CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 luglio 2018, n. 19092
Licenziamento – Violazione dei doveri di diligenza buona fede e correttezza – Reiterazione di comportamenti scorretti ed inadempienti delle obbligazioni del lavoratore – Prova
Rilevato che
1. Con sentenza del 21.4.2016, la Corte di appello di Cagliari – sez. distaccata di Sassari -, in accoglimento del gravame della società S. p.a. ed in riforma della sentenza impugnata, respingeva il ricorso proposto da U.C.B. inteso alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato a quest’ultimo il 4.4.2014 per avere proferito alla presenza del Direttore Generale e di un dipendente frasi ingiuriose all’indirizzo del primo, percepite da altri colleghi e da due ospiti esterni, violando i doveri di diligenza buona fede e correttezza e perseverando deliberatamente nella reiterazione di comportamenti scorretti ed inadempienti delle obbligazioni del prestatore di lavoro;
2. la Corte rilevava che era stata raggiunta la prova in ordine alla sussistenza materiale del fatto, peraltro pacificamente sostenuta dall’elemento intenzionale, apparendo inconcepibile la pronunzia delle espressioni attribuite al C. (“non me ne frega un c….” e “testa di c….”) ivi comprese quelle in ordine alla responsabilità per la rovina dell’azienda, in assenza di volontà offensiva, intrinseca nelle espressioni utilizzate; aggiungeva che la condotta del lavoratore costituiva un comportamento non solo di gravissima insubordinazione, ma contrario alle norme di comune etica e del comune vivere civile, posto in essere in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede ed idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso per giusta causa;
3. di tale decisione domanda la cassazione il C., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui ha resistito con controricorso la società;
4. entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ed il P.G. ha fatto pervenire le proprie conclusioni ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.
Considerato che
1. con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 12 Disposizioni sulla legge in generale, in relazione all’art. 2119 c. c. ed all’art. 18 I. 300/70, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, in relazione all’art. G7 del c.c.n.I. di categoria e dell’art. 111, comma 6, Cost., nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sul rilievo che nella legge Fornero, applicabile ratione temporis, la sussistenza del fatto contestato va verificata esclusivamente in relazione alla riconducibilità dello stesso alla fattispecie tipica della giusta causa del licenziamento, con ciò indicandosi la necessità di un accertamento dell’idoneità del fatto contestato a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, e che la verifica doveva estendersi non solo alla mera esistenza del fatto materiale, ma alla valutazione di quest’ultimo nel contesto complessivo in cui si è realizzato (posizione ricoperta dal lavoratore, assenza di contestazioni disciplinari, potenzialità lesiva del comportamento contestato);
2. il C. sostiene che la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato equivalga alla sua insussistenza materiale, che dà luogo alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18 comma 4 I. 300/70, e che le espressioni attribuite ad esso ricorrente in occasione dell’episodio occorso il 7.2.2014 dovessero essere intese come una reazione puramente emotiva, non controllabile e pertanto priva di alcun valore offensivo e disciplinare;
3. lo stesso osserva che debbano essere valutati la gravità del fatto attribuito al lavoratore e le circostanze in cui lo stesso è commesso, il grado di intenzionalità e la proporzione tra la sanzione inflitta ed il fatto contestato, oltre che la decisività della mancanza di analoghi precedenti nella carriera professionale del lavoratore, ed evidenzia che la Corte di appello ha omesso di valutare l’atteggiamento assunto in ordine alla richiesta e concessione dei permessi richiesti dal dipendente da parte dall’azienda, che aveva assunto, a dire del ricorrente, una del tutto pretestuosa violazione della prassi aziendale da parte del B., scatenandone la reazione emotiva;
4. con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione agli artt. 2104, 2105, 2094, 1175 e 1375, 1455 e 2119 c.c.ed all’ art. G38 del c.c.n.I. di categoria, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., sul rilievo che nessuna grave insubordinazione era stata integrata dal contegno addebitatogli in relazione alle previsioni contrattuali e che non era stata posta in essere una grave infrazione alla disciplina aziendale, né era stato provocato all’azienda grave nocumento morale e materiale, essendo il comportamento privo del carattere di intenzionalità; peraltro, la sentenza era pervenuta al rigetto della domanda senza alcuna considerazione delle dichiarazioni rese da alcuni testi;
5. violazione e falsa applicazione dell’art. 12 delle Preleggi in relazione all’art. 18 I. 300/70, all’art. 1, comma 42 e ss., I. 92/2012 e 1345 c.c., degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 111 co. 6 Cost., nonché omesso esame ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. sono ascritti alla sentenza impugnata nel terzo motivo, assumendo il ricorrente la mancata valutazione di pregresse azioni denigranti e ritorsive poste in essere da parte dell’azienda attraverso licenziamenti poi annullati, con reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, di precedenti condotte diffamatorie a mezzo stampa nei suoi confronti da parte dell’azienda e di procedimenti pregressi per mala gestio intentati nei suoi confronti dalla società, con denuncia anche per peculato ed abuso d’ufficio, che, tuttavia, non aveva avuto seguito in sede penale;
6. alla stregua di tali rilievi, il C. adombra il carattere ritorsivo del presente licenziamento, osservando che dall’istruttoria orale era emerso come la prassi sui permessi era cambiata poco prima del suo licenziamento e che dipendenti inquadrati come lui nel livello I-S non dovessero attendere alcuna autorizzazione per potere godere dei permessi richiesti;
