CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 marzo 2021, n. 7637
Tributi – Accertamento – Rideterminazione maggiori ricavi – Metodo analitico induttivo – Applicazione – Legittimità – Percentuale di ricarico troppo bassa
Rilevato
1. che la Regionale della Sicilia, in riforma della prima decisione, rigettava il ricorso promosso da P.G., titolare Relatore: B.E.L. di un’impresa familiare attiva nel commercio all’ingrosso e al dettaglio di prodotti alimentari e per la casa, avverso l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio recuperava a tassazione costi considerati indeducibili e ricavi ritenuti non dichiarati ai fini IRPEF IRAP IVA 2003;
2. che la Regionale respingeva dapprima l’eccezione formulata dal contribuente, secondo cui una parte dei redditi accertati avrebbero dovuto essere recuperati nei confronti della moglie che partecipava all’impresa familiare, perché nella dichiarazione dei redditi di entrambi i coniugi la partecipazione della moglie non trovava riscontro, condizione che la Regionale reputava essenziale ex art. 3 L. 25 novembre 1983 n. 649; che la Regionale confermava poi il recupero delle perdite su crediti vantati dalla contribuente nei confronti di imprese sottoposte a procedure concorsuali, sia perché l’inesigibilità dei crediti non era sostenuta da prove certe con riguardo «all’esercizio di riferimento», sia a causa della «mancata utilizzazione del fondo svalutazione crediti»; che la Regionale confermava inoltre il recupero della perdita dichiarata in relazione a restituzione di merce, perché riteneva che la suddetta perdita non poteva ritenersi provata dalla «nota di credito», esibita soltanto in sede di verifica; che la Regionale riteneva infine legittima «la procedura di recupero induttivo di maggiori ricavi come eseguita dai verificatori», con ciò disattendendo le <<doglianze contenute negli scritti difensivi» del contribuente, particolarmente quelle che facevano riferimento alla minore redditività del <settore all’ingrosso», oltre che ai minori ricavi conseguiti a causa di vendite promozionali, giustificazioni quest’ultime che secondo la CTR erano contraddette dall’importante «scontistica» ottenuta dai fornitori, oltre che dai rilevanti fatturati derivanti dalla vendita all’ingrosso, circostanze che in effetti non rendevano plausibile la troppo bassa percentuale di ricarico indicata dal contribuente;
3. che il contribuente ricorreva per cinque motivi, ai quali l’ufficio resisteva con controricorso.
Considerato
1. che con il primo motivo, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., dedotta la violazione dell’art. 5, comma 4, d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917, dell’art. 3 I. n. 649 cit., dell’art. 230 bis c.c., il contribuente rimproverava alla Regionale di aver erroneamente ritenuto che fosse condizione indispensabile per l’imputazione dei redditi alla moglie, quella dell’attestazione della partecipazione nelle dichiarazioni fiscali, nonostante la natura «meramente dichiarativa degli atti>, nonostante che la quota di utili della moglie fosse stata «debitamente» dichiarata, pur se era vero che la dichiarazione non era stata prodotta in giudizio atteso che la stessa era conosciuta dall’Agenzia, la quale per questa ragione sapeva dunque dell’impresa familiare; il motivo è infondato sulla scorta della assorbente, condivisibile, recente giurisprudenza, per cui «In materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall’impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori – che non sono contitolari dell’impresa familiare – costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all’imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore; ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito pro quota agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa» (Cass. sez. trib. n. 34222 del 2019);
2. che con il secondo motivo, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., il contribuente imputava alla Regionale l’omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, quest’ultimo consistente nel PVC dei verificatori, nel quale veniva riconosciuta sia l’esistenza dell’impresa familiare, sia la partecipazione della moglie nelle dichiarazioni fiscali; questo secondo motivo rimane assorbito dal rigetto del primo, avendosi in precedenza statuito che la titolarità passiva del rapporto tributario è solamente in capo al contribuente;
