CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 ottobre 2019, n. 26368
Tributi – IVA – Esenzione per difetto del requisito di territorialità – Appalto – Lavori relativi al funzionamento e alla manutenzione degli impianti portuali – Principio di equivalenza dei rapporti giuridici tra imprese consorziate e società consortile e tra queste e l’ente appaltante – Presupposti – Identità di fatturazione
Fatti di causa
Nel 1999, le imprese riunite T. s.p.a. e I. s.r.l. si aggiudicarono l’appalto per i lavori di consolidamento e di adeguamento di alcune banchine del porto di Messina e, allo scopo, costituirono una società consortile ai sensi dell’art. 23-bis della legge n. 584/1977 (e successive modifiche), denominata Porto di Messina s.c. a r.l. In conformità alle disposizioni di legge e agli indirizzi dell’Amministrazione finanziaria, i lavori di cui all’appalto – eseguiti e realizzati dalla consortile – vennero direttamente fatturati da entrambe le società consorziate, per la quota di rispettiva spettanza, al Ministero dei Lavori Pubblici, senza addebito dell’IVA a titolo di rivalsa, trattandosi di servizi resi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1, 7 e 9, comma 1, n. 6, d.P.R. n. 633/1972, “prestati nei porti, … che riflettono direttamente il funzionamento e la manutenzione degli impianti ovvero il movimento di beni o mezzi di trasporto…”, e quindi che “non si considerano effettuati nel territorio dello Stato…”. La società consortile, per le operazioni passive, sostenne tutti i costi per l’acquisto di beni e per la prestazione di servizi necessari per l’esecuzione dei lavori appaltati, assolvendo regolarmente l’IVA nei confronti dei terzi cedenti, ma ribaltando detti costi nei confronti delle società consorziate, proquota, senza alcun addebito dell’IVA. Con specifico riferimento ai periodi d’imposta poi oggetto di accertamento (2001 e 2002), la società consortile, in relazione alle operazioni passive imponibili con terzi soggetti, detrasse l’IVA addebitatale a titolo di rivalsa, riportando nell’anno successivo l’ammontare eccedente, derivante dalle suddette operazioni passive. Il relativo ammontare, unitamente all’ulteriore eccedenza detraibile formatasi nel periodo 2002 (Unico 2003), venne chiesto a rimborso per l’importo di € 1.600.000,00, mentre la restante parte, pari ad € 163.378,00, venne riportata a nuovo, quale credito da portare in compensazione o detrazione. L’Agenzia delle Entrate-D.R. Sicilia, con nota del 11.10.2005, evase negativamente l’interpello ex art. 11 della legge n. 212/2000, avanzato dalla società il 23.6.2005; di seguito, l’Ufficio di Messina rettifico le dichiarazioni Unico 2002 e Unico 2003 ai sensi dell’art. 54 del d.P.R. n. 633/1972, notificando ad essa consortile, in data 17.11.2005, due avvisi di accertamento, per gli anni 2001 e 2002, e recuperando a tassazione, rispettivamente, € 736.426,00 (con relativa sanzione pari ad € 736.426,74), ed € 8.295,00, annullando la parte relativa all’intero credito IVA chiesto a rimborso, pari ad € 1.600.000,00, ed irrogando, infine, la sanzione pecuniaria di € 1.608.295,00. Entrambi gli avvisi vennero impugnati dalla società. Nelle more, in data 20.1.2006, l’Ufficio di Messina notifico anche formale diniego di rimborso – in relazione all’istanza presentata il 24.7.2003, per l’importo di € 1.600.000,00 – anch’esso impugnato.
La C.T.P. di Messina, previa riunione dei ricorsi, li accolse con sentenza del 5.12.2006, annullando gli avvisi di accertamento e il diniego di rimborso.
Impugnata detta decisione dall’Ufficio e, incidentalmente, dalla società, la C.T.R. della Sicilia, sez. stacc. di Messina, con sentenza del 26.2.2015, accolse l’appello della prima e parzialmente quello della seconda, riformando la decisione di primo grado in relazione agli avvisi di accertamento e al diniego di rimborso, ma escludendo le sanzioni.
Porto di Messina s.c.a r.l. ricorre ora per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte.
