CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 luglio 2022, n. 22496

Rapporto di lavoro a tempo determinato – Operaio agricolo – Indennità di disoccupazione – Disciplina del salario medio convenzionale ex art. 28, d.P.R. n. 488 del 1968 – Inapplicabilità – Salario di riferimento – Importo comprensivo del c.d. terzo elemento

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 14 maggio 2016 K.N. ha adito il Tribunale di Palmi, esponendo di avere lavorato come operaio agricolo a tempo determinato per l’anno 2014 per 102 giornate e di avere percepito la somma di € 1.766,52 a titolo di indennità di disoccupazione calcolata sul salario di riferimento per l’indicato anno 2014 pari ad € 47,58.

Essa ha chiesto che le fosse riconosciuto il diritto al pagamento dell’indennità di disoccupazione agricola per l’anno 2014

parametrata al salario medio provinciale pari ad € 79,94, ovvero, in via subordinata, al salario minimo contrattuale previsto dal contratto provinciale di lavoro degli operai agricoli e florovivaisti della Provincia di Reggio Calabria del 14 marzo 2013, pari ad € 59,27, con condanna dell’INPS a versare in suo favore la somma dovuta, detratto quanto da lei ricevuto a titolo di disoccupazione agricola per l’anno 2014.

La ricorrente ha domandato, altresì, che fosse accreditata sulla sua posizione assicurativa a titolo di contribuzione figurativa una somma parametrata al salario medio convenzionale o, in via subordinata, al salario contrattuale provinciale maggiorato del c.d. terzo elemento, con condanna dell’INPS ad aggiornare la detta posizione assicurativa.

Il Tribunale di Palmi, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 860 del 2017, ha respinto il ricorso, ritenendo che la normativa vigente non consentisse di determinare l’indennità di disoccupazione sulla base del salario medio convenzionale e che il contratto collettivo provinciale di lavoro comprendesse già il c.d. terzo elemento nell’importo indicato come paga base per gli operai agricoli a tempo determinato.

K.N. ha proposto appello che la Corte d’appello di Reggio Calabria, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 464/2019, ha respinto.

K. N. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

L’INPS ha resistito con controricorso.

L’INPS ha depositato memorie.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 28, d.P.R. n. 488 del 1968, e 7, legge n. 233 del 1990, nonché dell’art. 1 (rectius, 01), comma 4, d.l. n. 2 del 2006 (conv. dalla legge n. 81 del 2006), in relazione all’art. 8, legge n. 334 del 1968, e all’art. 1, d.l. n. 338 del 1989 (conv. dalla legge n. 389 del 1989), nonché dell’art. 2, commi 5 e 153, legge n. 191 del 2009, per avere la corte territoriale ritenuto che la disciplina del salario medio convenzionale di cui agli artt. 28, d.P.R. n. 488 del 1968, e 7, legge n. 233 del 1990, non rilevasse ai fini del calcolo dell’indennità di disoccupazione agricola degli operai agricoli a tempo determinato.

In particolare, ad avviso di parte ricorrente l’art. 1, comma 785, legge n. 296 del 2006 avrebbe interpretato autenticamente l’art. 01, comma 4, d.l. n. 2 del 2006, prevedendo che, per i soggetti di cui all’art. 8, legge n. 334 del 1968, e per gli iscritti alla Gestione dei coltivatori diretti, coloni e mezzadri, continuino a trovare applicazione le disposizioni degli artt. 28, d.P.R. n. 488 del 1968, e 7, legge n. 233 del 1990, con la conseguenza che la disciplina del salario medio convenzionale sarebbe tuttora applicabile anche ai fini della determinazione delle prestazioni previdenziali dovute agli operai agricoli a tempo determinato, in virtù dell’equiparazione sancita dall’art. 8, legge n. 334 del 1968, tra costoro e i compartecipanti familiari e i piccoli coloni, e con la differenza, rispetto al regime previgente, che tale salario medio andrebbe adesso rilevato con riguardo all’anno cui si riferisce la prestazione e salva, comunque, l’applicazione dell’art. 1, d.l. n. 338 del 1989, che attribuisce rilievo, invece, se superiore, alla retribuzione dovuta in forza di contratti collettivi o accordi individuali.