7. le censure contenute nel primo motivo si fondano su considerazioni estranee al reale oggetto della controversia;
8. invero, pure avendo Cass. 13/10/2015 n. 20540, Cass. 20/09/2016 n. 18418 e Cass. 12/5/2016 n. 10019, rilevato come l’insussistenza del fatto contestato comprenda anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore, nel caso in esame, la Corte territoriale, con adeguata argomentazione, ha operato la valutazione di gravità alla luce degli standards specifici, desunti dalla realtà aziendale e dalle sue regole, nonché dalle nozioni e dai valori generalmente condivisi. Ha, infatti, esaminato la condotta alla luce del parametro dei doveri del lavoratore come delineati dalla contrattazione collettiva ed ha argomentato che i comportamenti apparivano coerenti e pienamente rientranti nella fattispecie di riferimento sia quanto alla loro portata oggettiva che sotto il profilo della gravità che connota le condotte che legittimano il licenziamento secondo le previsioni della contrattazione collettiva applicabile; ha aggiunto che tali comportamenti erano comunque contrari alle norme dell’ etica e del comune vivere civile, posti in essere con violazione dei doveri di correttezza e diligenza e buona fede ed idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso per giusta causa;
9. la valutazione è stata correttamente effettuata e non sono evidenziate anomalie nel percorso valutativo, essendo le critiche rivolte alla mancata considerazione dell’atteggiamento provocatorio assunto dal datore di lavoro, della reazione emotiva del lavoratore seguitane e di altre circostanze asseritamente riferite dai testi che avrebbero dovuto condurre, secondo il ricorrente, a diverse conclusioni;
10. in ogni caso, il giudice del gravame ha escluso motivatamente la provocazione del datore di lavoro, evidenziando come il permesso fosse relativo ad un impegno (visita medica) programmato da tempo sicché bene avrebbe potuto il C., non trattandosi di urgenza, richiedere il permesso assicurando al datore il modo ed il tempo opportuni ad organizzare la propria attività;
11. inoltre, dalla lettura della sentenza si evince che il lavoratore nel proferire le frasi all’indirizzo del Direttore Generale “tenne un tono di voce molto elevato tanto da potere essere chiaramente sentito da lavoratori che si trovavano in altri uffici” e che di fatto tali espressioni vennero sicuramente percepite dalla teste F. e dal T.;
12. tanto basta per ritenere che, se anche la condotta fosse da inscrivere nell’ambito di una legittima manifestazione del diritto di critica, le espressioni utilizzate correttamente sono state ritenute non rispondenti al principio di continenza sostanziale e formale che deve comunque essere rispettato dal lavoratore che avanzi un giudizio sull’operato del datore di lavoro, alla stregua di quanto affermato da questa Corte, secondo cui l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell’esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall ‘art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. 18.9.2013 n. 21362);
13. l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa.
(cfr. Cass. 26.10.2016 n. 21649), rilevando i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio (cfr. Cass. 26.9.2017 n. 22375);
14. il secondo motivo va disatteso sulla base delle assorbenti osservazioni svolte in relazione al primo motivo in ordine alla valutazione del contegno del lavoratore compiuta dalla Corte del merito, aggiungendosi che l’omessa mancata considerazione delle dichiarazioni di alcuni testi addebitata alla sentenza è denunziata senza che le dichiarazioni stesse siano riportate nella loro integrità, essendone trascritti nel corpo del motivo solo ad alcuni stralci;
15. in ogni caso, la censura sollecita una non consentita rivisitazione del merito, oltre che una diversa valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto ad un contegno ritenuto dal ricorrente di nessun danno all’immagine ed alla produttività dell’azienda e la deduzione di malgoverno degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è anch’essa inammissibile nei termini in cui risulta formulata, atteso che la stessa è giuridicamente appropriata solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge, o abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici, abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione;
16. in realtà, nessuna di tali situazioni è rappresentata nel motivo anzidetto, sicché le relative doglianze sono mal poste;
17. le considerazioni poste a fondamento del terzo motivo sono ininfluenti ai fini di causa ed attinenti a piani diversi da quello strettamente relativo all’oggetto della contestazione, rispetto alla quale le vicende descritte non rilevano ai fini voluti, essendo l’intenzionalità della condotta non elisa dalle circostanze narrate;
18. quanto alla dedotta natura ritorsiva del licenziamento, a prescindere dalla infondatezza delle censure che mirano a dimostrare la mancanza di giusta causa, invece sorretta, per quanto già esposto, da condivisibili e corrette argomentazioni in diritto del giudice del gravame, consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex plurims: Cass. n. 3986/2015; Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 16155/09) ha affermato non essere sufficiente che il licenziamento sia ingiustificato, essendo piuttosto necessario che il motivo pretesamente illecito sia stato anche determinante, il che non emerge dalle argomentazioni prospettate nell’ultimo motivo, dovendo rilevarsi ancor prima che non è specificato in che termini una tale prospettazione sia stata avanzata nelle fasi del merito e specificamente disattesa;
19. alla stregua delle svolte considerazioni il ricorso deve essere complessivamente respinto;
20. le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo;
21. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, commalbis, del citato o D.P.R.
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