CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 settembre 2020, n. 19381
Accertamento – Ricostruzione analitica delle fatture – Risultanze di magazzino difformi da quelle dichiarate – Prova contraria del contribuente – Sussiste
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 505 del 15 novembre 2012, depositata il 26 novembre 2012, la Commissione Tributaria Regionale per l’Abruzzo sezione staccata di Pescara (di seguito, CTR) rigettava l’appello proposto da S. G. S.r.l. (di seguito, la contribuente) avverso la sentenza di primo grado che ne aveva a sua volta respinto il ricorso avverso l’avviso di accertamento per Iva e Irap anno 2006.
2. Dalla lettura della sentenza, si evidenzia che nel corso di una verifica fiscale la GdF aveva proceduto alla ricostruzione analitica di ogni singola fattura (ricevuta o emessa) per accertare l’effettivo volume d’affari; a tal fine, gli operanti avevano calcolato gli scarti di lavorazione, riscontrando risultanze di magazzino difformi rispetto a quelle dichiarate; in assenza di documentazione giustificativa della parte, avevano quindi presunto che le mancanze e le eccedenze di magazzino erano rispettivamente cessioni o acquisto di beni.
3. A sostegno della decisione, la CTR, disattendendo le tesi difensive, riteneva che: – era consentita la motivazione dell’avviso di accertamento per relazione al PVC; – la percentuale di sfrido, applicata in un’unica percentuale, era conosciuta dal legale rappresentante e, seppure non determinata con metodo statistico, costituiva il risultato della valutazione effettuata dall’operatore; – l’esame del PVC non dava ragione dei dubbi sollevati dalla società.
4. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi, a cui l’Agenzia resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la contribuente deduce ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c. la violazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600/73, 7 e 12 della legge n. 212/2000. In sintesi, ritiene che il richiamo per relazione contenuto nell’accertamento al PVC da parte dell’ufficio sia illegittimo per violazione delle norme che impongono all’agenzia di motivare, e sia privo di adeguate valutazioni in merito alle puntuali doglianze da essa esternate (riportate nel ricorso ai fini dell’autosufficienza);
– il motivo è infondato;
– la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che “In tema di avviso di accertamento, la motivazione “per relationem” con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivato l’avviso di accertamento che, richiamando il processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, evidenziava che la società contribuente aveva annotato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse da altra società “cartiera”, così registrando costi indebiti)”. (Sez. 5 – , Sentenza n. 32957 del 20/12/2018, Rv. 652115 – 01). Tale motivazione è quindi sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero a tassazione in relazione al contenuto dell’atto richiamato ed a porre i contribuenti in grado di adeguatamente spiegare le proprie difese, sia negando i fatti costitutivi della pretesa fiscale, sia contrastando le risultanze dell’atto impositivo mediante acquisizione di ulteriore documentazione e di altri elementi probatori idonei a dimostrare la insussistenza della pretesa fiscale;
– è ancora da precisare che è destituito di fondamento l’assunto secondo il quale, quando aderisce alle ricostruzioni, impostazioni, argomentazioni della GdF, l’ufficio deve poi necessariamente motivare le ragioni per cui non accoglie quelle della parte. L’adesione alle valutazioni dell’organo verificatore non impone che, in una sorta di circolo vizioso, siano esposti anche i motivi per i quali non sono accolte quelle contrarie, posto che esse, se valide, sono idonee di per sé a sostenere la motivazione, senza che ne sia necessaria un’altra confutativa che nulla di più potrebbe apportare: del resto, “in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente ex art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo” (Cass. n. 8378 del 2017, n. 3583 del 2016).
2. Con il secondo motivo, è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 3, 4 del d.P.R. n. 441/1997 e 2729 c.c., per aver il giudice a quo assegnato un valore di presunzione legale alla ricostruzione cartolare delle materie prime vendute ed acquistate dalla società, in assenza di un inventario fisico, ma sulla scorta di mere valutazioni dell’operatore venendo meno la presunzione di cessione e di acquisto di beni posta dal d.P.R. n. 441/1997; in tal modo, si sostiene, era stato violato anche il regime delle presunzioni in quanto per quantificare gli sfridi era stata utilizzata una percentuale unitaria, per ciascun periodo di imposta e su tutte le lavorazioni, senza tenere in conto la peculiarità dell’attività svolta dal contribuente;
– la censura è infondata;
– il d.P.R. 10 novembre 1997, n. 441 (regolamento recante norme per il riordino della disciplina delle presunzioni di cessione e di acquisto), dopo aver stabilito, per quanto qui di interesse, all’art. 1, comma 1, che “si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti”, dispone, all’art. 4, che: “1. Gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche. 2. Le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 14, comma 1, lett. d), o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo”;
– ne deriva, come si legge nella sentenza n. 9628/12 di questa Sezione, che, ai fini dell’operatività della presunzione legale (relativa) di cessione, occorre che la differenza quantitativa, in negativo, tra beni esistenti nei luoghi sopra indicati e quelli acquistati, importati o prodotti risulti o a seguito della verifica fisica dei beni giacenti, oppure dal confronto – “differenza inventariale” – tra la consistenza delle rimanenze registrate e le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui al d.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, comma 1, lett. d), o di altra documentazione obbligatoria. Nello stesso senso, si è espressa la Circolare 193/1988 del dipartimento affari giuridici del Ministero delle Finanze;
– pertanto, nel caso in cui – come si legge alla pag. 2 della sentenza impugnata – la rideterminazione dei ricavi è stata compiuta attraverso il calcolo dei materiali acquistati e venduti, ma non attraverso un inventario delle merci in magazzino, si è fuori dall’ambito applicativo della disciplina dettata dal D.P.R. n. 441 del 1997;
– tuttavia, l’inoperatività delle presunzioni legali di cessione, non esclude la rettifica delle dichiarazioni anche sulla base di presunzioni semplici dotate dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.: invero, dalla sentenza risulta con sufficiente chiarezza che le percentuali di incidenza dello sfrido sono state determinate in base alla natura dell’attività svolta;
– pur denunziando nella specie violazione di legge, la contribuente omette di indicare i ravvisati profili di erronea interpretazione di norme da parte della corte di merito, e dal fornire la prospettazione della diversa lettura delle medesime ritenuta viceversa “corretta” (cfr. Cass., 8/5/2006, n. 10500); in conformità, in particolare, a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, infatti, il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata; il riferito principio comporta – in particolare – tra l’altro che è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente, mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa tra le diverse soluzioni adottabili, porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata (Cass. 15 febbraio 2003, n. 2312);
– nella specie, la contribuente si limita a contestare la valutazione dell’amministrazione recepita dalla CTR, ma non indica quali a suo motivato giudizio fossero le corrette percentuali di sfrido.
3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la contribuente condannata alla rifusione del spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo. Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’articolo 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 quater all’articolo 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo di versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata, trattandosi di ricorso per cassazione la cui notifica si è perfezionata il 25/5/2013, successivamente quindi alla data del 30 gennaio 2013 (Cass., Sez. 6-3, sentenza n. 14515 del 10 luglio 2015).
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, in complessivi euro 5.600, oltre alle spese prenotate a debito ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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