CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 novembre 2022, n. 34039
Rapporto di lavoro – Part-time – Maggiorazione per lavoro domenicale – Differenze retributive – Domanda – Onere probatorio – Omessa indicazione date di prestazione del lavoro – Rigetto
Fatti di causa
1. Con ricorso al Tribunale di Milano, A.L. conveniva la R.G. s.p.a., chiedendo di: “1) accertare e dichiarare il diritto … a svolgere 23 ore settimanali di lavoro con orario predeterminato dal lunedì al giovedì dalle 14.00 alle 19.00 ed il venerdì dalle 7.00 alle 10.00; 2) condannare la R.G. s.p.a. … al pagamento in … della somma complessiva di euro 1.676,06, o la diversa somma ritenuta di giustizia, anche con ricorso a valutazione equitativa, a titolo di differenze retributive, indennità per lavoro domenicale e festivo, indennità di flessibilità, oltre interessi e rivalutazione monetaria sino al saldo; 3) condannare la R.G. s.p.a. al pagamento in (…) dell’importo mensile di euro 140,80, a titolo di differenze retributive dovute da giugno 2014 in poi, sino a quando non sarà ripristinato l’orario lavorativo settimanale di 23 ore; oltre interessi e rivalutazione monetaria; 4) condannare R.G. s.p.a. al pagamento della maggiorazione dell’11,5% sulla retribuzione a titolo di indennità di flessibilità, o la diversa somma ritenuta di giustizia, anche con ricorso a valutazione equitativa, sino a quando non sarà legittimamente individuata la collocazione temporale del ricorrente; 5) con vittoria di spese legali”.
2. Costituitasi la società convenuta, la quale contestava tali pretese, il Tribunale adito, con sentenza del 13.1.2015, respingeva queste ultime, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
3. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Milano rigettava l’appello che il L. aveva proposto contro la sentenza di prime cure, condannandolo al pagamento delle spese del secondo grado.
4. Avverso tale decisione A.L. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
5. Ha resistito l’intimata con controricorso.
6. Solo il ricorrente ha prodotto la memoria.
7. A quest’ultimo proposito, occorre dare conto che detto scritto difensivo è stato depositato (telematicamente) oltre il termine di cui all’art. 380 bis.1. c.p.c., ma che i difensori del ricorrente, con apposita istanza, avevano chiesto di ritenere la loro memoria “tempestivamente depositata, ovvero, in subordine, provvedere a favore della parte istante disponendone la rimessione in termini”.
8. Ritiene il Collegio che tale richiesta possa trovare accoglimento, tenendo conto che, come riscontrato per le vie brevi a mezzo di notizie attinte anche dalla Cancelleria della Sezione, per il giorno 16.9.2022, la DGSIA del Ministero della giustizia aveva dato avviso di un c.d. patch day, ossia, del fermo di una serie di servizi informatici, sia distrettuali, sia nazionali, in dettaglio indicati, compreso quello di cui si è avvalsa la difesa del ricorrente, così riscontrando appunto il “disservizio” che secondo i difensori del ricorrente aveva loro impedito di ottenere riscontro positivo del tempestivo deposito telematico della loro memoria, pur operato (come riscontrato dagli ulteriori documenti prodotti). In tal senso, il tardivo, ma incolpevole deposito del ridetto scritto può senz’altro reputarsi giustificato.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente assume che: “Tutto l’iter argomentativo e motivazionale della sentenza qui impugnata integra pertanto una precisa violazione di legge, per la precisione dell’art. 2109 c.c., che attribuisce una valenza superiore al riposo domenicale, un precetto che, a ben vedere, trae le proprie origini addirittura nel 321 d.c. allorché l’imperatore Costantino stabilì che la domenica dovesse essere dedicata al riposo”.
2. Con il secondo motivo, si deduce che: “La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza qui impugnata per cassazione, è incorsa in un’altra violazione di legge, per la precisione dell’art. 2697 c.c. che stabilisce i criteri di riparto dell’onere della prova”.
3. Con il terzo motivo, premettendosi che la Corte d’appello aveva ritenuto inammissibile la domanda, circa le richieste maggiorazioni per il lavoro domenicale, “in quanto quella formulata in primo grado era pari ad euro 77,92 ed il suo aumento a 423,48 euro in grado di appello costituirebbe una violazione del divieto di domande nuove in appello”, si sostiene che: “Anche in questo caso la decisione si pone in contrasto sia con la legge, per la precisione l’art. 345 c.p.c. – il quale ammette sempre la domanda in appello dei danni sofferti successivamente – sia con l’orientamento consolidato della Suprema Corte di Cassazione”, di cui, tra le altre, viene considerata espressione la cit. Cass. civ., sez. III, 18.4.2013, n. 9453.
