CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 novembre 2021, n. 35337
Licenziamento – Superamento del periodo di comporto – Correttezza del calcolo del periodo – Obblighi di correttezza e buona fede
Rilevato che
con sentenza in data 19 febbraio 2019, la Corte di Appello di Roma, rigettando il reclamo proposto, ha confermato la sentenza del locale Tribunale che aveva respinto il ricorso avanzato da L. I. avverso il licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto dalla M. s.r.I.; in particolare, la Corte ha condiviso la motivazione del primo giudice circa la correttezza del calcolo del periodo nonché l’insussistenza di pregresse patologie che avrebbero potuto determinare, come dedotto da parte ricorrente, un diverso atteggiarsi dell’obbligo datoriale di cui all’art. 2087 cod. civ.;
per la cassazione della sentenza propone ricorso, assistito da memoria, L. I., affidandolo a cinque motivi;
parte controricorrente non ha svolto sostanziale attività difensiva.
Considerato che
con il primo motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ovvero la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., con riguardo alle mansioni svolte dalla ricorrente;
con il secondo motivo si allega la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ. con riguardo alla patologia da cui risulta affetta la ricorrente;
con il terzo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ. e degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., nonché la nullità della sentenza per omessa motivazione circa la violazione degli artt. 168 e 169 del D. Lgs. n. 81/2008;
con il quarto motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., deducendosi la lesione da parte del datore di lavoro degli obblighi di correttezza e buona fede nell’adibizione della ricorrente ad attività incompatibili con la patologia contratta e con lo stato di salute della stessa; con il quinto motivo si censura la decisione impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10, comma 4, L. n. 68 del 1999 allegandosi, altresì, la nullità della sentenza per omessa motivazione circa la violazione dell’art. 10, comma 2, L. n. 68 del 1999;
il primo ed il secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico – sistematiche, sono infondati;
giova premettere, al riguardo, che il primo motivo, oltre ad essere formulato in modo promiscuo, deducendo violazioni di legge e vizi di motivazione, mira, nella sostanza, ad ottenere una diversa valutazione con riguardo alle mansioni svolte dalla ricorrente;
va invero sottolineato, in ordine alla omessa motivazione su un fatto decisivo, consistente nell’esame delle risultanze istruttorie acquisite nel giudizio di secondo grado, da cui emergerebbe una diversa valutazione delle mansioni espletate dalla I., in particolare con riguardo all’assunzione della responsabilità operativa ed organizzativa dell’Ufficio Amministrativo, che si verte nell’ambito di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 col, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 1 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017);
con riguardo a tale ultima violazione, pure allegata dalla difesa ricorrente, deve ritenersene l’insussistenza sia con riguardo alle diverse mansioni per le quali la I. sarebbe stata assunta che con riferimento alla patologia addotta avendo la Corte motivato sul punto;
va premesso, infatti, come il giudice di secondo grado abbia rilevato che le visite periodiche pur ove svolte con riguardo alle mansioni di commessa (che prevede la movimentazione di merci) non hanno mai diagnosticato la dedotta ernia lombare né il risultato delle stesse era mai stato contestato o impugnato dalla ricorrente;
al contempo, la Corte con motivazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, ha rilevato come la patologia addotta, soprattutto se così invalidante come rilevato dalla ricorrente, avrebbe determinato prescrizioni anche con riguardo alle mansioni di cassiera, cosa non avvenuta a dimostrazione dell’assenza della patologia in occasione di quelle visite il cui esito medico – legale non era mai stato impugnato; quanto, poi, al travisamento della prova, che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, lo stesso non è più deducibile a seguito della novella apportata all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sicché “a fortiori” se ne deve escludere la denunciabilità in caso di cd. “doppia conforme”, stante la preclusione di cui all’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c. (cfr., sul punto, Cass. n. 24395 del 2020); in ordine al terzo motivo, con il quale si lamenta la violazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ. nonché l’omessa motivazione circa la violazione degli artt. 168 e 169 del D. Lgs. n. 81 del 2008, lo stesso va valutato congiuntamente al quarto, inerente alla violazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. per ragioni di intima connessione, ed entrambi non possono trovare accoglimento;
premessa ancora la promiscuità del motivo, attinente a violazione dell’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., va rilevato, con riguardo alla denunzia concernente la lesione dell’art. 2697 cod. civ. che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui alla mentovata disposizione codicistica è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, perdurando, infatti, in capo all’attore che deduca l’illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto la dimostrazione dell’eventuale riconducibilità di tale superamento alla violazione dei canoni di cui all’art. 2087 cod. civ.;
deve osservarsi, al riguardo (V., sul punto, Cass. n. 1509 del 2021) come, in materia di tutela della salute del lavoratore, l’art. 2087 c.c. non delinei un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, i cui obblighi, oltre a dover essere rapportati alle concrete possibilità della tecnica e dell’esperienza, vanno parametrati alle specificità del lavoro e alla natura dell’ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi;
rilevante, al riguardo, l’allegazione della parte circa gli elementi costitutivi della violazione che si assume operata, atteso che la prova della responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., richiede, appunto, l’allegazione da parte del lavoratore che agisce deducendo l’inadempimento, non solo degli indici della nocività dell’ambiente lavorativo cui è esposto, da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa, ma anche del nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti (fra le altre, Cass. n. 28516 del 2019);
tale valutazione la Corte ha compiuto, con motivazione sottratta al sindacato di legittimità, anche con riguardo agli obblighi di buona fede e correttezza contrattuale, in primo luogo avendo i testi escussi riferito che la circostanza del sollevamento di pacchi da parte della ricorrente – eventualmente riconducibili alla dedotta patologia lombare – sarebbe stata soltanto occasionale, ed inoltre affermando che la violazione di quei canoni potesse configurare, in astratto, l’abuso del diritto ma non avrebbe potuto incidere sulla formale legittimità del recesso datoriale per superamento del periodo di comporto, circostanza pacifica sul piano dei giorni di assenza per malattia; a tali osservazioni può aggiungersi che quella violazione avrebbe dovuto incidere sulla – violazione dei doveri di cui all’art. 2087 cod. civ. riconnettendosi ad essa in termini causali atti a determinare il superamento del periodo di comporto, circostanza esclusa, in fatto, dal giudice di secondo grado;
il quinto motivo, con cui si deduce la violazione dell’art. 10, comma 4, L. 68/99 nonché la nullità della sentenza per omessa motivazione circa tale violazione, è infondato;
premessa ancora la promiscuità del motivo che deduce congiuntamente violazioni di legge e vizi di motivazione, va rilevato che l’art. 10, comma 4, della L. 68/1999 statuisce esclusivamente che il recesso di cui all’art. 4, comma 9, della L. 223/1991, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della legge medesima;
va, quindi, evidenziata la correttezza dell’iter motivazionale del giudice di secondo grado, il quale ha rilevato come in radice andasse negata l’applicabilità al rapporto di lavoro in esame della richiamata disposizione normativa, essendo la stessa limitata al lavoratore occupato obbligatoriamente ma non ricorrendo tale ipotesi nel caso in esame;
alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto;
nulla per le spese non avendo parte intimata svolto sostanziale attività difensiva;
sussistono in presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
respinge il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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