo ove doveva svolgere il servizio di piantonamento con auto propria e non aziendale) e che gli stessi s’inquadrassero in un contesto di tensioni tra le parti caratterizzato da richieste e diffide reciproche;
sosteneva, poi, disattendendo sul punto il diverso avviso del Tribunale, che il compito aggiuntivo richiesto dalla società (da svolgersi, peraltro, al di fuori dell’orario di lavoro ordinario) e non adempiuto dal N. (oggetto della contestazione del 30/6/2011) esulasse dalle mansioni d’inquadramento del dipendente e in ogni caso che le richieste di esenzione da quest’ultimo avanzate non potessero essere considerate ‘abnormi’ né esprimessero ‘rifiuto’ o ‘dispregio’ verso il potere gerarchico di organizzazione aziendale cosi che il relativo addebito riguardava un fatto del tutto insussistente;
quanto all’ulteriore contestazione relativa alla mancata effettuazione delle esercitazioni di tiro, rilevava che ben avrebbe potuto (e dovuto) l’azienda, consapevole del fatto che l’ultima esercitazione del Nespoli risaliva al 2010, sollecitare o ricordare il tiro semestrale e non piuttosto comunque utilizzare il dipendente nel servizio esponendosi pure ai controlli degli organi di Polizia;
in ogni caso valutava che non si trattasse di una mancanza così grave da giustificare il licenziamento;
2. avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la società sulla base di sette motivi;
3. M. N. resiste con controricorso;
4. il P.G. ha presentato requisitoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso;
5. la società ha depositato memoria.
Considerato che
1.1. Con il primo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 342, co. 1 e 2, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 54 del D.L. n. 83/2012 conv. nella L. n. 134/2012 in combinato disposto con gli artt. 434 e 348 bis cod. proc. civ. (ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) in relazione al mancato accoglimento dell’eccezione d’inammissibilità dell’appello che non era stato costruito come una sorta di ‘proposta di sentenza’ e non aveva indicato esattamente al Giudice quali parti del provvedimento impugnato si intendessero sottoporre a riesame e, per tali parti, quali modifiche si richiedessero rispetto a quanto aveva formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice;
1.2. il motivo, oltre a presentare profili di inammissibilità per non essere prospettato il rilievo come error in procedendo, è infondato;
come da questa Corte affermato, gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘revisio prioris instantiae’ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (cfr. Cass., Sez. U., 16 novembre 2017, n. 27199);
nella specie la Corte territoriale ha ben spiegato come il N. avesse formulato le censure alla sentenza di primo grado evidenziando i passaggi di quest’ultima oggetto di contestazione e deducendo l’omessa valutazione degli argomenti a sostegno della tesi propugnata nell’atto introduttivo;
il Giudice di secondo grado è stato, dunque, messo in condizione di comprendere con chiarezza quale fosse il contenuto dei rilievi mossi alla pronuncia appellata e quali argomenti si fosse inteso contrapporre a quelli indicati dal primo giudice, così da pervenire alla decisione nel merito delle questioni poste, nel pieno rispetto della natura di ‘revisio prioris instantiae’ che il giudizio di appello ha conservato pur con l’indicata modifica normativa;
2.1. con il secondo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 324 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ. (ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) in relazione alla violazione del giudicato interno che si sarebbe formato sulla circostanza che le mansioni che il N. era stato chiamato a svolgere erano previste dalla contrattazione integrativa aziendale sulla cui interpretazione si era espresso il giudice di primo grado con statuizione non specificamente impugnata dal lavoratore;
2.2. il motivo è infondato;
non vi era stato, nella specie, alcun capo autonomo della sentenza su una specifica domanda avente ad oggetto la suddetta interpretazione ma solo un argomento decisorio meramente strumentale rispetto alla decisione cosicché, nell’ambito della impugnazione proposta contro la pronuncia di primo grado, ben poteva essere riesaminata, la suddetta interpretazione, qualunque fosse stato il comportamento difensivo concretamente assunto in proposito dalla parte (cfr. Cass. 10 ottobre 2010, n. 21561);
è stato, del resto, da questa Corte affermato (v. Cass. 4 febbraio 2016, n. 2217) che, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale ‘minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno’ individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico;
ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (v. anche, nel medesimo senso, Cass. 16 maggio 2017, n. 12202);
3.1. Con il terzo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e vizio di ultra petizione (ai sensi dell’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.) in relazione alla ritenuta estraneità dei compiti affidati al N. sulla base di una lettura ed interpretazione del c.c.n.I. vigente in assenza di riproposizione in appello della relativa questione da parte del N.;