4. Con il quarto motivo, si deduce che: “L’impugnata sentenza è da cassare anche con riferimento alla parte in cui ha respinto il secondo motivo di gravame del Sig. L.”.
5. Giova premettere che, stando alla decisione qui impugnata, l’allora appellante A.L. aveva rassegnato in secondo grado le seguenti conclusioni: “1. Nel merito, accogliere l’appello che precede e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza n. 46/2015 del Tribunale di Milano, statuire come segue: 2. Accertare e dichiarare il diritto del ricorrente di percepire la maggiorazione del 50% sulla retribuzione oraria per l’attività lavorativa prestata di domenica e conseguentemente condannare R.G. spa al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 423,48 a titolo di lavoro domenicale reso nel periodo gennaio 2014/marzo 2015, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; 3. Accertare e dichiarare la nullità parziale del contratto di lavoro part-time laddove non indica l’esatta collocazione oraria della prestazione lavorativa. Per l’effetto stabilire l’orario di lavoro del sig. L. A. analogamente a quanto indicato nella lettera prodotta da controparte sub doc. 3 del fascicolo di parte di I grado, ossia dal lunedì al mercoledì dalle ore 21.00 alle ore 4.00 o comunque il diverso orario ritenuto di giustizia. 4. Condannare in ogni caso R.G. s.p.a. al risarcimento del danno subito dal sig. L.A. nella misura pari ad Euro 63.03 per ogni mese lavorativo dal novembre 2013 sino a quando non sarà legittimamente determinata la collocazione oraria della prestazione lavorativa del ricorrente. 5. Con vittoria di spese legali”.
6. Occorre ancora dare conto che il L. aveva interposto appello contro la decisione del Tribunale a mezzo di due motivi.
Sempre secondo la Corte d’appello, “Mediante il primo di essi, la sentenza veniva criticata per avere respinto la domanda avente ad oggetto la maggiorazione per lavoro domenicale, che invece L. riteneva spettargli in virtù dell’art. 2109 c.c., il quale attribuiva alla domenica una valenza maggiore rispetto agli altri giorni della settimana e rendeva, pertanto, irrilevante ai fini in questione la fruizione di riposo compensativo, posta dal primo Giudice a base della contestata statuizione”. Mentre con il secondo motivo d’appello, “L’appellante lamentava inoltre che il contratto di lavoro fosse stato ritenuto legittimo in virtù delle successive integrazioni concernenti la distribuzione dell’orario di lavoro a tempo parziale, benché queste ultime fossero state – a suo dire – inidonee a consentirgli la programmazione di ulteriori attività lavorative in quanto prevedevano la possibilità di estensione dell’orario a discrezione della datrice di lavoro e lo scorrimento dei giorni di riposo di settimana in settimana.
Tali integrazioni (ad eccezione di quella che aveva stabilito l’orario dalle 21 alle 4 del mattino) non erano, poi, state richieste dal lavoratore come invece affermato in sentenza, bensì erano state illegittimamente disposte da R.G. in via unilaterale”.
7. Ergo, le conclusioni formulate in grado d’appello dal lavoratore, all’evidenza non sovrapponibili a quelle rassegnate nel ricorso introduttivo di primo grado (sopra riportate nella narrativa in fatto di questa decisione), riflettevano anzitutto una richiesta di riforma solo “parziale della sentenza di primo grado”, come del resto, ben considerato dalla Corte di merito (cfr. anche pag. 4 della sua sentenza).
8. Ma non solo.
Nel respingere il primo motivo d’appello, “concernente il rigetto della domanda relativa alle maggiorazioni per lavoro domenicale”, la Corte distrettuale aveva considerato: “In proposito va anzitutto rilevato come L., nell’ambito del giudizio di primo grado, oltre a non aver compiuto specifiche deduzioni probatorie in ordine alle date di prestazione del lavoro domenicale, abbia chiesto – a tale titolo – la condanna di R. al pagamento dell’importo di 77,92 per il periodo da gennaio a maggio 2014; pertanto, l’incremento di tale ammontare a quello di € 423,48, rivendicato nelle conclusioni dell’atto di appello, costituisce un’inammissibile estensione della domanda, come fondatamente eccepito dalla società appellata”.