Ragioni della decisione
1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 6 (vigente ratione temporis), e dell’art. 9, comma 1, n. 6, del d.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. La ricorrente lamenta l’erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto imponibili ai fini IVA i rapporti di fatturazione tra la società consortile e le società consorziate (T. e Ipogeo), nonostante il carattere oggettivamente non imponibile delle operazioni stesse, tutte afferenti a servizi prestati nel porto di Messina e, quindi, non sul territorio nazionale, ai sensi della normativa in rubrica. Richiamando, a sostegno della propria tesi, giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 26183/2014), la ricorrente ribadisce che, nella specie, si tratta di operazioni non imponibili dal punto di vista oggettivo, irrilevante essendo quello soggettivo (come invece affermato dalla C.T.R.), solo occorrendo tener conto della natura dell’opera svolta, che nella specie è stata realizzata dal consorzio. La ricorrente, ancora, nega la possibilità di configurare autonomia dei rapporti tra le società consorziate, il consorzio e l’ente appaltante, come affermato dal giudice d’appello, giacché la disciplina di cui all’art. 23-bis della legge n. 584/1977 ha la funzione di legittimare consortile nei confronti dell’ente appaltante, ma non si sostituisce alle imprese riunite in ATI, che restano responsabili in via esclusiva.
1.2 – Con il secondo motivo, si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Rileva la ricorrente che le rettifiche operate dall’Ufficio determinano una vietata doppia imposizione, in palese contrasto col principio della neutralità dell’IVA. Sul punto, la C.T.R. ha del tutto omesso l’esame della questione, specificamente dedotta e dibattuta tra le parti.
1.3 – Con il terzo motivo, infine, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 56, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972, dell’art. 42, comma 1 e 3, del d.P.R. n. 600/1973, e 2697 c.c., nonché la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Rileva la società che, in relazione al diniego di rimborso, essa aveva eccepito sin dal ricorso introduttivo la nullità dell’atto, perché sottoscritto dal Capo area servizi e non dal Direttore titolare dell’Ufficio di Messina, in difetto di delega di firma. La questione, rimasta assorbita in primo grado, venne da essa società riproposta in appello. Sul punto, la C.T.R., esaminando l’appello incidentale della società, così provvide: “E’ altresì infondato laddove contesta il potere di firma, chiaramente giustificato, laddove necessario, dalla delega”. Ritiene la società che tale motivazione sia meramente apparente, e comunque resa in violazione delle norme in rubrica, perché – pacifico essendo che in atti non esiste alcuna delega di firma – il giudice d’appello non avrebbe potuto che farne discendere la nullità dell’atto espressamente prevista dalla legge, violando anche la regola in materia di riparto dell’onere della prova, gravante nella specie sull’Ufficio.
2.1 – Deve anzitutto esaminarsi, nell’ordine logico, il terzo motivo, che è infondato.
Infatti, la disposizione dell’art. 56, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972, che richiama implicitamente il disposto dell’art. 42 d.P.R. n. 600/1973 (v. Cass. n. 14942/2013), concerne espressamente la rettifica e l’accertamento ai fini IVA, e non anche il provvedimento di diniego di rimborso ex art. 30 d.P.R. n. 633/1972, che, qualora fondato (come nella specie) sulla “insussistenza dei relativi fatti costitutivi indicati nella norma citata, senza contestare l’esistenza stessa di un’eccedenza d’imposta dovuta, non ha, neppure sostanzialmente, natura di avviso di accertamento (che presuppone necessariamente una pretesa tributaria nuova)” (così, Cass. n. 8998/2014).
Deve pertanto escludersi che il provvedimento di diniego sia soggetto ai medesimi requisiti formali di cui all’art. 56 cit., sicché non può riscontrarsi il denunciato vizio di violazione di norma di diritto.
Ciò chiarito, resta anche escluso il denunciato vizio motivazionale, giacché il percorso logico-giuridico seguito dalla C.T.R., per quanto stringato, si muove chiaramente su base ipotetica (“laddove necessario”), evidentemente reputandosi sufficiente la mera allegazione circa l’esistenza della delega, rispetto al potere di firma di un atto che, qualora non firmato dal direttore dell’Ufficio, non può per ciò solo essere affetto da nullità.