3.2. anche questo motivo, oltre a presentare profili diinammissibilità per non essere stato prospettato come error in procedendo, è infondato;
valga, infatti, quanto evidenziato con riferimento al secondo motivo;
nessuna pronuncia in assenza di domanda è configurabile essendo stata l’interpretazione del c.c.n.I. devoluta al giudice di appello per il solo fatto di avere il N. impugnato la pronuncia di primo grado in punto di valutazione della ritenuta legittimità della contestazione che (anche) intorno a tale interpretazione ruotava;
4.1. Con il quarto motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.) degli artt. 32 e 24 per le imprese esercenti attività di vigilanza in combinato disposto con l’accordo aziendale del 30/9/2008 e degli artt. 1363, 1363, 1366, 1367, 1378, 1375 nonché dell’art. 1453 cod. civ. censurando la sentenza impugnata per l’interpretazione data alle norme contrattuali sulle mansioni;
4.2. il motivo, che invero sembra più che altro inteso a contrastare la posizione del lavoratore di cui al ricorso di primo grado e che si dilunga sul contenuto delle mansioni per contrapporre a un preteso legittimo rifiuto del lavoratore di svolgere quelle di ‘esazione’ delle fatture l’esigibilità delle stesse sulla base della declaratoria contrattuale, non è in realtà conferente con il decisum della sentenza impugnata;
la Corte territoriale ha, infatti, sviluppato un ragionamento più articolato ed ha sottolineato che le reiterate richiesta del N. di esenzione dai compiti aggiuntivi (e del fatto che si trattasse di compiti ulteriori per i quali era prevista un’autonoma retribuzione non dubita la stessa ricorrente), non potessero considerarsi abnormi anche alla stregua dell’accordo sindacale del 2008 essendo sostenute da ‘ragioni pregnanti’;
nel ragionamento della Corte di merito viene, allora, in rilievo la prospettata incompatibilità di tali compiti aggiuntivi (a prescindere dalla astratta esigibilità degli stessi) con l’adibizione costante del N., sin dalla fine del 2010, ad un turno assai gravoso ‘che si snodava ogni giorno dalle 23,55 alle 6 del giorno successivo nonché dalle 16 alle 22’ e dunque con la sua necessità di recuperare le energie psicofisiche e di dedicarsi alla cura degli interessi familiari;
significativi, sul punto, sono i passaggi argomentativi in cui i giudici di appello evidenziano che la D.P.L. aveva contestato all’azienda la violazione delle norme in materia di lavoro (superamento della durata massima dell’orario di lavoro straordinario e mancato risposo consecutivo per 11 ore ogni 24), affermano che sanzionare il solo fatto di aver avanzato richiesta di esenzione equivalesse a comprimere persino l’espressione di bisogni minimali in contrasto con le regole di esecuzione del contratto e persino con l’art. 21 della Cost. e ipotizzano finanche una strumentalizzazione da parte dell’azienda dell’annunciata impossibilità del compito aggiuntivo al fine di liberarsi del lavoratore;
in sostanza, l’asserito inadempimento da parte del lavoratore di precisi obblighi contrattuali è stato contestualizzato e di fatto escluso in presenza di una situazione personale del lavoratore (e cioè l’adibizione a turni di lavoro come quelli descritti, mantenuti così nel tempo pur in assenza di ‘comprovate’ esigenze aziendali);
emerge, del resto, dalla sentenza che il N. aveva chiesto una turnazione differente che gli consentisse di poter svolgere anche il servizio aggiuntivo il che è ulteriormente indicativo di un rifiuto, che lungi dall’essere pretestuoso ovvero immotivato, era stato posto in relazione ad un’oggettiva impossibilità di svolgere, rebus sic stantibus, anche l’ulteriore compito;
d’altra parte deve escludersi che i provvedimenti datoriali siano assistiti da una presunzione di legittimità che ne imponga l’ottemperanza fino a contrario accertamento in giudizio (v. Cass.10 novembre 2008, n. 26920; Cass. 20 dicembre 2002, n.18209, Cass. 7 agosto 2015, n. 16592) sicché un’inobbedienza del lavoratore ben più risultare a posteriori giustificata;
5.1. con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.) dell’art. 3 del Regolamento del Questore di Lecce del 6/8/2009 in combinato disposto con l’art. 120 c.c.n.I. per le imprese esercenti attività di vigilanza in relazione alla sussistenza direttamente in capo alla guardia giurata dell’obbligo di effettuare con frequenza almeno semestrale esercitazioni di tiro con le armi utilizzate in servizio e alla gravità della violazione del relativo obbligo;
5.2. il motivo è inammissibile;
la ricorrente contrappone a quella della Corte territoriale una diversa lettura del Regolamento del Questore e un soggettivo personale apprezzamento della condotta e della responsabilità delle parti con riguardo all’esercitazione semestrale di tiro ma tale operazione non è consentita in sede di legittimità;
