CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 ottobre 2019, n. 26375
Tributi – Accertamento ex art. 41 del DPR n. 600 del 1973 – Omessa presentazione dichiarazione dei redditi, IVA e IRAP – Mancata tenuta alle scritture contabili obbligatorie – Determinazione induttiva del reddito
Fatti di causa
Con sentenza n. 424/5/2014, depositata il 27.1.2014 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia accoglieva l’appello dalla Agenzia delle Entrate contro la sentenza n. 94/1/2012 della Commissione Tributaria Provinciale di Varese che, in accoglimento del ricorso della Srl P., aveva annullato l’accertamento relativo ad IRES, IVA ed IRAP emesso dalla Direzione Provinciale di Varese per l’anno di imposta 2006, ai sensi dell’art. 41 del DPR n. 600 del 1973, a seguito di verifica fiscale che aveva accertato la mancata presentazione delle dichiarazioni dei redditi ed IVA per gli anni dal 2000 al 2006 nonché la mancata tenuta alle scritture contabili obbligatorie a fare data dal 1998 ed in conseguenza determinato presuntivamente i ricavi e l’IVA a debito sulla base dei dati riportati negli elenchi clienti e fornitori trasmessi telematicamente all’Amministrazione Finanziaria.
Con il ricorso la contribuente aveva lamentato, quanto al metodo di accertamento, la violazione dell’art. 39 del DPR n. 600 del 1972 e nel merito l’errata determinazione dell’IRAP ed il mancato riconoscimento dell’IVA detraibile. La Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso in relazione al primo motivo poiché, pur contenendo l’accertamento la indicazione specifica dell’art. 41 del D.P.R. n. 600 del 1973, peraltro aveva altresì fatto riferimento anche all’art. 39, comma 2, del DPR n. 600 del 1973 che non prevedeva la ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e che non legittimava, a fronte di tale omissione, la ricostruzione del reddito in via induttiva, il che avrebbe determinato la illegittimità dell’accertamento. Investita dall’appello dell’Agenzia delle Entrate che aveva rilevato come l’accertamento fosse legittimamente basato proprio sull’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 che prevedeva la ipotesi della omissione della dichiarazione, mentre il riferimento all’art. 39, comma 2, atteneva al criterio per la determinazione del carico fiscale, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia lo accoglieva rilevando come si versasse – sulla base dell’esame dell’atto impugnato – in una ipotesi di accertamento legittimamente e dichiaratamente emesso ai sensi dell’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 in caso di omissione delle dichiarazioni fiscali, non contestata neppure dalla contribuente, per cui la determinazione delle imposte era avvenuta sulla base dei criteri di cui all’art. 39 comma 2 dello stesso DPR che consentivano di prescindere anche dai bilanci e dalle scritture contabili, tanto più che in sede di verifica la ricorrente non aveva presentato alcuna documentazione contabile ed il suo legale rappresentante aveva dichiarato che dal 1998 la società non aveva tenuto alcuna scrittura contabile, a nulla rilevando un registro degli acquisti prodotto dalla parte solo in sede di contenziosa che non aveva alcun requisito di certezza, costituendo una mera ricostruzione a posteriori priva di alcuna efficacia probatoria.
Contro la sentenza, non notificata, propone ricorso la Srl P. con atto notificato in data 7 luglio 2014, per ottenere la cassazione della sentenza, affidandolo a due motivi.
La Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso la Società P. lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 39 e 41 del DPR n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc, poiché, pur essendo nella specie applicabile unicamente l’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 in considerazione della omissione delle dichiarazioni fiscali, la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto che “l’accertamento.. ..è stato emesso in base a quanto prescritto dall’art. 41 del DPR 6000/73 ed è stato basato sulla normativa dell’art. 39 comma 2 DPR 600/72” , come se le due distinte modalità di accertamento potessero essere usate cumulativamente, mentre si trattava di due diverse ipotesi tassative e alternative, previste da norme diverse e basate su diversi presupposti, consistenti, rispettivamente, nella omessa presentazione della dichiarazione e nelle irregolarità formali nella tenuta della contabilità. Ne conseguiva uno specifico interesse della contribuente alla applicazione della corretta norma di legge cui rispondeva una specifica regola.