3.1.1. Venendo ora al primo motivo, secondo la ricorrente (e fermo quanto successivamente precisato nella memoria – v. infra) è ravvisabile un sostanziale contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
Da un lato, Cass. n. 3556/2010 (non massimata), espressamente seguita dalla C.T.R. con la sentenza impugnata, ha affermato che “Il beneficio in riferimento è previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 9, comma 1, n. 6 per i ‘servizi prestati nei porti, autoporti, aeroporti e negli scali ferroviari di confine che riflettono direttamente il funzionamento e la manutenzione degli impianti’. Nella specie ricorre il presupposto oggettivo, ma non anche quello soggettivo della esenzione, giacché le prestazioni di cui trattasi sono state rese dal Consorzio non al committente di quei lavori, ma alle imprese consorziate. Esse non riflettono ‘direttamente il funzionamento e la manutenzione degli impiantì aeroportuali: qualificazione che spetta alle prestazioni che, tramite il consorzio, sono state rese dalle imprese riunite. Spetta dunque a queste ultime, come è pacifico, di fatturare i lavori al committente in esenzione di Iva, ma non anche al Consorzio nei confronti delle imprese. La disposizione del D.Lgs. n. 406 del 1991, art. 26, comma 2 (‘La società subentra, senza che ciò costituisca ad alcun effetto subappalto o cessione di contratto e senza necessità di autorizzazione o di approvazione, nell’esecuzione totale o parziale del contratto’) annulla il rilievo della sostituzione dell’esecutore nel rapporto fra committente ed imprese appaltatrici, ma non toglie che fra le imprese ed il consorzio si costituisca un autonomo rapporto giuridico, riconducibile al mandato, in forza del quale il Consorzio si incarica di rendere al committente le prestazioni ad esso dovute dalle imprese appaltatrici. Tali prestazioni, come precisato del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 3 u.p. devono considerarsi rilevanti ed imponibili anche nei confronti del mandante. Ed in assenza di una specifica previsione normativa che lo consenta, non può estendersi ad esse il beneficio dell’esenzione accordato al percettore dei servizi aeroportuali resi in forza del contratto di appalto, e fatturati dalle singole imprese riunite“.
Più recentemente, invece, Cass. n. 26183/2014, con specifico riferimento al subappalto, ha affermato che “In materia di I.V.A., l’esenzione per difetto del requisito di territorialità, prevista dall’art. 7, sesto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per i servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali, di cui all’art. 9 del citato d.P.R. n. 633 del 1972, opera in ragione dei criteri oggettivi della prestazione di servizio, identificata secondo la sua natura ed il suo scopo (nella specie, lavori relativi al funzionamento e alla manutenzione degli impianti) e del relativo luogo di esecuzione, assimilato a territorio non statale (“porti, autoporti, aeroporti e scali ferroviari, di confine”), essendo, invece, irrilevante, ai fini della non imponibilità, la Qualificazione soggettiva del committente o del prestatore del servizio e conseguentemente le eventuali modalità di esecuzione in subappalto, ove questo abbia ad oggetto i medesimi servizi dell’appalto principale, sicché non sono imponibili non solo le fatture emesse dall’appaltatore nei confronti del committente, ma anche quelle emesse dal sub-appaltatore nei confronti dell’appaltatore“.
Si tratta, secondo la prospettazione della società ricorrente, di pronunce affermative di principi di diritto tra loro contrastanti: in particolare, la più recente Cass. n. 26183/2014, nell’affermare la esclusiva rilevanza del requisito oggettivo, ai fini dell’esenzione IVA in discorso, segnerebbe il superamento di Cass. n. 3556/2010, nella cui continuità la C.T.R. ha invece valorizzato (pur ritenendo sussistente, nella specie, lo stesso requisito oggettivo) l’alterità soggettiva tra società consortile e società consorziate, così affermando la non imponibilità solo per le prestazioni fatturate alla stazione appaltante da queste ultime, quali parti sostanziali dell’appalto, e non anche per quelle fatturate dalla consortile alle stesse socie, tenuto conto anche dell’essenza del rapporto che tutte le lega, inquadrabile nel mandato senza rappresentanza.
3.1.2 – Con la memoria ex art. 380-bis. 1 c.p.c., la ricorrente ha poi invocato un più recente indirizzo giurisprudenziale, affermato da Cass. n. 18437/2017 e Cass. n. 3166/2018, secondo cui, non essendovi autonomia, quale centro di imputazione di interessi, tra società consortile e consorziate (questione come già detto valorizzata, in senso contrario, dalla C.T.R.), discende che “In tema di IVA, il principio di equivalenza dei rapporti giuridici tra imprese consorziate e società consortile e tra queste e l’ente appaltante impone l’unitarietà del regime fiscale della doppia fatturazione, con conseguente trasferibilità dell’agevolazione tributaria nell’ambito del meccanismo del cd. ribaltamento, per cui il regime fiscale della fattura originaria non può che essere il medesimo della fattura emessa nei confronti dei consorziati“. Sostanzialmente nello stesso senso, Cass. n. 24320/2018 ha poi affermato che “In tema d’IVA, il principio di equivalenza dei rapporti giuridici tra imprese consorziate e società consortile e tra queste e l’ente appaltante, riconducibile allo schema del mandato senza rappresentanza, impone che il regime fiscale della doppia fatturazione, prescritto dall’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sia unitario, con conseguente trasferibilità alle imprese consorziate dell’agevolazione tributaria propria della fattura originaria (tra committente e consorzio) secondo il meccanismo del cd. ribaltamento“.
