CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 luglio 2018, n. 19078
Esposizione all’amianto – Riconoscimento del diritto ai benefici contributivi – Prova della effettiva e concreta esposizione ultradecennale qualificata al rischio amianto
Rilevato che
la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza depositata in data 27/3/2015, ha rigettato l’appello proposto da A.R. contro la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva respinto la sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento del diritto ai benefici contributivi previsti dall’art. 13 1. n. 237/1992 per esposizione all’amianto;
la Corte territoriale., nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto che non fosse stata fornita la prova della effettiva e concreta esposizione ultradecennale qualificata al rischio amianto: il ricorrente si era infatti limitato ad indicare di lavorare fin dal 1982 per l’A. petroli s.p.a. con la qualifica di autista chilolitrista e a descrivere le sue mansioni (caricamento dell’autobotte al di sotto di una pensilina in eternit), senza tuttavia specificare i periodi di esposizione alle polveri di amianto né chiarire le modalità di produzione di tali polveri nell’ambiente di lavoro; inoltre, non era stato prodotto in giudizio un curriculum lavorativo completo, risultando dall’estratto contributivo prodotto dall’Inps che il lavoratore aveva lavorato oltre che per l’A. anche per la S.p.A. I. P. dal 1/6/1980 al 31/7/1997; tali carenze espositive e probatorie non potevano essere superate con una consulenza tecnica d’ufficio, la quale non può supplire agli oneri probatori gravanti sul ricorrente;
contro la sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione formulando tre motivi;
l’Inps non svolge attività difensiva;
la proposta del relatore ex art. 380 bis cod.proc.civ. e stata comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata;
il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis, comma 2, cod. proc. civ.;
Rilevato che
in via preliminare deve darsi atto che il ricorso per cassazione redatto in formato analogico è stato notificato per via telematica all’Inps;
dell’avvenuta notificazione con questa modalità la prova non è completa, perché la parte ha depositato nei termini previsti dall’art. 369 c.p.c. la ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna nella casella di destinazione senza attestazione di conformità, ai documenti informatici da cui sono tratti, del Messaggio di trasmissione a mezzo PEC, dei suoi eventuali allegati e delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna previste dall’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 68 del 2005 (su cui v. Cass. 28/07/2017, n. 18758);
segnalata con la proposta del relatore tale omissione, con la memoria depositata ai sensi dell’articolo 380 bis cod.proc.civ. il ricorrente ha depositato attestazione di conformità della copia del ricorso e dei relativi allegati (procura rilasciata su foglio separato da cui è stata estratta copia informatica per immagine, sottoscritta digitalmente), notificati in forma digitale, agli originali analogici depositati, nonché attestazione di conformità della ricevuta di accettazione e di consegna all’Inps della notificazione in via telematica dei suddetti atti;
il ricorso deve pertanto ritenersi ammissibile; al riguardo, occorre precisare che:
a) l’originale del ricorso è in formato cartaceo (analogico);
b) l’atto da notificare non consiste in un documento informatico, ma in un documento cartaceo;
c) poiché questo è stato sottoscritto in originale di suo pugno dal procuratore speciale (come risulta dall’originale depositato in formato cartaceo ai sensi ai sensi dell’art. 369 cod. proc. civ.) e poiché, per la modalità di notificazione prescelta (a mezzo di PEC con indirizzo del mittente risultante da pubblico elenco), non vi è incertezza alcuna sull’identificazione della parte e del difensore, non può essere messa in discussione la regolarità dell’instaurazione del contraddittorio (in tal senso, Cass. 26102/2016);
d) sono stati prodotti (in copia cartacea, asseverata conforme alla copia telematica dallo stesso procuratore speciale notificante, ai sensi delle norme della legge n. 53 del 1994 su richiamate, e dell’art. 9, comma 1 bis e 1 ter, stessa legge, nonché 16 undecies comma 1, D.L. 179/2012) il messaggio di trasmissione a mezzo PEC e le ricevute di avvenuta consegna e di accettazione previste dall’art. 6, comma 2, del d.P.R. 11 febbraio 2005 n. 68 (richiamato dall’art. 3 bis, comma 3, della legge n. 53 del 1994);
questa produzione fornisce la prova del perfezionamento della notificazione del ricorso nei confronti del destinatario, risultando conforme al modello normativo, dovendosi peraltro ribadire che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha comunque prodotto il risultato della conoscenza o conoscibilità dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (cfr. Cass. S.U. n. 7665/16, relativa ad un controricorso notificato in “estensione.doc”, anziché “formato.pdf”; Cass. 31/8/2017, n. 20625);
diversa questione e invece quella del tempo entro cui la prova della notificazione -le deve essere offerta: la soluzione dipende dal rilievo che essa assume all’interno del processo, se cioè operi come condizione di procedibilità del ricorso ai sensi dell’art. 369 cod.proc.civ., con la conseguente necessità che debba essere offerta nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, ovvero se essa rilievi sul piano della tempestività e, dunque, dell’ammissibilità del ricorso, situazione che è invece disciplinata dall’art. 372 cod.proc.civ., a norma del quale «il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso» e, dunque, può essere effettuato fino all’udienza di discussione e art. 379 cod.proc.civ., ovvero fino all’adunanza della corte in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis cod.proc.civ. (v. Cass. Sez. Un., 16/4/2009, n. 9005); questo Collegio ritiene di dover risolvere la questione in quest’ultimo senso, analogamente a quanto si reputa per il deposito dell’originale della notificazione effettuata a mezzo di posta ordinaria (Cass. sez. Un., 14/1/2008, n. 627);