Con il secondo motivo si duole poi della violazione degli artt. 55 del DPR n. 633 del 1972, della Sesta Direttiva Europea in materia di IVA 17 maggio 1977 n. 77/388 (in particolare agli artt. 17, 18, 22 e ss.) e dell’art. 53 della Costituzione, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc, poiché, a fronte della richiesta della contribuente di detrarre dal calcolo l’IVA sugli acquisti, la sentenza impugnata aveva erroneamente escluso la detrazione in base al rilievo che non poteva essere fondata sul registro degli acquisti predisposto a posteriori e prodotto per la prima volta con successiva memoria difensiva nel giudizio, in quanto privo di certezza e di qualsiasi valore probatorio, benchè la prova dell’IVA da detrarre fosse già contenuta nell’accertamento che aveva ricavato i costi dall’elenco dei clienti e fornitori utilizzato per il calcolo del reddito finale. La esclusione della detrazione era altresì illegittima poiché la ricorrente aveva prodotto nel giudizio la documentazione necessaria alla ricostruzione dei costi sostenuti per la produzione, che erroneamente era stata ritenuta non probante dalla sentenza impugnata, la quale avrebbe invece dovuto disapplicare l’art. 55 del DPR n. 633 del 1972 e riconoscere al contribuente, pur in assenza delle scritture contabili regolarmente tenute, la possibilità di provare aliunde la sussistenza del diritto sostanziale che legittima il soggetto passivo dell’IVA al recupero di quanto versato in eccedenza, così come risultava anche dalle più recenti sentenze della Corte di Cassazione che, in presenza di violazioni formali, facevano applicazione delle linee guidadettate con riferimento alla Sesta Direttiva CEE in materia di IVA con riguardo alla possibilità di detrarre l’IVA in caso di osservanza degli obblighi sostanziali.
Il primo motivo è infondato.
La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia avvalorato la utilizzazione, da parte dell’Ufficio, di un metodo di accertamento cumulativo e contra legem ritenendo che le due distinte modalità di accertamento (quella prevista dall’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 in caso di dichiarazione omessa o nulla e quella di accertamento induttivo extracontabile ex art. 39 comma 2 dello stesso DPR, prevista per il caso di inattendibilità complessiva della contabilità) potessero essere usate cumulativamente, mentre si trattava di due diverse ipotesi tassative e alternative, previste da norme diverse e basate su diversi presupposti.
Sul punto occorre premettere che, in tema di accertamento tributario, sulla base di una giurisprudenza consolidata di questa Corte, cui si ritiene di dovere dare continuità, rientra nel potere dell’Amministrazione finanziaria, nell’ambito della previsione di legge, la scelta del corrispondente metodo da utilizzare per procedere all’accertamento, di cui il contribuente può dolersi solo se gliene derivi un pregiudizio sostanziale (v., per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 2872 del 03/02/2017 Rv. 642889). L’Amministrazione finanziaria non è infatti vincolata nella metodica da utilizzare, spettandole il potere di scegliere, nell’ambito dei criteri stabiliti dalla legge, quello ritenuto, nel caso, utile per il buon fine dell’azione accertativa, per cui una doglianza, che si limiti a contestare la correttezza formale di un atto impositivo, in connessione con una scelta discrezionale dell’amministrazione ed in assenza di pregiudizio sostanziale, risulta inammissibile, per difetto di interesse e non è idonea a giustificarne l’annullamento.
Nella specie, come emerge chiaramente dalla sentenza impugnata e come non è contestato sostanzialmente neppure dalla ricorrente, sussistevano astrattamente i presupposti per l’accertamento ai sensi dell’art 41 del DPR n. 600 del 1973, ma anche ai sensi dell’art. 39 comma 2 poiché la contribuente aveva omesso di presentare le dichiarazioni fiscali ma aveva pure omesso, in base alle dichiarazioni rese dal legale rappresentanze della società in sede di verifica fiscale ed alle emergenze delle verifica, di aggiornare dal 1998 i libri e le scritture contabili e quindi di tenere da quella data le scritture obbligatorie, il che rendeva, all’evidenza, inattendibile nel complesso la contabilità.
