CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 febbraio 2021, n. 4312
Tributi – Accertamento – Reddito di impresa – Immobile destinato alla “grande distribuzione commerciale” – Ammortamento accelerato – Legittimità
Rilevato che
Con sentenza n. 261/48/13, depositata il 10 dicembre 2013 la Commissione tributaria regionale della Campania respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, Ufficio locale, avverso la sentenza n. 155/8/10 della Commissione provinciale tributaria di Caserta che aveva accolto il ricorso di C. srl contro l’avviso di accertamento per imposte dirette ed IVA 2004.
La CTR osservava in particolare che:
– era fondato il rilievo di omessa pronuncia della CTP casertana sulla questione della percentuale di ammortamento da applicarsi in relazione all’immobile sede dell’azienda, ma che tuttavia la pretesa fiscale avente ad oggetto tale questione era infondata, trattandosi di immobile destinato alla “grande distribuzione” (cat. Catastale D/8) e come tale soggetto a maggiore deterioramento, sicché l’aliquota maggiorata (6%) applicata dalla società contribuente doveva considerarsi corretta;
– che di contro era destituito di fondamento l’appello agenziale in ordine alla questione della fittizietà delle operazioni commerciali (vendita di bevande) intrattenute da C. srl con M. srl, avendo la CTP correttamente valutato le prove agli atti e conseguentemente affermato l’insussistenza della contestazione dell’Ente impositore circa la insussistenza delle operazioni e la natura frodatola dei rapporti C./M..
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate deducendo tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste con controricorso la società contribuente.
Considerato che
Con il primo motivo – ex art. 360, primo comma, n. 3-4, cod. proc. civ. – l’Agenzia Fiscale ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 67 (102), TUIR, 132, cod. proc. civ., poiché la Commissione tributaria regionale, pur rimediando all’omissione di pronuncia della Commissione tributaria provinciale, ha deciso la questione della – contestata – applicazione della percentuale di ammortamento dell’immobile aziendale optando per la soluzione datavi dalla società contribuente (c.d. “ammortamento accelerato”) sulla sola considerazione che trattasi di edificio destinato alla “grande distribuzione commerciale”, ma senza considerare in concreto la maggior usura (quindi la maggiore aliquota di ammortamento) che ne deriva e da ciò appunto derivandone entrambi i vizi, di giudizio e di attività, dedotti.
La censura è inammissibile e comunque infondata.
Su tale punto decisionale la CTR campana si è così espressa:
«Osserva il Collegio che, per i fabbricati destinati alla grande distribuzione .. la tabella ministeriale relativa alle “Attività non precedentemente specificate – Altre attività” prevede l’applicazione dell’aliquota del 6% .. Appare quindi giustificata l’applicazione dell’aliquota di ammortamento maggiorata, utilizzata dalla società, consentita, evidentemente, dal fatto che le grosse strutture immobiliari sono soggette ad un maggior deterioramento».
E’ dunque chiaro che l’unica, effettiva, ratio decidendi consiste nell’applicazione da parte del giudice tributario di appello della previsione normativa secondaria (d.m. 31 dicembre 1988, tabella allegata) – basata su quella primaria dell’art. 102, secondo comma, TUIR applicabile ratione temporis (anno d’imposta 2004) – secondo la quale la misura dell’ammortamento per i «fabbricati destinati alla grande distribuzione» è del 6% annuo.
Pacifico in fatto che di tal tipo di fabbricato si tratti (la società contribuente è commerciante all’ingrosso di bevande), non vi è alcuna possibilità di sussumere, come pretende erroneamente l’agenzia fiscale ricorrente, la fattispecie concreta nella, diversa, previsione del c.d. “ammortamento accelerato” di cui all’art. 102, terzo comma, TUIR (sempre nella versione applicabile ratione temporis).
Pertanto l’aggiunta motivazionale della CTR campana circa la ratio legis («consentita, evidentemente, dal fatto che le grosse strutture immobiliari sono soggette ad un maggior deterioramento») non può che essere appunto ritenuta che un rilievo, per nulla viziante, appunto circa la scelta di normazione secondaria in esame ovvero come un mero obiter dictum.
