CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 dicembre 2020, n. 29087
Tributi – Contenzioso tributario – Procedimento – Ricorso in cassazione – Contemporanea prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, num. 3 e num. 5, cod. proc. civ. – Inammissibilità
Rilevato che
1. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla K.O. s.p.a. un avviso di accertamento, in materia di Irpeg ed Irap, relative all’anno d’imposta 2003, con il quale, per quanto qui ancora d’interesse, recuperava a tassazione la differenza tra la minor quota deducibile e quella maggiore dedotta del costo di cui al fondo di accantonamento per rischi ed oneri, destinato dalla contribuente a precostituire le risorse necessarie al reintegro del valore della merce da restituire alla terza C.T. s.p.a., che le aveva affittato un ramo d’azienda che aveva per oggetto diversi punti di rivendita, comprendendo nel contratto l’affitto del magazzino merci.
Ha assunto infatti l’Ufficio che il costo in questione avrebbe potuto essere accantonato esclusivamente nel limite del 66,28% del valore della merce inventariata, avendo le parti concordato che tale era il valore corrente di quest’ultima che la contribuente affittuaria avrebbe dovuto rimborsare alla concedente al termine del contratto d’affitto del ramo d’azienda, salva l’alternativa facoltà di restituire alla stessa concedente i medesimi prodotti. Infatti, pur dando atto della natura alternativa dell’obbligazione contrattuale civilistica in questione, gravante sulla contribuente affittuaria, l’Agenzia ha ritenuto che, ai fini fiscali, solo il costo corrispondente alla quota del valore inventariato, concordata tra le parti, avesse i caratteri della certezza e delle determinabilità, necessari ai fini della deducibilità del componente negativo dall’imponibile.
Inoltre, l’ufficio ha recuperato a tassazione anche una quota d’ammortamento, relativa a spese pluriennali su beni di terzi, che la contribuente aveva calcolato erroneamente con criteri diversi da quelli di cui all’art. 74 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
2. La contribuente ha impugnato l’avviso di accertamento dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Napoli, che ha rigettato il ricorso.
5. La contribuente ha allora impugnato la sentenza di primo grado dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Campania che, con la sentenza n. 82/39/12, depositata il 29 febbraio 2012, ha rigettato l’appello.
8. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della predetta sentenza d’appello, affidandolo a due motivi.
9. L’Ufficio si è costituito con controricorso.
10. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. Il primo motivo di ricorso è stato così formulato dalla contribuente: «Violazione dell’art. 101 e 109 t.u.i.r.- violazione dell’art. 107 t.u.i.r.- violazione dell’art. 2558, co. 1, c.c. e degli artt. 2561 e 2562 c.c. in relazione all’art. 360 co. 1° n. 3 c.p.c.; violazione dell’art. 2372 e ss. c.c. (errata interpretazione dei contratti regolanti i rapporti tra affittante e affittuario) in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Omessa motivazione sulla mancata osservanza della risoluzione n. 424/E del 5.11.2008 dell’Agenzia delle entrate (deducibilità delle svalutazioni dei crediti in caso di affitto di azienda- articoli 101 e 109 del t.u.i.r.) in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.».
Nella sostanza, per quanto ricavabile dal composito motivo, la ricorrente si duole, sotto diversi profili, della decisione impugnata nella parte in cui non ha riconosciuto la deducibilità dell’importo di cui al predetto accantonamento.
1.1. Il motivo è inammissibile sotto molteplici profili.
Innanzitutto, il motivo è inammissibile per la contemporanea prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, num. 3 e num. 5, cod. proc. civ., atteso che la lettura dell’intero corpo del relativo mezzo d’impugnazione evidenzia una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che comporta l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).
Pertanto, i distinti motivi di cui al num. 3 ed al num. 5 dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., cumulati formalmente nella rubrica del primo motivo di ricorso, risultano, anche nel contenuto di quest’ultimo, censure ontologicamente non distinte dallo stesso ricorrente e quindi non autonomamente individuabili, se non eventualmente tramite un’inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione da parte di questa Corte.
1.2. Inoltre, il motivo è inammissibile anche perché la ricorrente deduce in ordine al contenuto del contratto d’affitto in questione, senza adempiere l’onere di cui all’art. 366, primo comma, num. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, non solo degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, ma anche dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. U., 03/11/2011, n. 22726). Non è stato infatti specificato, nel motivo di ricorso in esame, se e quando il contratto in questione sia stato già prodotto nei gradi di merito del giudizio.
1.3. Ulteriormente inammissibile è il motivo nella parte in cui si duole – genericamente ed incomprensibilmente evocando la «violazione dell’art. 2372 e ss. c.c. » ( relativo alla rappresentanza nelle assemblee delle società)- dell’errata interpretazione del medesimo contratto di cui al punto che precede. Infatti, per giurisprudenza consolidata, «La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra.» (Cass. 28/11/2017, n. 28319, ex plurimis). Nel caso di specie, la ricorrente ha omesso di indicare quali sarebbero stati i canoni ermeneutici legali violati ed in che modo la loro applicazione dovrebbe condurre alla diversa interpretazione prospettata dalla stessa contribuente.