In una tale situazione l’Ufficio, potendo scegliere quale tipologia di accertamento adottare, aveva emesso — dichiaratamente — l’accertamento d’ufficio ai sensi dell’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 e cioè in base alla mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali per l’anno 2006, che veniva in considerazione, ma anche per tutti gli anni pregressi a partire dal 2000 (il che risulta non solo dalla sentenza impugnata ma anche dalla parziale trascrizione che ne fa il ricorrente a pagine 2 e 5 del ricorso laddove riconosce che l’accertamento ha menzionato espressamente l’art. 41 ed è stato emesso ai sensi dell’art. 41 in conseguenza della omissione delle dichiarazioni fiscali), anche se nel corpo dell’accertamento ha richiamato l’art. 39 comma 2. Tale richiamo, generato da un rilievo contenuto nell’accertamento e trascritto anche nel ricorso, per cui “la società, pur essendo pienamente operativa e pur avendo istituito le scritture contabili ed i libri sociali” non li aveva poi aggiornati a partire dal 1998, determinerebbe, secondo la ricorrente, la illegittimità dell’accertamento in conseguenza dell’uso cumulativo di due diverse modalità di accertamento che invece sarebbero alternative, ma l’argomento è erroneo sotto un duplice profilo. In primo luogo, infatti, l’accertamento è stato dichiaratamente ed oggettivamente emesso in conseguenza dei presupposti dell’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 e la citazione di una diversa disposizione nel suo corpo non ne determina alcuna illegittimità con riguardo alle condizioni ed alla metodologia adottata. In secondo luogo poi — a parte il rilievo che l’Ufficio avrebbe potuto scegliere di valorizzare l’una o l’altra disposizione o anche entrambe per emettere l’accertamento, in presenza dei presupposti di legge sia dell’una che dell’altra – non esiste alcuna incompatibilità logica e normativa fra le due tipologie di accertamento che richiamano entrambe, in presenza di grave tipologie quali la mancata tenuta o la inattendibilità totale della contabilità o ancora la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali, il cd. metodo induttivo extracontabile per la determinazione del reddito di impresa.
In base all’art. 39, secondo comma DPR 600/73, nel testo vigente ratione temporis, infatti, “l’ufficio determina il reddito di impresa sulla base di dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti (…) di gravità, precisione e concordanza quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate (….) ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica”, ma anche in base all’art. 41 “l’ufficio determina il reddito complessivo del contribuente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui al terzo comma dell’art. 38 e di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze della dichiarazione, se presentata, e dalle eventuali scritture contabili del contribuente ancorchè regolarmente tenute”. Il richiamo all’art. 39 nel corpo dell’accertamento non ha quindi dato luogo ad alcuna illegittimità dell’accertamento o ad una inammissibile commistione di metodi, come sostiene il ricorrente. Tanto più che, alla luce del già citato criterio emergente dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui l’Amministrazione finanziaria non è vincolata nella metodica da utilizzare, spettandole il potere di scegliere, nell’ambito dei criteri stabiliti dalla legge, quello ritenuto, nel caso, utile per il buon fine dell’azione accertativa, per cui è inammissibile per difetto di interesse la doglianza, che si limiti a contestare la correttezza formale di un atto impositivo, in connessione con una scelta discrezionale dell’amministrazione ed in assenza di pregiudizio sostanziale (v., per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 2872 del 03/02/2017 Rv. 642889), la contribuente non ha mai indicato quale interesse avrebbe avuto alla emissione dell’accertamento ai sensi dell’art. 41 (accertamento d’ufficio previsto per le ipotesi di dichiarazione omessa ovvero di dichiarazione nulla) piuttosto che ai sensi dell’art. 39 comma 2 del DPR n. 600 del 1973, quando la metodologia applicata da entrambi gli accertamenti è sempre quella induttiva extracontabile.
La sentenza impugnata, pur con le precisazioni che precedono si è sostanzialmente attenuta a tali criteri, poiché ha ritenuto che l’accertamento in esame sia stata emesso correttamente ai sensi dell’art. 41 del DPR n. 600 del 1973 con la utilizzazione della metodologia prevista anche dall’art. 39 comma 2 dello stesso DPR, con conseguente rigetto del primo motivo di ricorso.
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La ricorrente lamenta violazione di legge, da parte della sentenza impugnata, laddove aveva escluso la detraibilità dell’IVA a credito, sotto un duplice profilo: e cioè in quanto l’Ufficio avrebbe avuto la possibilità di riconoscere e detrarre l’IVA sugli acquisti in base agli elenchi clienti e fornitori trasmessi alla Amministrazione Finanziaria ai sensi dell’art. 37, commi 8 e 9 del D.L. n. 223 del 206, convertito dalla legge n. 248 del 2006, utilizzato dalla Amministrazione Finanziaria per determinare il reddito di impresa e lo avrebbe potuto fare anche la Commissione Tributaria Regionale sulla base dei documenti prodotti dalla società in sede di appello. In una tale situazione la sentenza impugnata avrebbe erroneamente escluso la detrazione in base al rilievo che non poteva essere fondata sul registro degli acquisti predisposto certamente a posteriori e prodotto per la prima volta con successiva memoria difensiva nel giudizio, in quanto privo di certezza e di qualsiasi valore probatorio, benchè la prova dell’IVA da detrarre, anche in caso di omessa presentazione della dichiarazione e di omessa tenuta delle scritture contabile, fosse consentita pure nel giudizio, previa disapplicazione dell’art. 55 del DPR n. 633 del 1972, con riguardo alla possibilità di detrarre l’IVA, pur in presenza di violazioni formali, in caso di osservanza degli obblighi sostanziali in applicazione delle linee guida dettate con riferimento alla Sesta Direttiva CEE in materia di IVA.
