CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 settembre 2019, n. 23108
Lavoro – Demansionamento – Rimozione dall’incarico di responsabile di reparto – Risarcimento del danno – Cessazione del rapporto di lavoro
Rilevato
che la Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza pubblicata in data 7.4.2016, ha rigettato il gravame interposto da S.C., nei confronti della S. S.p.A., avverso la pronunzia del Tribunale di Chieti, resa il 16.10.2014, con la quale era stato respinto il ricorso proposto dal C., diretto ad ottenere la condanna della società al risarcimento del danno da demansionamento, pretesamente subito dal dipendente dal mese di aprile 2009 sino al novembre 2010, data di cessazione del rapporto di lavoro;
che per la cassazione della sentenza ricorre S.C., articolando tre motivi, cui la S. S.p.A. resiste con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 366 (recte: 360), primo comma, n. 5, c.p.c., «l’omesso esame di fatti storici risultanti dal testo della sentenza e dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti ed aventi carattere decisivo», e si lamenta che i giudici di seconda istanza non avrebbero tenuto in considerazione due circostanze che, a parere del ricorrente, sarebbero emerse all’esito dei giudizi di merito e che avrebbero avuto una importanza decisiva: «il fatto che il C. aveva segnalato ai vertici i difetti della produzione degli utensili derivante dall’impiego di acciai di qualità difettosa e che a tale segnalazione, avvenuta nel mese di marzo 2009, aveva fatto seguito subito dopo (aprile 2009) la rimozione dell’Ing. C. dall’incarico di responsabile di reparto per il quale era stato assunto» ed «il fatto che le mansioni affidate all’Ing. C. dal mese di aprile 2009 in poi erano state tutte di brevissima durata»; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., «la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, I comma, 116, I comma, c.p.c. per omessa valutazione della prova, vizio denunciabile ai sensi dell’art. 132, II co., n. 4, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. per nullità della sentenza. Error in procedendo»; in particolare, si assume che l’omesso esame e la conseguente omessa valutazione delle risultanze processuali relativamente ai fatti descritti nel primo mezzo di impugnazione avrebbero comportato la violazione delle citate norme processuali e, quindi, la nullità della sentenza; 3) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. e si deduce che la Corte di merito avrebbe dovuto accogliere la domanda in considerazione del fatto che la Corte di legittimità «riconosce come mobizzante anche un demansionamento di breve durata purché apprezzabile» e tenuto anche conto della documentazione sanitaria prodotta dal ricorrente;
che i primi due mezzi di impugnazione – che possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione e che, nella sostanza, appaiono finalizzati ad un riesame del merito, non consentito in questa sede – sono inammissibili sotto diversi e concorrenti profili: ed invero, per quanto, più in particolare attiene al primo, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza>> della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 7.4.2016, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; né, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza «così radicale da comportare», in linea con «quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della pronunzia per mancanza di motivazione». E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015) che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale, come innanzi osservato, con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata. Peraltro, nella sentenza oggetto del presente giudizio, si fa ampio riferimento al fatto che «è risultata priva di riscontro probatorio la circostanza che l’appellante non è stato più chiamato a partecipare alle riunioni settimanali di coordinamento (i testi D.B. e T. hanno di contro precisato che l’Ing. C. ha partecipato alle medesime fino a quando sono state effettivamente indette, atteso che per la riduzione della produzione conseguente alla crisi non sono state più fatte)» e che «risulta positivamente accertato che nel periodo 2009-novembre 2010, durante il quale l’appellante è stato collocato in CIGO per 720 ore pari a 18 settimane (cfr. pag. 11 ricorso in appello) in rotazione, egli è stato impiegato fattivamente in diverse attività» (v., in particolare, pagg. 4 e 5 della sentenza);
che dalle osservazioni che precedono, consegue, altresì, all’evidenza, l’inammissibilità del secondo motivo;
che, inoltre, ai sensi dell’art. 348-ter, co. 4 e 5, del codice di rito, <<in caso di doppia conforme, è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicché il sindacato di legittimità del provvedimento di primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili» (così testualmente – e tra le molte -, Cass., Sez. VI, n. 26097/2014); che, pertanto, in tali ipotesi, «il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell’art. 360>>; e tale disposizione, inserita dall’art. 54, co. 1, lett. a), del D.I. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. 7.8.2012, n. 134, è applicabile al caso di specie, ai sensi del co. 2 dello stesso articolo (che stabilisce che le norme in esso contenute si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto), essendo stato introdotto il gravame con atto in data 16.4.2015;
che il terzo motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente non ha indicato analiticamente sotto quale profilo le disposizioni di cui agli artt. 2103 e 2087 c.c. sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria e questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità della doglianza svolta dal ricorrente; peraltro, è altresì da sottolineare che il ricorrente dà per postulato che <<il fatto di essere stato adibito a mansioni sporadiche, non equivalenti a quelle di assunzione, come risulta dal primo motivo di ricorso, comporta violazione delle norme richiamate»: argomento, questo, ritenuto motivatamente insussistente dalla Corte distrettuale, come analiticamente osservato innanzi;
che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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