Infine, va rilevato, sempre ai fini dell’mammissibilità del motivo, che l’argomentazione sul punto della contribuente è correlata alla riproduzione solo parziale del testo contrattuale, atteso che la clausola, descritta come art. 8», della quale si censura genericamente l’interpretazione, non contiene il riferimento alla determinazione percentuale (66,28%) del valore delle merci inventariate che componevano il magazzino dell’azienda di cui al contratto, sebbene tale contenuto dell’ accordo costituisca un dato sul quale si fondano l’accertamento e la stessa controversia, e sia espressamente rilevato nella sentenza impugnata, oltre che menzionato, senza contestazioni, dalle parti nel ricorso e nel controricorso. Tanto meno, poi, il testo della clausola invocata riprodotto nel motivo contiene la previsione dell’alternativa facoltà dell’affittuaria di reintegrare la differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto restituendo, al termine del rapporto, alla concedente la medesima quantità dei prodotti inventariati, al costo corrente, in luogo del pagamento del loro valore in danaro nella misura concordata.
Pertanto, in parte qua, il motivo neppure attinge la ratio decidendi della sentenza.
1.4. Ancora, il motivo è inammissibile nella parte in cui censura l’omessa motivazione del giudice a quo in ordine alla «mancata osservanza della risoluzione n. 424/E del 5.11.2008 dell’Agenzia delle entrate del 28/11/2017», atteso che il mezzo non denuncia alcun «fatto controverso e decisivo per il giudizio», come richiesto dall’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. applicabile ratione temporis, e considerato che le circolari ministeriali in materia tributaria ( e tanto meno le risoluzioni) non costituiscono comunque fonte di diritti e obblighi, sicché, ove pure il contribuente si fosse in ipotesi conformato a un’interpretazione erronea fornita dall’Amministrazione finanziaria, non sarebbe esonerato dall’adempimento dell’obbligazione tributaria, fatta salva l’eventuale rilevanza del suo affidamento relativamente ai profili sanzionatori, qui non controversi (cfr. Cass. 11/07/2019, n. 18618, ex plurimis).
1.5. Infine, il motivo è inammissibile, nel suo complesso, perché neppure attinge la ratio decidendi della decisione impugnata in ordine al rilievo in questione, atteso che la CTR non ha messo in dubbio che l’ultimo comma dell’art. 2651 cod. civ., applicabile all’affitto d’azienda ex art. 2652 cod. civ., potesse essere derogato da condizioni contrattuali previste in concreto tra le parti, che avrebbero potuto consentire all’affittuaria di reintegrare, alla fine del rapporto, materialmente la quantità della merce inventariata, sopportandone il costo corrente, piuttosto che pagarne il valore, nella quota convenzionalmente pattuita, alla concedente. Il giudice a quo, invece, ha escluso che, ai fini fiscali, al momento dell’accantonamento in questione ( che peraltro neppure rientra tra quelli tassativamente previsti dall’art. 107, già 73, d.P.R. n. 917 del 1986), la prima alternativa, che avrebbe comportato rischi ed oneri pari al valore pieno della merce inventariata ed alienata nel corso dell’affitto, integrasse, nel periodo di riferimento, i requisiti di certezza ed obbiettiva determinabilità richiesti dagli artt. 109 e 101 d.P.R. n. 917 del 1986. A tale argomentazione, la ricorrente non ha puntualmente opposto specifiche argomentazioni.
2. Il secondo motivo di ricorso è stato così formulato dalla contribuente: «Violazione dell’art. 108 t.u.i.r. (già art. 74)- violazione dell’art. 2425 bis, n. 5, c.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.- assoluta mancanza di motivazione in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.». Omessa motivazione sulla mancata osservanza della risoluzione n. 424/E del 5.11.2008 dell’Agenzia delle entrate (deducibilità delle svalutazioni dei crediti in caso di affitto di azienda- articoli 101 e 109 del t.u.i.r.) in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.».
Nella sostanza, per quanto ricavabile dal composito motivo, la ricorrente si duole, sotto diversi profili, della decisione impugnata nella parte in cui non ha riconosciuto la deducibilità dell’ammortamento, relativo a spese pluriennali di ristrutturazione di beni immobili di terzi condotti in locazione dalla contribuente, che quest’ultima avrebbe calcolato erroneamente, con criteri diversi da quelli di cui all’art. 74 d.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui la quota deducibile andrebbe determinata tenendo conto del periodo residuale della locazione e corrisponderebbe ad 1/8 dell’importo totale della spesa per le ristrutturazioni.
2.1. Anche tale motivo è inammissibile sotto diversi profili. Innanzitutto, il motivo è inammissibile per la contemporanea prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, num. 3 e num. 5, cod. proc. civ., incompatibili e non specificamente distinguibili nel corpo del mezzo (si rinvia a quanto dedotto nel paragrafo 1.1.1. che precede, anche per le relative citazioni giurisprudenziali).