3. che con il terzo motivo complesso motivo, formulato sia in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, sia in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 112 c.p.c., il contribuente sosteneva che la Regionale aveva omesso di pronunciare, comunque di motivare, sulle prove fornite in merito all’inesigibilità dei crediti vantati nei confronti di imprese assoggettate a procedure concorsuali; in disparte i profili d’inammissibilità conseguenti al difetto di autosufficienza, in mancanza di trascrizione degli indicati documenti (Cass. sez. trib. n. 13625 del 2019), deve essere ad ogni modo ricordato non solo che il minimo costituzionale di motivazione garantito dall’attuale formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. non comprende più l’omesso o insufficiente esame di prove (Cass. sez. un. n. 8053 del 2014), ma anche che l’omessa pronuncia su di una domanda o eccezione niente ha a che vedere con l’omessa o insufficiente valutazione delle prove (Cass. sez. III n. 543 del 2020);
4. che con il quarto articolato motivo, formulato dapprima in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione dell’art. 75 d.p.r. n. 917 cit. applicabile ratione temporis, oltre che per violazione dell’art. 26, comma 2, d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 633, il contribuente rimproverava alla Regionale di non aver considerati il bilancio, il conto economico, la scheda contabile, che documentavano come la perdita del credito conseguente alla restituzione della merce fosse stata correttamente dedotta nell’anno d’imposta 2003; il motivo, per questa sua parte, che comunque soffre ancora del medesimo difetto di autosufficienza, in mancanza di trascrizione dei documenti richiamati (Cass. sez. trib. n. 13625 cit.), che peraltro censura non una errata applicazione delle norme indicate, bensì un accertamento in fatto che sarebbe stato compiuto dalla Regionale (Cass. sez. I n. 24155 del 2017), è preliminarmente inammissibile perché non coglie la ratio decidendi dell’impugnata sentenza, che sul punto, come si è avuto cura di evidenziare in narrativa del presente, non ha negato il riconoscimento della perdita sul presupposto che non fosse stato rispettato il principio di competenza, bensì perché la perdita non poteva considerarsi sufficientemente dimostrata da una semplice «nota di credito>>, soltanto esibita in sede di verifica (Cass. sez. I n. 9013 del 2018);
4.1. che sempre con il quarto motivo, questa volta formulato in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., il contribuente addebitava alla Regionale di aver omesso l’esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, costituito da prove documentali allegate al ricorso di primo grado e relative alla perdita derivata dalla restituzione di merce; di nuovo in disparte i profili d’inammissibilità conseguenti al difetto di autosufficienza, in mancanza di trascrizione degli indicati documenti (Cass. sez. trib. n. 13625 cit.), deve essere ancora ricordato che il minimo costituzionale di motivazione garantito dall’attuale formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. non comprende più l’omesso o insufficiente esame di prove (Cass. sez. un. n. 8053 cit.);
5. che con il quinto complesso motivo, sia in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., sia in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., il contribuente deduceva la violazione dell’art. 112 c.p.c., addebitando alla Regionale di non aver pronunciato sulla questione della percentuale di ricarico, in quanto l’ufficio aveva fatto erroneo ricorso alla media aritmetica, in luogo di quella ponderata, censurando inoltre la Regionale per essere incorsa nella violazione dell’art. 39, comma 2, d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600, dell’art. 54, comma 2, d.p.r. n. 633 cit. e dell’art. 2729 c.c.; il motivo è infondato nella parte in cui viene dedotta l’omessa pronuncia, atteso che la Regionale ha invece ritenuto legittima «la procedura di recupero induttivo di maggiori ricavi come eseguita dai verificatori», anche con riferimento alla troppo bassa percentuale di ricarico esposta dalla contribuente; per la restante parte, il motivo è invece inammissibile per difetto di autosufficienza, non solo per la mancata trascrizione dell’avviso di accertamento, che impedisce alla Corte di controllare la media applicata, ma anche perché la contribuente non trascrive il ricorso promosso davanti alla Provinciale, non consentendo alla Corte di verificare se la ridetta eccezione sia stata tempestivamente introdotta, questo con riferimento alle preclusioni di cui all’art. 24, comma 2, d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 (Cass. sez. trib. n. 13625 cit.);
6. che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il contribuente a rimborsare all’ufficio le spese processuali, liquidate in € 5.600,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.