La doglianza è infondata.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato, infatti, il principio così massimato: “In tema di indennità di disoccupazione agricola, ai fini del calcolo delle prestazioni temporanee previste in favore degli operai agricoli a tempo determinato non può farsi riferimento alla misura del salario medio convenzionale di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968, in quanto tale criterio, per la categoria in questione, è stato sostituito con quello della retribuzione prevista dai contratti collettivi di cui all’art. 1, comma 1, del d.l. n. 338 del 1989, conv. con modif. in l. n. 389 del 1989, secondo quanto previsto dall’art. 01, commi 4-5, del d.l. n. 2 del 2006, conv. con modif. in l. n. 81 del 2006, e dall’art. 1, comma 55, della l. n. 247 del 2007, dovendosi escludere che il richiamo contenuto nell’art. 1, comma 785, della l. n. 296 del 2006, all’art. 8, della l. n. 334 del 1968, possa avere il significato di reintrodurre il precedente sistema del salario medio convenzionale” (Cass., Sez. L, n. 40400 del 16 dicembre 2021).

Al riguardo, tale giurisprudenza ha chiarito che le prestazioni per la disoccupazione spettanti ai lavoratori agricoli hanno storicamente presentato almeno due profili di specificità rispetto a quelle previste per la restante parte dei lavoratori subordinati. Da un lato, hanno peculiari modalità di accertamento e riscossione, che ne fanno, più che una provvidenza per contrastare la disoccupazione involontaria, uno strumento d’integrazione del reddito per indennizzare la precarietà, la discontinuità o stagionalità dell’attività svolta in agricoltura; dall’altro, si caratterizzano per la platea dei potenziali beneficiari, che ha incluso anche i lavoratori autonomi tipici del settore agricolo, vale a dire i compartecipanti familiari, i piccoli coloni e i piccoli coltivatori diretti (art. 8, legge n. 334 del 1968).

Tali specificità hanno a loro volta dato luogo al problema della retribuzione sulla cui base commisurare i contributi e le prestazioni previdenziali spettanti ai lavoratori agricoli e ciò non soltanto per la difficoltà di assumere quale base di calcolo retribuzioni che sono variabili nel corso dell’anno, ma, altresì, per l’impossibilità di configurare una retribuzione per i lavoratori autonomi„ che pure sono  beneficiari delle prestazioni di disoccupazione.

Proprio per queste ragioni, con l’estensione ai lavoratori autonomi del beneficio delle prestazioni previdenziali previste per gli operai agricoli, il legislatore ha previsto di ricorrere, per la determinazione dei contributi dovuti in favore dei lavoratori agricoli, ad un sistema di determinazione virtuale delle retribuzioni, mediante decreti del Ministro del lavoro emanati sulla base delle retribuzioni risultanti dai contratti collettivi di lavoro stipulati per le suddette categorie di lavoratori dalla organizzazioni sindacali interessate.

Per l’esattezza, l’art. 28, d.P.R. n. 488 del 1968, ha stabilito che “A decorrere dal 1 agosto 1968 e fino al 31 dicembre 1970, i contributi base dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, sono dovuti nelle misure stabilite dalla tabella A allegata al presente decreto per la categoria dei salariati fissi a contratto annuo ed assimilati e nelle misure stabilite dalla successiva tabella B, divise per sei, per le categorie dei giornalieri di campagna ed assimilati, in rapporto alle retribuzioni medie da determinarsi annualmente per provincia, con decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentita la commissione centrale di cui all’art. 1 del decreto legislativo 8 febbraio 1945, n. 75, sulla base delle retribuzioni risultanti dai contratti collettivi di lavoro stipulati per le suddette categorie di lavoratori dalle organizzazioni sindacali interessate.

Le classi di contribuzione di cui alle tabelle A e B citate nel comma precedente, sono individuate moltiplicando, rispettivamente, per ventisei la retribuzione giornaliera dei salariati fissi a contratto annuo ed assimilati e per sei la retribuzione giornaliera dei giornalieri di campagna ed assimilati.