passando all’esame del merito, con il primo motivo il R. denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 421, 213, 210, 61 cod.proc.civ. e 2697 cod.civ., e si duole del mancato accoglimento da parte della corte territoriale delle istanze istruttorie (acquisizione di documenti presso la Asl di Napoli dei piani di intervento e di rimozione di strutture contenenti fibre di amiamo; acquisizione presso la A. petroli S.p.A. del suo curriculum lavorativo e di ogni altra documentazione utile; ammissione di prova testimoniale; consulenza tecnica d’ufficio al fine di rilevare la concentrazione di amianto nei limiti di legge), anche in virtù dei suoi poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c.; lamenta altresì l’errata valutazione della prova testimoniale assunta nel giudizio di primo grado, da cui erano emerse le caratteristiche del luogo di lavoro e le modalità di svolgimento delle prestazioni, costituite essenzialmente da operazioni di caricamento delle autobotti al di sono di una pensilina di amiamo in scadente stato di conservazione, senza l’uso di particolari protezioni, tranne i guanti;
2. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 13, comma 8, L. n. 257/1992 e con esso si sostiene che la tutela prevista dalla norma citata prescinde dall’attività produttiva del datore di lavoro richiedendosi solo i due presupposti dell’esposizione al rischio per un periodo minimo decennale e del superamento della soglia percentuale di amianto; nel corpo del motivo si evidenzia come l’Inps non abbia contestato i fatti costitutivi posti a base della domanda e descritti in modo sufficientemente dettagliato, oltre che confermati dalla prova testimoniale assunta;
3. il terzo motivo concerne la violazione o falsa applicazione dell’art. 13 L. n. 257/1992, in ordine alla esposizione decennale prevista dalla norma citata e denuncia che il giudice d’appello, avendo accertato la decadenza, non ha verificato l’esposizione ultradecennale;
4. il ricorso è manifestamente infondato;
4.1. questa Corte ha chiarito in numerose decisioni (cfr. tra le tante Cass., 11 luglio 2002, n. 10114; Cass. 1° agosto 2005, n. 16118; Cass., 6 febbraio 2007, n. 2580, ed ivi ampi richiami; Cass., ord. 30 luglio 2010, n.17916; Cass., 23 marzo 2015, n. 5755) che l’attribuzione dell’eccezionale beneficio di cui alla I. 27 marzo 1992, n. 257, art. 13, comma 8, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L.. 5 giugno 1993, n. 169, art. 1, comma 1, e dalla successiva legge di conversione 4 agosto 1993, n. 271, presuppone l’assegnazione ultradecennale del lavoratore a mansioni comportanti, per il lavoratore medesimo, un effettivo e personale rischio morbigeno, a causa della presenza nei luoghi di lavoro di una concentrazione di fibre di amianto superiore ai valori limite indicati nella legislazione di prevenzione di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, artt. 24 e 31 e successive modifiche; l’accertamento della sussistenza di una esposizione significativa nei sensi sopra precisati deve essere compiuto dal giudice di merito avendo riguardo alla singola collocazione lavorativa, verificando cioè, nel rispetto del criterio di ripartizione dell’onere probatorio e art. 2697 c.c., se colui che ha fatto richiesta del beneficio abbia non solo indicato e provato la specifica lavorazione praticata, ma abbia anche dimostrato che l’ambiente nel quale questa si svolgeva presentava una concentrazione di polveri di amianto superiore ai valori limiti sopra indicati (vedi Cass., 1° agosto 2005, n. 16118);
il giudice del merito si è attenuto a tale principio ed ha ritenuto insussistente la prova di una esposizione qualificata del ricorrente in ragione delle mansioni descritte nel ricorso; in particolare ha rilevato che il ricorrente non ha specificato in quali periodi di lavoro alle dipendenze dell’A. egli sia stato esposto all’inalazione di polveri di amianto, considerato che secondo le sue stesse allegazioni, e senza addurre ulteriori particolari, la stia attività consisteva nel caricare l’autobotte al di sotto di pensiline in eternit; che tali pensiline sono state rimosse nel 1996; che dal suo curriculum lavorativo risultava di aver lavorato per l’A. solo dal 1997 al 2001, ovvero successivamente alla rimozione delle pensiline; la Corte territoriale ha inoltre espresso le ragioni per le quali non ha ritenuto di disporre una consulenza tecnica d’ufficio evidenziando la scarsità degli elementi conoscitivi offerti ed escludendo, per le diversità delle fattispecie concrete, il valore probatorio delle consulenze tecniche disposte in altri giudizi; la sentenza impugnata non è incorsa alcun vizio di violazione di legge, dovendosi peraltro ricordare che:
a) in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cfr. al riguardo, ex plurimis Cass., 26 marzo 2010, n. 7394, Cass. 13/10/2017, n. 24155; Cass. 12/10/2017, n. 24054);
b) il vizio previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione; risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. 29/11/2016, n. 24298);
c) la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorché motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge (Cass. 20/09/2013, n. 21603);
alla luce di questi principi, i motivi in esame non rientrano né sotto il profilo delle modalità di deduzione, né sotto il profilo sostanziale nel paradigma del vizio di violazione e falsa applicazione di legge;
al contrario, essi mirano a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospettano un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti: ma tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata;
in altri termini, le censure si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione; il rigetto delle prime due censure rende inammissibile il terzo motivo per sopravvenuto difetto di interesse, in quanto il suo eventuale accoglimento non potrebbe comunque condurre, stante l’intervenuta definitività dell’altra ratio decidendi, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 11/05/2018, n. 11493); e ciò non senza rilevare l’inconferenza del motivo rispetto alla decisione di rigetto adottata dalla Corte territoriale;
le considerazioni che precedono impongono, in dissenso dalla proposta del relatore, la declaratoria di inammissibilità del ricorso; nessun provvedimento sulle spese deve essere adottato in ragione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’Inps; sussistono invece presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile; nulla sulle spese;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1, quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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