CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 marzo 2020, n. 7342
Tributi – Accertamento – Operazioni ritenute soggettivamente inesistenti – Iva indetraibile – Costi indeducibili – Onere di prova contraria a carico del contribuente
Ritenuto che
– la V.A. s.r.l. ha impugnato l’avviso di accertamento per l’anno di imposta 2003, notificato in data 11 luglio 2007, col quale le era stata contestata l’infedele presentazione della dichiarazione annuale ai fini Irpeg, Irap e Iva, recuperando a tassazione costi non deducibili per € 77.250,00 e relativa Iva indetraibile per € 15.540,00, in quanto derivante da operazioni soggettivamente inesistenti, oltre sanzioni e interessi;
– la Commissione tributaria provinciale di Frosinone ha respinto il ricorso;
– la Commissione tributaria regionale del Lazio ha accolto l’appello della contribuente, riconoscendo il diritto alla detrazione Iva sul presupposto dell’estraneità della ricorrente alle operazioni ritenute dall’amministrazione inesistenti, mentre non sarebbe stata dimostrata la non effettività e corrispondenza delle operazioni ai documenti fiscali;
– l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi;
– la società contribuente, pur regolarmente intimata, non si è costituita in giudizio.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso si contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, comma 1, e 54, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, dell’art. 2729 c.c., nonché dei principi indicati nella sentenze della Corte di giustizia delle comunità europee 12 gennaio 2006 (cause C-354/03, 355/03 e 484/03) e 6 luglio 2006 (cause C-439/04 e 440/04) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Secondo quanto dedotto, il processo verbale di contestazione del 12 aprile 2007 della Guardia di Finanza e la documentazione prodotta in giudizio dimostrerebbero che la fornitrice E., con cui la contribuente aveva intrattenuto dei rapporti commerciali, era una società fittizia (non era in possesso di una sede operativa, né di beni patrimoniali o di personale dipendente; i prezzi erano inferiori a quelli di mercato; le consegne non venivano mai effettuate da E., le auto di provenienza estera arrivavano direttamente alla V.A. s.r.l.; i pagamenti venivano eseguiti dalla contribuente prima ancora della emissione delle fatture di acquisto da parte di E.; nei confronti del legale rapp.te della E., B.R.S., era stata esercitata azione penale). Detti fatti dovevano ritenersi pacifici in quanto mai contestati dalla contribuente, la quale si è limitata a mettere in dubbio la loro rilevanza ai fini del diritto alla detrazione. La Commissione tributaria regionale, d’altro canto, non contesta l’esistenza della frode fiscale in cui era coinvolta E., ma rileva che vi sarebbe “l’evidente estraneità della ricorrente”;
– con il secondo motivo di ricorso si deduce un vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine a un fatto decisivo e controverso del giudizio in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Si deduce, al riguardo, che l’Ufficio aveva emesso l’avviso di accertamento sulla base di una serie di circostanze emerse in sede di verifica e inequivocamente attestanti che la contribuente aveva operato con società cartiere, ponendo in essere operazioni soggettivamente inesistenti su cui indebitamente aveva operato la detrazione. La Commissione tributaria regionale avrebbe così trascurato di considerare i fatti controversi e decisivi segnalati dall’Ufficio in sede di appello (la natura di cartiere della società apparente cedente E., la modalità dei pagamenti, eseguiti dalla V.A. s.r.l. prima che E. emettesse le fatture, e la consegna diretta delle auto da parte dei fornitori comunitari, senza alcun passaggio presso le importatrici). In presenza di tali elementi non può che apparire illogica la sentenza impugnata che in modo del tutto apodittico si limita a considerare “evidente” l’estraneità di V. alla frode, ma di fatto non indica alcun elemento sulla cui base la Commissione tributaria regionale ha fondato il proprio convincimento, che appare smentito dagli elementi dedotti in sede di appello dall’Ufficio. Se avesse tenuto conto dei fatti decisivi dedotti nelle proprie difese, la conclusione non avrebbe potuto essere quella censurata di “evidente estraneità” della contribuente alla frode. Del tutto criptico, inoltre, appare il passaggio motivazionale in cui la Commissione tributaria regionale afferma la «non dimostrata “non effettività e corrispondenza” delle operazioni (peraltro soltanto tre) ai documenti fiscali»;
– i motivi, da trattarsi congiuntamente, in quanto strettamente connessi, sono fondati;
– secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema d’Iva, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga a operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base a elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27554; Cass. 5 luglio 2018, n. 17619; Cass. 18 maggio 2018, n. 12258; Cass. 15 maggio 2018, n. 11873; Cass. 9 settembre 2016, n. 17818; Cass. 5 dicembre 2014, n. 25778);
– l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza e alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare e afferenti alla sua sfera di azione (Cass. 20 aprile 2018, n. 9851);
– ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia, né assumendo rilievo la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. 20 aprile 2018, n. 9851);
– nel caso di specie, la pronuncia impugnata si è limitata, nella sua parte motiva, a riprodurre – giustapponendole – le tesi difensive della contribuente contenute nell’atto d’appello senza alcuna elaborazione critica, giungendo ad affermare di dover accogliere l’appello per “l’evidente estraneità della ricorrente alle operazioni asserite inesistenti”, non potendo essere pregiudicato il suo diritto all’esercizio della detrazione dell’Iva assolta negli acquisti, per la non dimostrata non effettività e corrispondenza dell’operazione ai documenti fiscali. In questo modo, la Commissione tributaria regionale ha finito per trascurare i plurimi elementi indicati dall’Ufficio, che evidenziavano la natura fittizia delle società con cui la contribuente aveva intrattenuto dei rapporti commerciali, finendo per invertire l’onere della prova richiesto in materia dalla giurisprudenza di questa Corte e incorrendo così nel duplice vizio denunciato;
– al fine di assolvere l’onere della prova gravante sull’amministrazione, non è inoltre necessaria la prova del diretto coinvolgimento o della partecipazione all’evasione ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole (Cass. 20 aprile 2018, n. 9851);
– avendo l’Amministrazione finanziaria fornito idonei elementi probatori della natura di “cartiera” della società collocata a monte della cessione e del fatto che il cessionario, in base alle circostanze emerse dalle operazioni contestate, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva, sarebbe spettato alla società contribuente, che con tale società aveva intrattenuto rapporti commerciali, fornire la prova di aver svolto tali trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente;
– la pronuncia deve essere dunque cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese di legittimità.
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