2.2. Inoltre il motivo è altresì inammissibile perché non soddisfa il requisito di cui all’art. 366, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, dei fatti di causa, con esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata (cfr., ex plurimis, Cass. 03/02/2015, n. 1926; Cass. 31/07/2017, n. 19018; Cass. 28/05/2018, n. 13312). Infatti, dalla lettura del motivo non è dato comprendere a quali immobili (con riferimento anche alla loro classificazione funzionale rispetto all’ attività dell’impresa ed alla loro ricomprensione nel contratto d’affitto di ramo d’azienda de quo) si riferiscano le spese (a loro volta non meglio specificate, se non con l’apodittico riferimento alla “ristrutturazione” ) in questione. Tanto meno, poi, si traggono dal motivo riferimenti cronologici relativi all’esborso delle spese ed alla loro imputazione temporale, anche rispetto alla durata residuale del contratto. Difetta, inoltre, nel motivo la compiuta allegazione del piano d’ammortamento pluriennale delle spese in questione predisposto dalla contribuente e l’indicazione degli specifici criteri, commisurati alla durata dell’utilità del bene, utilizzati al fine di stabilire la quota di costo imputabile a ciascun esercizio. Né, comunque, la ricorrente ha indicato puntualmente i documenti sui quali il ricorso si fonda in parte qua ed i dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 111; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. U., 03/11/2011, n. 22726).
Le carenze, appena illustrate, nella formulazione del motivo, non consentono a questa Corte di cogliere il senso e la fondatezza, o meno, della censura in questione, poiché attengono ad aspetti essenziali della fattispecie controversa.
Infatti, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 14/03/2018, n. 6288, in motivazione) ha già avuto modo di affermare in tema di imposte sui redditi, e con riguardo alla determinazione del reddito di impresa, che la deducibilità delle spese relative a più esercizi è subordinata, ai sensi dell’art. 74 (ora 108) , terzo comma, d.P.R. n. 917 del 1986, all’indicazione degli specifici criteri cui commisurare la durata dell’utilità del bene, al fine di stabilirne la quota di costo imputabile a ciascun esercizio ( v. Cass. 19/6/2009, n. 14326). E’ stato invero rilevato che, a differenza dell’art. 67 (ora 102), secondo comma, d.P.R. n. 917 del 1986, il successivo art. 74, terzo comma, non prevede alcuna tipizzazione dei criteri di esposizione di tali componenti negativi del reddito, con la conseguenza che la ripartizione pluriennale non può aver luogo semplicemente applicando i criteri legali stabiliti per gli ammortamenti ma l’impresa (il contribuente) ha l’onere di indicare criteri specifici commisurati alla durata dell’utilità del bene, al fine di stabilire la quota di costo imputabile a ciascun esercizio (Cass. 10/4/2006, n. 8344 ). Questa Corte ha poi precisato – con riferimento a spese per manutenzione e riparazioni nonché ad opere e migliorie, relative ad immobili condotti in locazione dal contribuente- che i costi di natura straordinaria sostenuti dal conduttore, in vista della relativa utilità pluriennale ai sensi dell’art. 2426, primo comma, num. 5, cod. civ., possono (previo consenso del collegio sindacale, ove esistente) essere iscritti nell’attivo, anziché essere imputati in conto economico come componenti negativi del reddito di esercizio in cui sono sostenuti, ove la società ritenga, in base ad una scelta fondata su criteri di discrezionalità tecnica, di capitalizzarli in vista di un successivo ammortamento pluriennale, anziché farli gravare interamente sull’esercizio in cui sono stati sostenuti (v. Cass. 6/11/2013, n. 24939), sulla base dell’indicazione di specifici criteri, commisurati alla durata dell’utilità del bene, al fine di stabilire la quota di costo imputabile a ciascun esercizio ( v. Cass. 10/4/2006, n. 8344). In quest’ultimo caso, in presenza di un piano di ammortamento redatto in relazione alla durata contrattuale della locazione deve tenersi allora conto della scadenza di quest’ultima, in quanto commisurata alla possibilità di utilizzazione delle opere in oggetto (sulla necessità, ai fini dell’alternativa prevista dall’art. 2426, primo comma, num. 5, cod. civ., della verifica caso per caso dell’utilità delle migliorie, in ragione dello scopo perseguito con il contratto che fonda la disponibilità del contribuente sul bene che ne oggetto, e della durata dello stesso titolo, cfr. anche Cass. 24/08/2018, n. 21065, in motivazione).
La già rilevata mancata esposizione degli elementi oggettivi che compongono la fattispecie in questione preclude quindi in questa sede la comprensione e l’esame della fondatezza della tesi della contribuente, che censura la decisione del giudice a quo, espressamente basata proprio sul criterio cronologico della durata residua del periodo di locazione e quindi della possibilità, per la contribuente, di utilizzare i beni immobili in questione.
3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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