Ne deriva, allo stesso tempo, l’inammissibilità della censura perché estranea all’effettiva ragione decisionale della sentenza impugnata e comunque la sua infondatezza, stante la corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella normativa astratta operata dal giudice tributario di appello, la cui motivazione sul punto, pur concisa, è del tutto perspicua ed adeguata nonché riguardante un punto di diritto, non di fatto, dunque in ogni caso non aggredibile come vizio motivazionale (v. Cass. n. 29886 del 13/12/2017, Rv. 646295 – 01).
Con il secondo motivo – ex art. 360, primo comma, n. 3-4, cod. proc. civ. – l’agenzia fiscale ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 112, 132, cod. proc. civ., 21, 54, dPR 633/1972, 2697, 2729, cod. civ., poiché la Commissione tributaria regionale, con motivazione meramente “apparente”, limitandosi a richiamare e condividere apoditticamente le argomentazioni contenute nella sentenza appellata, ne ha confermato il giudizio di infondatezza delle pretese creditorie portate dall’atto impositivo impugnato, con particolare riguardo al contestato profilo di inesistenza soggettiva delle operazioni oggetto delle riprese.
Con il terzo motivo – ex art. 360 n. 4 c.p.c. – l’agenzia fiscale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. rilevando che la C.T.R. ha fornito una motivazione apparente anche in relazione al comportamento dei primi giudici, ritenuto dalla C.T.R. indenne da qualsivoglia censura, laddove hanno chiesto all’ufficio di presentare in originale la nota n. 25/2007 e il p.v.c. della Guardia di Finanza di Corsico sulla cui base era stato adottato l’avviso di accertamento. Secondo l’agenzia ricorrente rimane incomprensibile alla luce di tale motivazione quale sia la correlazione fra il descritto comportamento processuale della C.T.P. e il contenuto della decisione adottata che peraltro non sembra in realtà aver tenuto conto né esaminato il contenuto del p.v.c.
I due motivi che investono la motivazione della C.T.R. appaiono inammissibili oltre che infondati. Al ricorso si applica la nuova dizione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. norma che sebbene non invocata nella rubrica dei due motivi è l’unica cui poter riferire il contenuto delle censure svolte dalla Agenzia ricorrente perché la motivazione resa dalla CTR, non consiste in un mero richiamo alla motivazione della C.T.P. inidoneo a far comprendere le ragioni per cui sono state respinte le censure dell’appellante ma consiste invece in una puntuale replica alla confusa contestazione dell’appello riportato nel testo del ricorso per cassazione. E infatti la CTR ha esposto e ribadito gli elementi di fatto in base ai quali deve escludersi che sia stata dimostrata l’inesistenza oggettiva dell’operazione cui si riferisce la richiesta di detrazione dell’IVA da parte della odierna controricorrente e anzi deve riconoscersi la sua effettività dal momento che la merce è stata documentata presso l’Agenzia delle Dogane, consegnata e pagata. L’Agenzia ricorrente insiste genericamente nell’affermare che questo non esclude che l’operazione abbia comunque posto in essere una frode fiscale ma neanche con il ricorso per cassazione fa uno specifico riferimento agli elementi di prova della inesistenza soggettiva della cessione e della rilevanza di tali elementi al fine di presumere che un operatore commerciale come la società C. dovesse necessariamente essere in grado di riconoscere tale inesistenza. Alla base di questa mancata specificazione della censura sta l’erroneo convincimento che gravasse sul contribuente l’onere di provare di non essere coinvolto in una frode fiscale laddove invece la giurisprudenza univoca di questa Corte è nel senso di ritenere che “in tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario sul fatto per cui l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (cfr. da ultimo Cass. civ. sez. V, ordinanza 15369 del 20 luglio 2020)”.
Non si comprende poi la ragione per cui la motivazione della C.T.R. venga censurata anche con il terzo motivo rispetto a una affermazione dei giudici dell’appello che non costituisce all’evidenza una ratio decidendi ma una semplice constatazione della correttezza della richiesta di esibizione da parte della C.T.P. del p.v.c. e della nota sopra citata, documenti che avevano costituito il fondamento dell’avviso di accertamento impugnato. Ciò tanto più a fronte della rilevata assenza di specifici elementi per suffragare la dedotta inesistenza e fraudolenza dell’operazione in contestazione. Priva di qualsiasi contenuto è poi l’affermazione dell’Agenzia secondo la quale la C.T.P. non avrebbe non solo non tenuto conto ma neanche esaminato il p.v.c. dopo averlo acquisito.
In conclusione, il ricorso va respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 9.600.
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