Dal 1° agosto 1968 e fino all’emanazione dei decreti ministeriali previsti nel primo comma, le retribuzioni medie giornaliere da prendersi a base per il calcolo dei contributi sono stabilite nelle seguenti misure: per la categoria dei salariati fissi, L. 2.370; per le categorie dei giornalieri di campagna ed assimilati, L. 2.670.

La misura dei contributi integrativi dovuti al Fondo per l’adeguamento delle pensioni per le suddette categorie è stabilita nel 3 per cento delle retribuzioni medie determinate nelle forme sopra indicate, di cui il 2 per cento a carico dei datori di lavoro e I’1 per cento a carico dei lavoratori.

A tale sistema ha fatto riferimento l’art. 3, legge n. 457 del 1972, per individuare la base di calcolo sulla quale commisurare le prestazioni dovute nei loro confronti.

In seguito, detto sistema è stato modificato dall’art. 4, d.lgs. n. 146 del 1997, con cui si è previsto che, a decorrere dal 1 gennaio 1998, il salario medio convenzionale determinato con decreto del Ministro del lavoro e rilevato nel 1995 restasse fermo, ai fini della contribuzione e delle prestazioni temporanee, fino a quando il suo importo per le singole qualifiche degli operai agricoli non venisse superato da quello spettante nelle singole province in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, con l’ulteriore precisazione che “A decorrere da tale momento trova applicazione l’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 9 ottobre 1989,, n, 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, e successive modificazioni e integrazioni”.

Il sistema de quo è stato, poi, definitivamente abbandonato “per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato” dall’art. 01, commi 4 e 5, d.l. n. 2 del 2006 (introdotto dalla legge di conversione n. 81 del 2006), che ha stabilito, per quanto qui rileva, che, a decorrere dal 1 gennaio 2006, la retribuzione imponibile per il calcolo dei contributi agricoli unificati debba essere parametrata a quella ex art. 1, comma 1, d.l. n. 338 del 1989, conv. dalla legge n. 389 del 1989 – per il quale “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo” – e che, con la medesima decorrenza, siffatta retribuzione debba valere anche a fini del calcolo delle prestazioni temporanee previste in favore degli operai agricoli a tempo determinato.

Il riferimento alla retribuzione prevista dai contratti collettivi non è apparso congruo al legislatore per la determinazione dei contributi e delle prestazioni nei riguardi dei lavoratori autonomi del settore e, quindi, l’art. 1, comma 785, legge n. 296 del 2006 ha previsto che la disposizione dell’art. 01, comma 4, d.l. n. 2 del 2006 dovesse interpretarsi nel senso che “per i soggetti di cui all’articolo 8 della legge 12 marzo 1968, n. 334, e per gli iscritti alla gestione dei coltivatori diretti, coloni e mezzadri continuano a trovare applicazione le disposizioni recate dall’articolo 28 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, e dall’articolo 7 della legge 2 agosto 1990, n. 233”, facendo così salvo, per costoro, il precedente regime del calcolo dei contributi e delle prestazioni sulla base del salario medio convenzionale.

Così ricostruito il quadro normativo, deve escludersi che il richiamo dell’art. 1, comma 785, legge n. 296 del 2006, all’art. 8, legge n. 334 del 1968, possa avere il significato di reintrodurre, anche per la determinazione dei contributi e delle prestazioni dovute ai lavoratori agricoli a tempo determinato, il precedente sistema del salario medio convenzionale.

Infatti, trattandosi di norma recante interpretazione autentica dell’art. 01, d.l. n. 2 del 2006, essa deve essere letta congiuntamente alla norma interpretata che, al contrario, ha previsto che “per tutte le categorie di lavoratori agricoli a tempo determinato e indeterminato” si debba fare riferimento alla retribuzione di cui all’art. 1, comma 1, d.l. n. 338 del 1989.

