CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 novembre 2021, n. 34976
Licenziamento – Esigenze oggettive di riorganizzazione aziendale – Soppressione della figura della posizione lavorativa della dirigente – Principio di correttezza e buona fede
Rilevato che
– con sentenza in data 5 ottobre 2017, la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato l’appello proposto da I.M. avverso la sentenza del locale Tribunale di rigetto del ricorso in opposizione allo stato passivo per l’ammissione in via privilegiata – previa modifica dello stato passivo – al Fallimento della Società Sportiva Calcio N. del proprio credito, che era stato ammesso per la sola somma di euro 105.789,45 con esclusione della somma di euro 133.512,35 – richiesta a titolo di indennità supplementare – per la ritenuta insussistenza di un licenziamento ingiustificato;
– in particolare, la Corte, condividendo l’iter argomentativo del primo giudice, ha ritenuto legittimo il provvedimento espulsivo, sulla scorta delle esigenze oggettive di riorganizzazione aziendale che avevano indotto alla soppressione della figura della posizione lavorativa della dirigente nonché di altra ad essa sovrapponibile;
– per la cassazione della sentenza propone ricorso I.M., affidandolo a due motivi; – resiste, con controricorso assistito da memoria, il Fallimento della Società Sportiva Calcio N. S.p.A.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione degli artt. 437 e 425 cod. c.p.c. per aver la Corte rilevato la mancata produzione del CCNL Dirigenti Aziende Industriali richiamato nell’atto di appello – e non in primo grado nel cui atto introduttivo era stato invocato il CCNL per i Dirigenti di aziende del Terziario, Distribuzione e Servizi – con conseguente rilievo del novum e senza far uso dei poteri istruttori;
– con il secondo, articolato motivo, si lamenta la violazione dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ., allegandosi la motivazione apparente nonché la violazione dell’art. 2103 cod. civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la violazione delle norme del CCNL di settore anche in relazione all’art. 2697 cod. civ., in ordine in particolare alla ritenuta insussistenza di elementi probatori a sostegno della lamentata dequalificazione oltre che in ordine alla ritenuta sussistenza di nesso causale fra le esigenze di carattere organizzativo e il licenziamento della dirigente, ciò che aveva determinato il mancato riconoscimento dell’indennità supplementare, spettante esclusivamente nell’ipotesi di licenziamento non assistito da giustificatezza;
– il primo motivo è infondato e, pertanto, non può essere accolto;
– giova rilevare, al riguardo, in primo luogo la struttura perplessa del motivo, atteso che parte ricorrente censura, in modo non chiaro, sia il mancato esercizio da parte del giudice di secondo grado dei propri poteri officiosi nell’acquisizione del Contratto collettivo ivi invocato, sia il ritenuto carattere di novità della indicazione di diverso contratto in secondo grado rispetto a quello precedentemente indicato;
– va, poi, evidenziato che le due censure si saldano nella loro infondatezza, sul rilievo che proprio la mancata produzione del contratto collettivo la cui applicazione è stata invocata successivamente non suggeriva l’esercizio da parte del giudice di secondo grado dei propri poteri officiosi alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369, comma 2, n. 4, c. p. c. – può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, ovvero con l’indicazione della collocazione del medesimo nel fascicolo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c. (sul punto, fra le tante, Cass. n. 6255 del 2019);
– in ogni caso, inconferenti appaiono le censure, atteso che la decisione resiste in quanto fondata sull’autonoma ratio decidendi che ha ritenuto difettanti sia il demansionamento che l’ingiustificatezza del licenziamento;
– il secondo motivo, oltre ad essere formulato in modo promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contesta l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento, criticando sotto vari profili la valutazione dalla stessa compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali e documenti;
– parte ricorrente omette di considerare che il presente giudizio di cassazione, ratione temporis, è soggetto non solo alla nuova disciplina di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., in base alla quale, le sentenze possono essere impugnate “per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”, ma anche a quella di cui all’art. 348 ter, ult. co . cod. proc. civ., secondo cui il vizio in questione non può essere proposto con il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d, doppia conforme (v. sul punto, Cass, n. 4223 del 2016; Cass. n. 23021 del 2014);
– quindi, non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito, e che lamentano una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, segnatamente con riguardo alle mansioni in concreto espletate dalla ricorrente ed alla ristrutturazione aziendale intervenuta, sia perché formulate in modo difforme rispetto ai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. limitando la scrutinabilità al c.d. “minimo costituzionale”, sia nella parte in cui attingono questioni di fatto rispetto alle quali la sentenza di appello ha confermato la pronuncia di primo grado;
– quanto alle censure con cui, in varie forme, si denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 2119 c.c., occorre ribadire i confini del sindacato di questa Corte a mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., ove si controverta del giustificato motivo oggettivo di licenziamento del dirigente;
– premesso che nella valutazione globale ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, (sul punto, fra le altre, Cass. n. 34739 del 2019), va poi rilevato, con particolare riguardo al giustificato motivo oggettivo, che il licenziamento individuale del dirigente d’azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. (ex plurimis, Cass. n. 12668 del 2016);
– nel caso di specie, la Corte ha evidenziato come l’impugnata comunicazione di recesso fosse sorretta da motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili, consistite principalmente nel rilievo, nell’ambito del processo di razionalizzazione dei vari settori della struttura aziendale, del sovradimensionamento della presenza di due figure aziendali, quella del direttore di controllo e coordinamento e quella del direttore amministrativo, rispetto alle necessità ed alle dimensioni aziendali, nella esistenza di “inutili duplicazioni di funzioni” e nella “necessità immediata di istituire una organizzazione aziendale dell’area amministrativa più snella che preveda l’accorpamento al direttore controllo e coordinamento di alcune delle funzioni gestionali ora svolte dal direttore amministrativo”;
– i giudici di secondo grado hanno poi aggiunto che il nuovo organigramma aziendale, così come descritto nella comunicazione di recesso, comportava, altresì, la “soppressione” della “posizione lavorativa” della appellante, nonché la “creazione di una figura intermedia di quadro sottoposto gerarchicamente al controllo e coordinamento” non senza precisare che dal febbraio del 1998 era venuto meno il ruolo di “assistente dell’amministratore unico” ricoperto dall’appellante, in coincidenza con l’uscita dall’azienda del dott. Innocenti e con l’assunzione, da parte della M., delle funzioni di direttore amministrativo;
– la giustificatezza dell’impugnato licenziamento non è stata ritenuta revocabile in dubbio dalla Corte, alla luce, peraltro, del risultato della prova orale, da cui è stata evinta l’effettività della soppressione del ruolo ricoperto dalla M., in considerazione delle insindacabili scelte datoriali che avevano ritenuto di razionalizzare la struttura societaria ed in particolare l’ufficio amministrativo, nel quale esistevano due figure dirigenziali sostanzialmente sovrapponibili;
– orbene, ritiene il Collegio che le censure contenute nel motivo considerato, pur allegandosi un vulnus dell’art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ. mirino ad ottenere una rivalutazione in fatto della vicenda, nonostante prospettino una violazione di legge, configurandosi, così, come inammissibili secondo l’insegnamento del Supremo Collegio (SU 34776 del 2019);
– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere respinto;
– le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali, in favore della parte controricorrente, che liquida in euro 5000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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