9. La questione di rito relativa a tale estensione della domanda originaria, ritenuta inammissibile dai giudici di secondo grado, all’evidenza da esaminare con priorità, è affrontata solo con il terzo motivo di ricorso; ma quest’ultimo dev’essere reputato inammissibile per difetto della specificità, richiesta ex art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c., in termini in particolare di difetto di pertinenza rispetto a quanto deciso in proposito dalla Corte d’appello.
Invero, quest’ultima non ha dichiarato inammissibile l’intera domanda relativa alla maggiorazione per il lavoro domenicale, come pare opinare l’impugnante, bensì ha dichiarato inammissibile solo la sua estensione nei termini avanti visti, tanto che si è espressa per il resto nel merito di tale pretesa (vale a dire, nella sua originaria formulazione per € 77,92, a sua volta, compresa in una più ampia domanda di condanna al pagamento di differenze retributive a vario titolo per il complessivo importo di € 1.676,06: cfr. pagg. 2-3 della sentenza impugnata).
10. Inoltre, il richiamo all’art. 345 c.p.c., che dal ricorrente si asserisce violato dal giudice a quo, è generico e impreciso. Tale articolo, infatti, al comma primo, secondo periodo, recita: “Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”. Ebbene, in primo luogo, né l’attuale ricorrente né i giudici di merito avevano qualificato tale specifica richiesta dell’attore come di natura risarcitoria, e quindi volta ad ottenere il risarcimento dei danni risentiti per il lavoro asseritamente prestato nelle giornate di domenica, rendendo in ipotesi operante l’art. 345, comma primo, secondo periodo, cit. circa i “danni sofferti dopo la sentenza” di primo grado. Si trattava, infatti, di pretesa all’origine compresa in quella più ampia, relativa, come si è visto, alle differenze retributive reclamate dal L.. E del resto quest’ultimo tuttora fa riferimento all’apposita maggiorazione del 50% prevista dall’art. 38 del CCNL per le Imprese di pulizia (cfr. pag. 32 del ricorso).
11. Sotto ulteriore profilo, l’art. 345, comma primo, secondo periodo, c.p.c. non può venire nella specie in considerazione anche perché fa riferimento sempre a quanto maturato o sofferto “dopo la sentenza” appellata, laddove, per quanto dedotto dallo stesso ricorrente (cfr. sempre pag. 32 del ricorso), solo per l’importo di € 101,34 la pretesa azionata in appello rifletterebbe “differenza spettante” per il periodo gennaio/marzo 2015, in parte maturata dopo la sentenza di primo grado, pronunciata il 13.1.2015. Invero, la stretta deroga al divieto di domande nuove in appello, prevista dall’art. 345, comma primo, secondo periodo, cit., riguarda i “danni sofferti dopo la sentenza”, e si riferisce alle conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa, ma non ad ulteriori danni ricollegabili a fatti nuovi e diversi (cfr. in tal senso Cass. civ., sez. lav., 4.11.2021, n. 31558).
12. Non può giovare, poi, al ricorrente il richiamo ai principi riaffermati da Cass. n. 9453/2013.
Ancora una volta, infatti, non si tiene conto di quanto deciso dalla Corte distrettuale. Quest’ultima, come si è visto, aveva riscontrato che l’originaria pretesa circa le maggiorazioni per il lavoro domenicale era per l’importo di € 77,92 “per il periodo da gennaio a maggio 2014” (cfr. il passo già richiamato a pag. 5 della sua sentenza), laddove la richiesta di condanna al pagamento del maggior importo di € 423,48, formulata in appello per il medesimo titolo, riflette il “periodo gennaio 2014/marzo 2015” (cfr. pag. 4 dell’impugnata sentenza).
Non si è, perciò, in presenza, secondo quanto accertato dalla Corte di merito, di una mera diversa quantificazione o specificazione della medesima pretesa, ma, come ben detto dalla stessa, di un’estensione del petitum originario in proposito, e non solo sul piano del quantum, visto che anche la causa petendi in proposito veniva integrata in punto di fatto con l’aggiunta di un ben più esteso periodo durante il quale sarebbe stato svolto lavoro nella giornata di domenica, vale a dire, anche da giugno 2014 al marzo 2015 compreso.
