CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 gennaio 2022, n. 1386

Licenziamento – Soppressione della mansione di arredatrice – Proposta di ricollocamento della lavoratrice – Onere probatorio

Fatti di causa

1. — M.A.M. ha domandato di essere ammessa al passivo del fallimento di Holding dell’A. s.p.a. per crediti derivanti dal proprio rapporto di lavoro subordinato con la nominata società: crediti ammontanti a complessivi euro 56.098,85 e concernenti, oltre il trattamento di fine rapporto, le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla dichiarazione di fallimento, e ciò a titolo di risarcimento del danno ex art. 18, comma 3 l. n. 300/1970, nonché per quanto previsto, sempre a titolo risarcitorio, dall’art. 18 cit., comma 4.

Il giudice delegato ha ammesso il solo credito relativo al trattamento di fine rapporto.

2. — L’opposizione allo stato passivo proposta dalla detta M. è stata respinta dal Tribunale di Roma con decreto del 18 maggio 2015. In estrema sintesi, e per quanto qui rileva, il Tribunale ha rilevato che il licenziamento dell’istante, motivato dall’esigenza di soppressione della mansione di arredatrice cui la stessa era stata adibita, risultava essere legittimo. Con riguardo alla contestata sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, il giudice dell’opposizione ha osservato che la società fallita si era determinata alla risoluzione del rapporto di lavoro per la circostanza, confermata testimonialmente, della soppressione del posto di visual; in relazione, poi, all’onere, gravante sulla datrice di lavoro, di provare di non aver potuto adibire la lavoratrice a una diversa mansione, il Tribunale ha osservato che la fallita aveva rinnovato all’odierna ricorrente la proposta, già formulata in sede conciliativa, di destinare la stessa all’incarico di addetta alla vendita: proposta che non aveva avuto seguito.

3. — Avverso il decreto del Tribunale capitolino ricorre per cassazione, con un unico motivo, M.A.M..

Resiste con controricorso il fallimento di Holding dell’. s.p.a..

Ragioni della decisione

1. — La ricorrente oppone la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2697 e 2733 c.c., nonché della l. n. 604/1966, oltre che l’illogicità e contraddittorietà della motivazione. Viene rammentato che la sentenza impugnata aveva conferito rilievo alla missiva con cui la società poi fallita aveva rinnovato la proposta di assegnare essa istante alle mansioni di addetta alla vendita; è inoltre rimarcato come la società datrice di lavoro avesse l’onere di provare di non aver potuto riposizionare la lavoratrice. La ricorrente censura la pronuncia impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto assolto il detto onere probatorio valorizzando una proposta di ricollocamento pervenuta alla lavoratrice circa quattordici giorni dopo il licenziamento. Viene evidenziato che tale proposta successiva non esonerava la parte datoriale dal dimostrare la veridicità dell’affermazione, contenuta nella lettera di licenziamento, circa l’impossibilità, al momento in cui il detto licenziamento era stato intimato, del ricollocamento di essa istante. E’ inoltre dedotto che il Tribunale abbia omesso di valutare che, con la suddetta comunicazione, Holding dell’A. aveva confessoriamente ammesso che il licenziamento poteva essere evitato attraverso un repéchage della lavoratrice. Viene infine osservato che alla detta comunicazione non poteva essere attribuita portata sanante rispetto a un licenziamento illegittimo.

2. — Il fallimento controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, avendo particolarmente riguardo alla censura, formulata dalla ricorrente, di motivazione illogica e contraddittoria: censura che si deduce essere improponibile in base nella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, risultante dall’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012.

L’eccezione va disattesa.

La fattispecie di illogicità o contraddittorietà della motivazione può essere ricondotta alle figure, elaborate dalla giurisprudenza, del «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e della «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», che ancor oggi hanno rilievo ai fini dello scrutinio di legittimità (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).

L’eccezione di inammissibilità non tiene poi conto del fatto che la ricorrente, oltre al vizio motivazionale, ha sollevato una doglianza di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., con riferimento alla disciplina dell’onere probatorio applicabile al giudizio di impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, segnatamente in relazione al tema della possibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse (repéchage): censura che risulta articolata ritualmente, attraverso il richiamo alla disciplina di cui è lamentata la violazione e il raffronto di essa con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si pongono in contrasto con la medesima (sul tema: Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745).

3. — La complessa doglianza della ricorrente è non solo ammissibile, ma pure fondata.

Anzitutto la pronuncia denota evidenti carenze sul piano argomentativo: essa infatti, richiama, in modo ben poco chiaro (non rappresentandone i precisi contenuti e gli esiti), una proposta formulata dalla parte datoriale in sede conciliativa: proposta che non è poi valorizzata sul piano della ratio decidendi, dal momento che il decreto è incentrato non su tale proposta, ma sul «rinnovo» della stessa, pacificamente formulata una volta che il rapporto era cessato.

Avendo riguardo alla censura di cui all’art. 360, n. 3. c.p.c., si osserva, poi, quanto segue.

Ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’art. 3 della l. n. 604 del 1966 richiede non solo la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso e la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali — insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati — diretti ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività, ma anche l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse: elemento, quest’ultimo, che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (così Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882).

Secondo la giurisprudenza pacifica di questa Corte, poi, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repéchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale (Cass. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; cfr. pure Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882 cit.). Ciò significa che il datore ha l’onere di provare che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 11 novembre 2019, n. 29099); quel che rileva è, in altri termini, l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento (Cass. 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 11 giugno 2014, n. 13112; Cass. 24 giugno 2015, n. 13116). Che tale sia il contesto da prendere in considerazione si spiega agevolmente. Infatti, il giustificato motivo oggettivo che rende legittimo l’intimato licenziamento si configura proprio in assenza di collocazioni alternative del prestatore d’opera all’epoca del licenziamento stesso; questo può considerarsi legittimo ove la determinazione del datore di lavoro di recedere dal rapporto sia motivata dall’impossibilità di destinare il lavoratore a mansioni diverse: situazione che, per condizionare il valido esercizio del diritto potestativo del datore di lavoro, deve evidentemente sussistere nel momento in cui è espressa la volontà di recedere, e non in un momento successivo.

Emerge, allora, nella sua reale dimensione, il vizio del decreto impugnato, il quale ha mancato di operare un tale accertamento, valorizzando una proposta di reimpiego della dipendente, formulata dalla società fallita dopo il licenziamento: proposta il cui tenore risulta oltretutto coerente con l’esistenza, perlomeno nel momento in cui fu manifestata, di un reimpiego dell’odierna ricorrente in altre mansioni (con un dato, cioè, che, riflette una situazione la quale, laddove sussistente al momento del licenziamento, di poco anteriore, non avrebbe potuto giustificare quest’ultimo).

4. — Il decreto impugnato va pertanto cassato.

Il Tribunale di Roma, cui la causa è rinviata, provvederà, in diversa composizione, a regolare pure le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al Tribunale di Roma che, in diversa composizione, regolerà pure le spese del giudizio di legittimità.