In realtà, tali più recenti pronunce, lungi dal costituire un revirement giurisprudenziale, trovano la loro origine in risalenti arresti (tra cui, Cass. n. 13582/2001, Cass. n. 16410/2008 e, più di recente, Cass. n. 15330/2014) che valorizzano il carattere meramente strumentale della società consortile costituita nelle forme di società di capitale per l’esecuzione di un appalto di opere pubbliche, ai sensi dell’art. 23-bis della legge n. 584/1977 e successive modifiche, tanto da potersi affermare che, “dal punto di vista tributario, le operazioni e i costi della società consortile sono direttamente riferibili alle società consociate” e che “per le imprese socie costituiscono costi propri le spese affrontate per mezzo del consorzio” (così, testualmente, la recente Cass. n. 3166/2018, che richiama il precedente di Cass. n. 16410/2008).
La stessa Cass. n. 3166/2018, più volte citata, alla luce dei precedenti richiamati, afferma espressamente l’agevole superamento della tesi sostenuta da Cass. n. 3556/2010 (si ripete, costituente il fondamento della sentenza della C.T.R. qui impugnata), “pronunciata tra le stesse parti (…), secondo cui l’esenzione non spetterebbe perché pur ricorrendo il presupposto oggettivo (realizzazione di operazioni non imponibili perché riferite a lavori eseguiti in ambito aeroportuale), non ricorrerebbe «quello soggettivo della esenzione, giacché le prestazioni di cui trattasi sono state rese dal Consorzio non al committente di quei lavori, ma alle imprese consorziate»“.
3.2 – Ciò posto, ritiene la Corte di dover dare senz’altro continuità al consistente orientamento poc’anzi richiamato, condivisibile essendo l’affermazione del principio di equivalenza dei rapporti giuridici tra imprese consorziate e società consortile e tra queste e l’ente appaltante, nonché, con specifico riferimento all’esenzione IVA per cui è processo, al principio affermato da Cass. n. 26183/2014 circa l’esclusiva rilevanza del solo requisito oggettivo, ex art. 9, comma 1, n. 6, del d.P.R. n. 633/1972; correlativamente, si ritiene di non poter avallare il percorso motivazionale seguito dalla C.T.R., fondato (come più volte evidenziato) su un arresto isolato – ossia quello propugnato da Cass. n. 3556/2010, erroneamente basato sulla preminenza attribuita al requisito soggettivo, in subiecta materia – da ritenersi oramai definitivamente superato.
Tuttavia, quanto precede non può comportare l’accoglimento del motivo in esame (come pure richiesto dal P.G.), giacché la sentenza impugnata necessita soltanto di una correzione della motivazione, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c.: la decisione finale – con cui l’appello dell’Ufficio è stato accolto, stante l’inapplicabilità dell’esenzione IVA per cui è processo alle fatture di ribaltamento dei costi emesse da Porto di Messina s.c.a r.l. nei confronti di T. e Ipogeo – è infatti conforme a diritto.
3.3 – Al riguardo, si osserva che presupposto comune all’affermazione dei principi prima riportati è che le prestazioni fatturate alla stazione appaltante, dalla consortile o direttamente dalle consorziate, e quelle in seguito fatturate, rispettivamente, dalle consorziate alla consortile, o viceversa, siano identiche.
Infatti, il presupposto della necessaria identità di trattamento ai fini IVA – specificamente affermato anche da Cass. n. 26183/2014 (invocata dalla stessa ricorrente e resa in tema di subappalto) in relazione all’esenzione IVA per extraterritorialità, ex artt. 7, comma 6 (nel testo vigente ratione temporis) e 9, comma 1, n. 6, del d.P.R. n. 633/1972 – è che le prestazioni in comparazione siano le stesse; non è casuale che proprio nella motivazione di Cass. n. 26183/2014, richiamandosi la risoluzione del 31.3.2008 n. 31, adottata dall’Agenzia delle Entrate-Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, si precisi che le dinamiche tra società consortile e società consorziate, e tra appaltatore e subappaltatore, sono da considerarsi equiparate ai fini che qui interessano, “… sempre che, ovviamente, i lavori eseguiti dai subappaltatori/consorziati abbiano ad oggetto ‘la realizzazione dei medesimi servizi dell’appalto principale’, rimanendo invece escluse dall’applicazione della norma tributaria tutte quelle cessioni di beni e prestazioni di servizi a favore della società appaltatrice ‘meramente strumentali o propedeutiche’ alla esecuzione dei lavori oggetto del contratto di appalto (fornitura materiali di costruzione; noleggio macchinari di cantiere, ecc)”.
