CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 marzo 2021, n. 7634
Tributi – Accertamento – Conto di cassa “in rosso” – Presunzione di maggiori ricavi omessi – Legittimità
Rilevato che
L’Agenzia delle Entrate accertava in capo alla ditta individuale R.A., esercente attività di lavori generali di costruzioni di edifici, un maggior reddito d’impresa in relazione all’anno di imposta 2006, provvedendo a recuperare importi fiscali sui ricavi omessi. Segnatamente, veniva valorizzata dall’Amministrazione finanziaria l’effettuazione di pagamenti nonostante il “conto di cassa” risultasse privo di liquidità disponibile.
La CTP di Salerno, adita dal contribuente, ne accoglieva l’impugnazione limitatamente alla ritenuta deducibilità dei costi, confermando per il resto la ripresa.
La CTR rigettava il successivo appello del contribuente.
Questi affida il proprio ricorso per cassazione a tre motivi. Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso, la parte contribuente lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 39, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, e dell’art. 2697 c.c., per avere la CTR basato l’accertamento fiscale su una presunzione correlata al saldo negativo transitorio del c.d. “conto cassa”.
Con il secondo motivo di ricorso, la contribuente censura, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la CTR trascurato il fatto consistente “nell’errore dell’Agenzia di presumere l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati sulla base di una mera imprecisione contabile”.
Con il terzo motivo di ricorso, la contribuente censura, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la CTR trascurato che gli sconfinamenti erano stati ripristinati, i ricavi erano stati iscritti nel conto economico, il debito nei confronti del titolare della ditta era stato saldato, i pagamenti tramite anticipazioni erano ascrivibili a ritardi nella esazione dei crediti.
Il primo motivo è inammissibile.
Nella specie, è incontroverso che il R. effettuasse pagamenti ancorché il conto di cassa della ditta individuale fosse “in rosso” ed esibisse voci di spesa di entità superiore a quella degli introiti registrati. Detta circostanza è stata valorizzata dall’Amministrazione in quanto sintomatica dell’esistenza di altri ricavi, non registrati. Una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, assurge, secondo la trama argomentativa della sentenza d’appello, a presunzione di omessa contabilizzazione di guadagni.
– A fronte di tale impianto motivazionale e ricostruttivo, non è consentito alla parte censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito, sicché le censure poste a fondamento del ricorso non possono risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali differente da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. n. 9097 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012; Cass. n. 13954 del 2007).
Il secondo e il terzo motivo di ricorso denunciano ambedue un deficit di motivazione sicché sono suscettibili di una trattazione unitaria.
Le censure sono inammissibilmente formulate dacché, sotto l’archetipo del vizio motivazionale, esse reclamano una ricostruzione dei fatti divaricata da quella resa dal giudice a quo. Va ribadito, tuttavia, che “Con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 7921 del 2011; Cass. n. 29404 del 2017).
La sentenza impugnata offre una propria versione dei fatti oggetto della lite ed argomenta di conseguenza, cosicché sotto tale profilo risulta incensurabile in questa sede.
Questa Corte ha, d’altronde, chiarito che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. riguarda un vizio specifico denunciarle per cassazione relativo all‘omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. n. 23397 del 2019; Cass. n. 24035 del 2018). In particolare, in detto paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
In buona sostanza, in capo al ricorrente vi è un onere di precisa identificazione storico-naturalistica degli accadimenti che assume pretermessi. Nel caso che occupa, viceversa, non si ravvisano, alla stregua del secondo e del terzo mezzo, dati fattuali o circostanziali specifici che possano dirsi obliterati.
– Invero, il secondo mezzo di ricorso si limita ad assumere come trascurato, da parte della CTR, quello che sommariamente descrive come “errore commesso dall’Agenzia di presumere l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati sulla base di una mera imprecisione contabile”. Il contribuente insiste, in altri termini, sulla mera questione della commissione, da parte sua, di un non meglio precisato errore contabile, quindi su una incongruenza che non contestualizza né circostanzia sul piano fattuale e cronologico, limitandosi ad ammettere per sommi capi “sconfinamenti durati soltanto alcuni giorni”.
Del pari, il terzo mezzo assume tralasciate le circostanze rappresentate dall’avvenuto ripristino degli sconfinamenti nel conto cassa, dall’iscrizione dei ricavi nel conto economico, dal saldo del debito verso il titolare della ditta, nella ascrivibilità dei pagamenti tramite anticipazioni a ritardi nella esazione dei crediti. A fronte di dette censure, sia pure attraverso una motivazione condensata e schematica, il giudice d’appello ha illustrato gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, rendendo palese la ratio decidendi, quindi possibile il controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. Dalla decisione impugnata emerge, infatti, quale dirimente agli effetti di un giudizio di inattendibilità complessiva della situazione contabile della ditta e della sussistenza di guadagni non dichiarati, l’elemento dell’incongruenza delle ripetute anticipazioni di cassa – quindi “iniezioni” di liquidità – effettuate dal titolare dell’azienda a fronte della costante indisponibilità di cassa in capo alla ditta, siccome risultante dal relativo conto. La CTR approda ad una ricostruzione priva di forzature logiche, in quanto, in ragione di saldi negativi di cassa, l’Ufficio non è tenuto a fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati non contabilizzati, operando il regime delle presunzioni.
Le censure impingono, in ultima analisi, nella genericità e nell’imprecisa descrizione dei dati che assumono trascurati dal giudice d’appello e che espongono alla stregua di fatti storici, risolvendosi, in realtà, nella critica soggettiva alla valutazione degli elementi fattuali e probatori operata dai giudici di appello.
Il ricorso va, in ultima analisi, dichiarato inammissibile.
Le spese sono regolate dalla soccombenza nella misura esplicitata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.