Premesso che il primo profilo non integra certamente una censura ascrivibile alla violazione di legge poiché la sentenza impugnata indica come unica censura in appello quella concernente la detraibilità dell’IVA in base alla documentazione prodotta nel giudizio e solo a tale censura ha dato risposta, la sentenza impugnata ha fatto applicazione, quanto alla censura in punto di IVA, di corretti principi giuridici per cui, in tema di IVA ed ai fini della determinazione dell’imponibile in via induttiva, nel caso di mancata presentazione della dichiarazione annuale, l’art. 55 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 – il quale ha carattere sanzionatorio dell’obbligo di presentare tale dichiarazione – consente di computare in detrazione (oltre ai versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente) solo le imposte, detraibili ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. cit., che risultino dalle dichiarazioni mensili e trimestrali, di modo che, in difetto, resta irrilevante che il pagamento di tali imposte sia evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d’impresa (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 1422 del 26/01/2015 Rv. 634618 — 01). Peraltro, occorre evidenziare che, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, non avendo il contribuente tenuto la contabilità di impresa, non esibita in sede di verifica ed anzi dichiaratamente assente, come sostenuto dal legale rappresentante della società in sede di verifica, nessun rilievo probatorio poteva attribuirsi alla documentazione prodotta dalla ricorrente nel giudizio in quanto ricostruita a posteriori e priva dei requisiti di certezza ed attendibilità, il che rende la censura inammissibile sotto il profilo della violazione di legge poiché la sentenza impugnata ha esaminato la censura e la ha ritenuta infondata sulla base di una motivazione tutt’altro che illogica ed anzi conforme a legge. Invero, nel caso di determinazione in via induttiva dei ricavi, è onere del contribuente provare i fatti modificativi della pretesa esercitata dall’amministrazione finanziaria, mediante l’allegazione degli elementi reddituali idonei ad incidere negativamente sulla stessa, senza che tale obbligo possa essere sostituito da un apprezzamento discrezionale operato d’ufficio dal giudice tributario, vincolato a pronunciare la propria decisione “iuxta alligata et probata partium” (v. per tutte Cass.. Sez. 5, Sentenza n. 24778 del 04/12/2015 Rv. 638129 — 01), per cui, se la parte non ha fornito la prova, non può lamentare la mancata detrazione dell’IVA.
Non è in discussione la applicabilità del principio comunitario di neutralità dell’IVA e neppure quello per cui l’accertamento induttivo ex art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972 non determina l’automatica perdita del diritto alla detrazione dell’imposta assolta per rivalsa sugli acquisti di beni e servizi, trattandosi di principio ormai riconosciuti da questa Corte sulla base di una elaborazione giurisprudenziale consolidata, però, in assenza di dichiarazione e di tenuta della contabilità per numerosi anni di seguito, come nel caso in esame, l’onere di provare i crediti vantati può essere adempiuto, fra l’altro solo in caso di comportamento incolpevole -il che non pare prospettabile nella specie alla luce della condotta della società ricorrente che non aveva tenuto la contabilità per sei anni di seguito e neppure presentato la dichiarazione dei redditi senza addurre alcuna giustificazione- con le modalità di cui all’art. 2724 c.c., mentre nella specie ciò non è avvenuto, non avendo fra l’altro mai la ricorrente neppure dedotto di avere eseguito versamenti in materia di IVA (v. Cass. Sentenza n. 25694 del 14/12/2016 Rv. 641946 – 02).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.
Sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del comma 1 bis dell’art.13 comma 1 quater d.PR n.115/2002, essendo stato il ricorso notificato il 7.7.2014.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 3.500,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito. Dà atto ai sensi dell’art.13 c.1 quater dPR n.115/2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dell’art. 13 comma 1 quater d.P.R. n. 115/2002.
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