peraltro la Corte territoriale, al di là dell’interpretazione dell’indicato Regolamento e dell’individuazione del termine da cui far decorrere il computo del semestre per le esercitazioni da compiersi, ha incentrato la propria valutazione sulla circostanza che la società (unica custode del libretto di tiro) fosse ben consapevole del fatto che l’ultima esercitazione risaliva al 10/10/2010 e ciò nonostante avesse utilizzato il N. nel servizio, esponendosi a rilievi e contestazioni degli organi di Polizia deputati ai controlli, ed è, per tale via, giunta alla conclusione che anche tale addebito fosse significativo di una mala fede contrattuale, come un pretesto per liberarsi di un dipendente ‘scomodo’;
tale argomentazione non è lambita dai rilievi della ricorrente;
quanto alle ulteriori censure, va ricordato che la valutazione della gravità delle infrazioni poste a base di un licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, a meno che i giudizi formulati si pongano in contrasto con i principi dell’ordinamento espressi dalla giurisdizione di legittimità e con quegli ‘standard’ valutativi esistenti nella realtà sociale (riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro, riguardo alla disciplina del lavoro subordinato) che concorrono con detti principi a comporre il diritto vivente (cfr. Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743; Cass. 23 febbraio 2009, n. 4369);
nel caso di specie, la Corte territoriale, con motivazione congrua e immune da vizi logici, ha escluso che la contestata mancata esercitazione di tiro (cui peraltro, come si rileva dalla sentenza, il N. aveva ovviato in data 2/7/2011, e cioè prima del licenziamento) fosse di rilievo tale (considerate tutte le circostanze del caso e così anche la piena consapevolezza da parte dell’azienda, viste le sue funzioni di vigilanza sul rinnovo dei documenti alle scadenze, e la sua inerzia nel sollecitare o ricordare al dipendente l’esercitazione semestrale) da giustificare la massima sanzione espulsiva e da connotare per ciò solo in termini di insopportabilità la presenza del lavoratore e di futura inaffidabilità dello stesso circa la prestazione dedotta in contratto.;
6.1. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) dell’art. 7 della legge n. 300/1970 in relazione al mancato rilievo attribuito, ai fini della recidiva, a fatti disciplinarmente rilevanti rispetto ai quali la stessa Corte di appello ha prospettato che le contestazioni di cui al licenziamento fossero in continuità;
6.2. Anche questo motivo non è accoglibile risolvendosi nella prospettazione di una diversa lettura, più favorevole alla parte, di elementi di fatto.
La Corte territoriale, nella complessiva valutazione, si è riferita anche alla contestata recidiva ed alle precedenti mancanze sanzionate con provvedimenti conservativi ed anzi ha inquadrato i due addebiti di cui al licenziamento (dei quali, peraltro, il primo risultato del tutto insussistente e il secondo svalutato nella sua portata di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro) proprio in quel contesto di tensioni tra le parti determinatosi a seguito dell’adozione da parte dell’azienda dei primi provvedimenti sanzionatori;
così il giudizio conclusivamente espresso è stato correttamente rapportato al complesso degli elementi risultati in concreto (sia oggettivi che soggettivi);
7.1. Con il settimo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.) dell’art. 2094 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 2105 cod. civ. per non aver debitamente considerato la Corte territoriale la condotta del lavoratore successiva alla sua richiesta di reintegra nel posto di lavoro (svolgimento di attività presso altro istituto di vigilanza esercente nella provincia di Lecce) e quindi il comportamento da questi tenuto in violazione del dovere di fedeltà;
7.2. il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza e per novità della questione;
qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione d’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (v. Cass. 2 aprile 2004, n. 6542; Cass. 10 maggio 2005, n. 9765; Cass. 12 luglio 2005, n. 14599; Cass. 11 gennaio 2006, n. 230; Cass. 20 ottobre 2006, n. 22540; Cass. 27 maggio 2010, n. 12992; Cass. 25 maggio 2011, n. 11471; Cass. 11 maggio 2012, n. 7295; Cass. 5 giugno 2012, n. 8992; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1435; Cass. 3 aprile 2015, n. 6840);
nella specie non si evince quando – cioè con quali atti e dove essi si trovino – e in quali esatti termini la questione sia stata sottoposta ai giudici del merito, il che nel caso in esame non è avvenuto;
il motivo contiene una mera sintesi narrativa della difesa della Folgor s.r.l. nel giudizio di primo grado ed in quello di secondo grado A ma tanto non soddisfa l’osservanza del principio di autosufficienza stante la mancata riproduzione del contenuto degli indicati atti difensivi dei quali non è neppure indicata l’esatta collocazione nell’incarto processuale;
8. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto;
9. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;
10. va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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