 Pertanto, la circostanza che essa abbia fatto salve le disposizioni dell’art. 28, d.P.R. n. 488 del 1968 per “i soggetti di cui all’articolo 8 della legge 12 marzo 1968, n. 334” che, a sua volta, al comma 1, equiparava i compartecipanti familiari ed i piccoli coloni ai “giornalieri di campagna” (ossia agli operai agricoli a tempo determinato), non può logicamente implicare una reviviscenza del sistema del salario medio convenzionale anche per gli operai a tempo determinato, dal momento che il riferimento ai “giornalieri di campagna”, nella disposizione richiamata dalla norma d’interpretazione autentica, aveva, piuttosto, la funzione di indicare in costoro Ma categoria di prestatori cui rifarsi per l’individuazione dei contributi da versare e delle prestazioni da corrispondere ai compartecipanti familiari e ai piccoli coloni, che ne erano sprovvisti, e non, invece, di estendere ai “giornalieri di campagna” il trattamento proprio dei compartecipanti familiari e dei piccoli coloni. D’altronde, dalla lettura complessiva dell’art. 8 della legge n. 334 del 1968 si evince che questa disposizione si occupa specificamente della posizione dei compartecipanti familiari e dei piccoli coloni, essendo stata scritta sulla premessa, contenuta, appunto, nel primo comma, che questi soggetti sono “equiparati, ai fini dei contributi e delle prestazioni previdenziali, ai giornalieri di campagna”, ovvero agli operai agricoli a tempo determinato, ma non introduce una regolamentazione pure del regime giuridico di questi ultimi operai, che sono menzionati semplicemente come parametro esterno di riferimento per disciplinare i rapporti dei “compartecipanti familiari e dei piccoli coloni”.

Questa conclusione trova conforto nel disposto dell’art. 1, comma 55, legge n. 247 del 2007 che espressamente stabilisce, per quanto qui rileva, che “per gli operai agricoli a tempo determinato e le figure equiparate, l’importo giornaliero dell’indennità ordinaria di disoccupazione […] è fissato con riferimento ai trattamenti aventi decorrenza dal 10 gennaio 2008 nella misura del 40 per cento della retribuzione indicata all’articolo 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, ed è corrisposto per il numero di giornate di iscrizione negli elenchi nominativi, entro il limite di 365 giornate del parametro annuo di riferimento”.

Argomenti in senso contrario non possono desumersi dal fatto che l’art. 8, legge n. 334 del 1968, disciplini, al comma 2, la possibilità che “i lavoratori agricoli che siano iscritti negli elenchi speciali dei giornalieri di campagna per meno di 51 giornate annue e che svolgano anche attività di coltivatore diretto per la conduzione di fondi il cui fabbisogno di giornate sia inferiore a quello minimo previsto dalla legge 9 gennaio 1963, n. 9, per l’iscrizione negli elenchi dei coltivatori diretti, poss[a]no integrare le giornate di iscrizione negli elenchi dei giornalieri di campagna fino alla concorrenza di 51 giornate annue”, considerato che si tratta di una disposizione riferita a coloro che, in quanto operai agricoli a tempo determinato, non hanno potuto acquisire il presupposto per l’iscrizione negli elenchi (a sua volta condizione per l’accesso alle prestazioni) e che, in quanto contemporaneamente lavoratori autonomi (coltivatori diretti), sia pure di un fondo che non garantisce loro il numero minimo di giornate per un’utile iscrizione negli elenchi, vogliono integrare, mediante versamenti contributivi volontari, la contribuzione necessaria all’iscrizione per 51 giornate (art. 8, comma 3, legge n. 334 del 1968). Inoltre, si tratta di disposizione riguardante anch’essa il lavoro autonomo, dal momento che è come autonomi che i lavoratori in questione potranno beneficiare delle prestazioni temporanee per i lavoratori agricoli, con la conseguenza che tali prestazioni devono essere liquidate giusta la base di calcolo del salario medio convenzionale, siccome fatta salva dalla norma d’interpretazione autentica dell’art. 1, comma 785, legge n. 296 del 2006.

