CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 marzo 2021, n. 7679
Rapporto di lavoro – Inquadramento superiore – Domanda – Rigetto – Mansioni carenti del grado di autonomia operativa richiesto dal CCNL – Onere probatorio
Rilevato che
P.A., impiegato dell’Azienda Servizi Igiene ambientale – Napoli s.p.a. (ASIA), chiede la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Napoli che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato la sua domanda di inquadramento nel superiore livello (IV) sul presupposto che le mansioni svolte dal lavoratore siano carenti del grado di autonomia operativa richiesto dalla declaratoria contrattuale applicabile alla fattispecie;
P.A. ha affidato le sue ragioni a cinque motivi;
l’Azienda Servizi Igiene ambientale Napoli s.p.a. (ASIA) ha depositato tempestivo controricorso, ed ha altresì proposto ricorso incidentale basato su due motivi, al quale P.A. non ha opposto difese;
entrambe le parti hanno depositato memoria difensiva in prossimità dell’Adunanza camerale;
è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.
Considerato che
Ricorso principale:
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente principale contesta “Violazione dell’art. 16 del CCNL in vigore ante 2002;
contesta la scelta della Corte d’appello che avrebbe scelto di privilegiare la testimonianza del dirigente che lo aveva incaricato a sostituire la collega assente mai rientrata nel posto di lavoro, circostanza valutata favorevolmente dall’art. 16 ai fini dell’acquisizione dell’inquadramento superiore;
col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., deduce “Violazione degli artt. 112 e seguenti del c.p.c.” per avere il giudice del merito privilegiato la testimonianza di colui che era responsabile del conferimento delle superiori mansioni;
col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., denuncia “Erroneo apprezzamento del giudice di appello circa il contenuto declaratorio del IV livello”, avendo lo stesso inteso impropriamente attribuire all’espressione “autonomia operativa” lo stesso significato riservato all’espressione “autonomia decisionale”;
col quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., deduce “Violazione dell’art. 2103 c.c.”; l’esecuzione della sentenza, che ha comportato la retrocessione al III livello è ancor più pregiudizievole, avendo disposto la restituzione delle somme superiori percepite per l’adibizione del lavoratore nel IV livello contrattuale;
col quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 5 cod. proc. civ., lamenta “Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia” consistente nell’errata valutazione della circostanza di fatto secondo cui il ricorrente aveva assunto su di sé il carico di lavoro della collega sostituita e che quest’ultima non aveva fatto rientro al lavoro;
i primi due motivi, esaminati congiuntamente per intima connessione, sono inammissibili;
le critiche del ricorrente si appuntano sulla valutazione delle prove da parte del giudice del merito;
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in materia di ricorso per cassazione, l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 27033 del 2018) e la parte che intenda dedurre la violazione degli artt. 112 e seguenti cod. proc. civ. deve denunziare che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente le regole processuali, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 cod. proc. civ. (Cass. n.26769 del 2018);
il terzo motivo è inammissibile;
le prospettazioni del ricorrente deducono solo apparentemente una violazione di legge, là dove mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti, completa e puntuale, operata dal giudice di merito;
va, pertanto, nel caso in esame, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017);
Il quarto motivo è inammissibile;
la censura non rende intelligibile il contenuto dedotto quale violazione dell’art. 2013 cod. civ.; in base a quanto ribadito dalle Sezioni Unite nella recente sentenza n. 23745 del 2020, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa;
il quinto motivo è inammissibile;
il ricorrente lamenta l’omesso esame di una circostanza che concerne la valutazione della prova, e che, pertanto, attiene all’esercizio di un potere discrezionale del giudice, insindacabile in sede di legittimità;
è d’uopo ribadire che le Sezioni Unite di questa Corte hanno stabilito che «nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, co.1, n. 6, e 369, co. 2, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie» (Sez. Un. n. 8053 del 2014);
la formulazione della doglianza da parte del ricorrente finisce per denunciare non già l’omesso esame di un fatto storico decisivo, bensì la mancata valorizzazione di risultanze istruttorie, che si assumono erroneamente valutate dalla Corte territoriale.
Ricorso incidentale:
con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 4 cod. proc. civ., la ricorrente incidentale deduce “Nullità della sentenza per extrapetizione, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.”; la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare sul motivo d’appello con cui la società aveva chiesto in riconvenzionale di sentir accertare l’obbligo di P.A. di restituire alla Asia l’indennità ad personam assorbibile erogata per perequare l’attuale retribuzione a quella superiore percepita presso la società privata dalla quale l’A. proveniva, di cui per errore non era stato disposto l’assorbimento;
la Corte territoriale avrebbe erroneamente rigettato la domanda riconvenzionale, affermando non raggiunta in giudizio la prova dell’obbligo di restituzione delle predette somme, là dove la percezione delle stesse era pacificamente accertata avendo la società assolto al relativo onere probatorio, producendo agli atti la lettera di assunzione in cui si faceva riferimento al superminimo e avendo il lavoratore prodotto le buste paga da cui risultava la costante periodicità dell’erogazione;
lamenta che la Corte d’appello non si sia avvalsa di una consulenza tecnico contabile per la quantificazione delle somme che il lavoratore sarebbe stato tenuto a restituire in ragione dell’indebito arricchimento dovuto al mancato assorbimento dell’indennità ad personam;
la Corte ha qualificato la domanda riconvenzionale di Asia, affermando che l’erroneità dell’importo del cd. assegno ad personam assunto a fondamento della pretesa, era contraddetta dalla rettifica dell’assegno ad personam da parte della stessa società comunicata il 28.6.2000;
con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 3 cod. proc. civ., deduce “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2041 c.c.”, invocati espressamente dalla ricorrente incidentale al fine di sostenere l’ingiustificato arricchimento del lavoratore per l’indebita locupletazione, nel corso del rapporto, di corrispettivi non dovuti;
il ricorso incidentale è inefficace in quanto tardivo;
secondo il principio di diritto affermato da questa Corte “In base al combinato disposto di cui agli artt. 334, 343 e 371 cod. proc. civ., è ammessa l’impugnazione incidentale tardiva (da proporsi con l’atto di costituzione dell’appellato o con il controricorso nel giudizio di cassazione) anche quando sia scaduto il termine per l’impugnazione principale, e persino se la parte abbia prestato acquiescenza alla sentenza, indipendentemente dal fatto che si tratti di un capo autonomo della sentenza stessa e che, quindi, l’interesse ad impugnare fosse preesistente, dato che nessuna distinzione in proposito è contenuta nelle citate disposizioni, dovendosi individuare, quale unica conseguenza sfavorevole dell’impugnazione cosiddetta tardiva, che essa perde efficacia se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile” (Così Cass. 29593 del 2018);
in definitiva, il ricorso principale va dichiarato inammissibile, mentre il ricorso l’incidentale va dichiarato inefficace;
le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente principale; non si provvede sulle spese a carico della ricorrente incidentale, attesa l’assenza di attività difensiva da parte del controricorrente incidentale;
in considerazione dell’inammissibilità del ricorso principale, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso;
si dà atto che non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso;
in tema di impugnazioni, la condanna al pagamento del “doppio” del contributo unificato non può essere pronunciata nei confronti del ricorrente incidentale tardivo il cui gravame abbia perso efficacia ex art. 334, comma 2, cod. proc. civ., trattandosi di una sanzione conseguente alle sole declaratorie di infondatezza nel merito ovvero di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione ex art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (Cass. n. 1343 del 2019; Cass. n. 1213 del 2018; Cass. n. 18348 del 2017);
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso principale. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art.1, comma 17 della I. n.228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.