3.4 – Ora, a ben vedere, la società consortile odierna ricorrente pretende di rendere esenti IVA, per le proprie consorziate, i costi da essa affrontati per loro conto nei rapporti con i terzi per l’acquisto di materiali, servizi, ecc., che però essa stessa non ha potuto fare a meno di considerare (e trattare) come regolarmente imponibili a fini IVA (v. ricorso, p. 3).
Risulta però assolutamente evidente che la pretesa della società consortile di ribaltare detti costi sulle consorziate in esenzione IVA deve fare i conti con il presupposto dell’esenzione: ossia che si tratti di operazioni oggettivamente non imponibili. Tuttavia, le operazioni passive in discorso, in quanto non rientranti nel concetto di “servizi prestati nei porti… che riflettono direttamente il funzionamento e la manutenzione degli impianti , ex art. 9, comma 1, n. 6, d.P.R. n. 633/1972, non possono considerarsi esenti, proprio perché difetta il requisito oggettivo (erroneamente ritenuto sussistente, invece, dalla stessa C.T.R.): non è casuale che l’esenzione in discorso concerna i “servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali”, come significativamente riportato nella rubrica dell’art. 9 del d.P.R. n. 633/1972, non anche le cessioni di beni, o le acquisizioni di servizi, ai primi strumentali.
In buona sostanza, nel caso in esame, la società ricorrente non invoca l’esenzione “a monte”, ma pretende di recuperarla “a valle”, a beneficio delle sue socie. Tuttavia, come più volte detto, le operazioni di costo (ossia, quelle passive) sostenute dalla consortile per l’acquisto di materie prime, servizi, ecc., non possono considerarsi esenti ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. n. 633/1972, così come non lo sarebbero state per le stesse società consorziate (v. Cass. n. 26183/2014). Pertanto, l’unitarietà del regime fiscale della doppia fatturazione – una volta che le società consorziate, come nella specie, abbiano direttamente emesso fattura per l’esecuzione dell’appalto nei confronti dell’ente appaltante – può solo concernere la fattura emessa dalla consortile, che ha eseguito i lavori – per conto delle prime (come anche qui è pacifico), ma soltanto se riferita alle medesime prestazioni già fatturate allo stesso ente appaltante. Di ciò tuttavia, altrettanto pacificamente, non si discute nel presente giudizio.
A contrario, ne deriva che le operazioni passive effettuate dalla consortile, ove soggette al regime ordinario, possono senz’altro essere “ribaltate” sulle socie, ma con lo stesso regime, e ciò perché “il regime fiscale della fattura originaria non può che essere il medesimo della fattura emessa nei confronti dei consorziati” (Cass. n. 18437/2017 e Cass. n. 3166/2018). In altre parole, l’orientamento invocato dalla ricorrente nella memoria ex art. 380-ò/s. 1 c.p.c. non soltanto, a ben vedere, non le giova affatto, ma finisce col confermare la correttezza della tesi qui sostenuta: poiché il regime fiscale della doppia fatturazione deve essere identico, se le operazioni di acquisto effettuate dalla consortile non sono esenti ab origine (come nella specie ritenuto dalla stessa Porto di Messina nel momento del loro perfezionamento), non possono poi divenirlo all’atto del ribaltamento dei costi medesimi sulle società consorziate. Pertanto, difettando il requisito oggettivo dell’esenzione in discorso, il primo motivo va respinto, previa correzione della motivazione della decisione impugnata nel senso che precede.
4.1 – Infine, il secondo motivo è inammissibile.
Stando alla stessa prospettazione della ricorrente (v. ricorso, p. 40), il problema del divieto di doppia imposizione concerne una questione, e non già un fatto, rilevante ai sensi del nuovo art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nell’accezione datane da Cass., Sez. Un., n. 8053/2014, e molte altre.
La relativa censura, quindi, avrebbe dovuto essere prospettata, eventualmente, sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di norma di diritto, indirettamente (quanto al profilo in esame) sollevata con il primo motivo, già esaminato e respinto.
5.1 – Il ricorso è quindi rigettato. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 13.200,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228), si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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