In questo senso, il fatto che l’art. 2, legge n. 191 del 2009, si sia successivamente preoccupato di dissipare taluni possibili dubbi interpretativi in ordine al termine per la rilevazione della media delle retribuzioni ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato nonché in merito al salario medio convenzionale da utilizzare quale base di calcolo dei contributi da versare per le prestazioni di maternità e paternità, dettando al comma 5 disposizioni d’interpretazione autentica dell’art. 3, comma 3, legge n. 457 del 1972, e al comma 153 disposizioni per l’interpretazione autentica dell’art. 63, comma 6, T.U. n. 151 del 2001, non dimostra che il legislatore presupponesse la persistente applicabilità ancora oggi del sistema del salario agricolo medio ai fini del calcolo della contribuzione e delle prestazioni per gli operai agricoli a tempo determinato, come ritenuto da parte ricorrente, ma è pur sempre coerente con la circostanza che quel sistema sia rimasto in vigore soltanto per la determinazione della contribuzione e delle prestazioni relative ai lavoratori autonomi dell’agricoltura.

Non rileva il fatto che – come nella fattispecie sottoposta al vaglio della pronuncia della Corte costituzionale n. 121 del 2019 – l’INPS continui a ricorrere al sistema di cui all’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 375 del 1993 (per come sostituito dall’art. 9 ter, comma 3, quinto periodo, d.l. n. 510 del 1996, conv. dalla legge n. 608 del 1996) per determinare la contribuzione dovuta nel caso si abbia motivo di presumere un’evasione contributiva, ma non si sia pervenuti all’identificazione dei lavoratori in danno dei quali essa si sarebbe consumata, commisurandola conseguentemente al salario medio convenzionale invece che alle retribuzioni dovute sulla base dei contratti collettivi, ex art. 1, comma 1, d.l. n. 338 del 1989.

Infatti, oggetto della decisione della Corte costituzionale era la legittimità costituzionale di quella specifica previsione normativa, che, a sua volta, è stata formulata e rimodernata in epoca anteriore all’introduzione dell’art. 01, comma 4, d.l. n. 2 del 2006, con l’effetto che non può trarsi dalla sua perdurante vigenza alcuna inferenza circa la volontà del legislatore successivo di non innovare nel sistema del salario medio convenzionale nel senso che si è finora esposto.

Inoltre, si sottolinea che il riferimento alle leggi contenuto nell’art. 1, d.l. n. 338 del 1989, non può estendersi a ricomprendere anche il sistema di rilevazione del salario medio convenzionale di cui all’art. 28, d.P.R. n. 488 del 1968, per modo che, quando quest’ultimo sia superiore al c.d. salario contrattuale, i contributi agricoli e le prestazioni previdenziali temporanee riferite ai lavoratori dello stesso settore debbano essere parametrate al primo. Al riguardo, si osserva che una simile interpretazione è preclusa dallo stesso legislatore che, con l’art. 01, d.l. n. 2 del 2006 e, poi, con l’art. 1, legge n. 247 del 2007, ha voluto differenziare il regime degli operai a tempo determinato da quello dei lavoratori autonomi dell’agricoltura.

Siffatta differenziazione non può dare adito a dubbi di legittimità costituzionale per disparità di trattamento, avendo il giudice delle leggi più volte affermato che la necessaria tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” ex art. 35 Cost. non impedisce al legislatore di approntare tutele differenziate in ragione di tali diverse forme.

2) Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché dell’art. 49 CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti del 25 maggio 2010 e dell’art. 14 CCP per gli operai agricoli e florovivaisti della provincia di Reggio Calabria del 14 marzo 2013, per avere la Corte territoriale ritenuto che il salario contrattuale indicato dal contratto collettivo provinciale in esame non dovesse essere maggiorato del 30,44% a titolo di c.d. terzo elemento, in quanto il valore della retribuzione prevista dal medesimo contratto per gli operai agricoli a tempo determinato sarebbe già stato calcolato in modo comprensivo del terzo elemento stesso.

La doglianza è inammissibile.

Infatti, la corte territoriale ha ritenuto, sulla base di un’interpretazione complessiva condotta ex art. 1363 c.c. e fornendo una motivazione ampia, completa e logica, che la retribuzione indicata per gli operai agricoli a tempo determinato nell’art. 14 del contratto collettivo provinciale del 14 marzo 2013 fosse già comprensiva del terzo elemento, calcolato quale maggiorazione del 30,44% della retribuzione spettante agli operai a tempo indeterminato.

Pertanto, considerato che nell’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune ruolo preminente deve essere assegnato alla regola di cui all’art. 1363 c.c. citato, stante la natura complessa e particolare dell’íter formativo della contrattazione sindacale, la non agevole ricostruzione della comune volontà delle parti contrattuali attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole, l’articolazione della contrattazione su diversi livelli, la vastità e complessità della materia trattata in ragione dei molteplici profili della posizione lavorativa e, da ultimo, il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali, che include il ricorso a strumenti sconosciuti alla negoziazione tra parti private quali preamboli, premesse, note a verbale ed il riferimento constante a prassi (Cass., Sez. L, n. 11834 del 21 maggio 2009), nessuna violazione dei canoni ermeneutici menzionati nel ricorso può rimproverarsi alla sentenza impugnata.

Inoltre, deve tenersi conto che l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica e per vizi di motivazione, restando escluso che possa ritenersi ammissibile la censura consistente nella mera contrapposizione di un’interpretazione ritenuta più confacente alla aspettativa della parte a quella accolta nella sentenza impugnata (Cass., Sez. L, n. 3207 del 18 febbraio 2004).

3) Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 32, legge n. 264 del 1949, dell’art. 3, d.l. n. 942 del 1977 (conv. dalla legge n. 41 del 1978), e dell’art. 8, legge n. 155 del 1981, per avere la corte territoriale rigettato la domanda volta alla consequenziale riliquidazione della contribuzione figurativa accreditatale per i periodi di disoccupazione.

Con il quarto motivo K. N. censura la sentenza impugnata per avere rigettato l’appello, con conseguente esonero dell’INPS dall’obbligo di rifondere le spese di lite.

Il mancato accoglimento dei primi due motivi rende non necessaria la pronuncia in ordine al terzo ed al quarto.

4) Con il quinto motivo la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c. per avere la corte territoriale ritenuto che il deposito in grado di appello della dichiarazione reddituale prevista da quest’ultima disposizione non comportasse la compensazione delle spese anche del primo grado del giudizio.

La doglianza è infondata.

Infatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio così massimato: “In tema di esenzione dal pagamento di spese, competenze e onorari nei giudizi per prestazioni previdenziali, l’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo modificato dall’art. 42, comma 11, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. in l. n. 326 del 2003, va interpretato nel senso che della ricorrenza delle condizioni di esonero deve essere dato conto nell’atto introduttivo del giudizio, cosicché la dichiarazione resa in grado successivo al primo non può comportare per la parte, che non l’abbia allegata al giudizio di primo grado, l’esonero dalle spese di quel procedimento, atteso che la legge riconnette a tale dichiarazione un’assunzione di responsabilità che, oltre ad essere personalissima e non delegabile al difensore, segna il punto di bilanciamento tra l’esigenza di assicurare l’effettivo accesso alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti e quella di prevenire e reprimere gli abusi tramite controlli, questi ultimi chiaramente preclusi ove si consentisse l’ingresso nel processo di dichiarazioni autocertificative per il passato” (Cass., Sez. L, n. 40400 del 16 dicembre 2021).

Non sussistono valide ragioni per discostarsi da tale giurisprudenza.

5) Il ricorso va rigettato.

Nessuna pronuncia deve essere emessa in ordine alle spese di lite del giudizio di legittimità ex art. 152 disp. att. c.p.c.

Sussistono i presupposti di cui al primo periodo dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dal comma 17 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012, ai fini del raddoppio del contributo per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile (Cass., Sez. 6-L, n. 1778 del 29 gennaio 2016), se dovuto.

P.Q.M.

– rigetta il ricorso;

– ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.