13. Parimenti inammissibile è il secondo motivo a mezzo del quale si lamenta un’inversione dell’onere della prova, prendendo in considerazione solo il passo della motivazione della sentenza di secondo grado in cui è scritto che: “L. si è limitato ad un’indicazione numerica delle domeniche lavorate, senza alcun cenno ad eventuali riposi compensativi goduti”.
Sennonché, questa volta non si tiene conto che, nell’anteriore e passo in precedenza riportato, la stessa Corte aveva anche riscontrato l’assenza di deduzioni attoree “in ordine alle date di prestazione del lavoro domenicale”. E’ fin troppo ovvio rilevare, infatti, che incombeva sull’istante l’onere anzitutto di dedurre, prima che provare, le date in cui avrebbe prestato lavoro nella giornata di domenica, non potendosi limitare ad indicare il numero di tali giorni.
14. Stante l’inammissibilità del secondo e del terzo motivo di ricorso, risulta inammissibile anche il primo motivo.
Invero, a parte l’inammissibilità dell’estensione della domanda in questione, qui confermata, la ribadita reiezione in appello della parte residua della stessa domanda nella sua originaria formulazione si fondava anzitutto, come si è ora visto, su un difetto di allegazione e di prova circa i precisi giorni in cui l’attuale ricorrente avrebbe prestato la sua opera di domenica; il che integra un’autonoma e distinta ratio decidendi, idonea di per sé appunto a sorreggere la decisione di confermato rigetto nel merito di tale domanda.
Conseguentemente, vane sono le considerazioni svolte dal ricorrente nel primo motivo di ricorso, che aggrediscono l’ulteriore ratio decidendi della sentenza d’appello sul punto, che si riferisce essenzialmente alla censure dell’allora appellante circa l’interpretazione dell’art. 40 del CCNL di settore, fornita dal primo giudice.
Infatti, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata e a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi (così, ex plurimis, di recente Cass. civ., sez. I, 04.11.2021, n. 31841).
15. Inammissibile, infine, è anche il quarto motivo di ricorso.
In proposito, occorre considerare che la Corte di merito aveva scritto:
<Quanto al motivo di appello concernente la distribuzione dell’orario part time, si osserva anzitutto come l’intervenuta cessazione del rapporto di lavoro a seguito del licenziamento di L. e della conciliazione della relativa controversia abbia determinato il venir meno dell’interesse della parte a tale riguardo: infatti, nessuna domanda risarcitoria era stata proposta in proposito nel ricorso di primo grado, nelle cui conclusioni veniva svolta unicamente una domanda di accertamento del “diritto del ricorrente a svolgere 23 ore settimanali di lavoro con orario predeterminato dal lunedì al giovedì dalle 14,00 alle 19,00 ed il venerdì dalle 7,00 alle 10,00”.
Pertanto, fondatamente R. ha eccepito l’inammissibilità della domanda risarcitoria, avanzata per la prima volta da L. nella presente fase processuale.
Neppure era stata domandata nel ricorso di primo grado la declaratoria di nullità parziale del contratto di lavoro per omessa determinazione degli orari di svolgimento della prestazione.
In ogni caso, come correttamente affermato in sentenza, la domanda avente ad oggetto la distribuzione dell’orario (peraltro modificata in appello rispetto ai giorni e alle ore indicati nell’atto introduttivo del primo grado di giudizio) risulta superata – oltre che dal licenziamento – anche dalla successiva determinazione operatane nel corso del rapporto di lavoro su espressa richiesta di L. (v. lettera 14.1.14, doc. 3, R. I gr.).
Nessuna doglianza era stata – infine – svolta da L. nella prima fase processuale in ordine alla facoltà di estensione dell’orario di lavoro e allo scorrimento dei riposi su base settimanale, previste in capo alla società in occasione della prima determinazione della relativa distribuzione, operata il 10.12.13 (doc. 2 R. I gr.): i rilievi svolti al riguardo nell’atto di impugnazione – peraltro a sostegno di una domanda risarcitoria non formulata nel ricorso di primo grado – sono, pertanto, anch’essi inammissibili.
Giova rammentare come, secondo la condivisibile giurisprudenza di legittimità, “si ha domanda nuova, inammissibile in appello, per modificazione della causa petendi, quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, comporti il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in tale fase il contraddittorio” (Cass. 7.2.12, n. 1684).
Tale pronuncia ben si attaglia al caso di specie, nel quale l’odierno appellante, dopo essersi limitato a svolgere in primo grado una domanda avente ad oggetto la distribuzione dell’orario di lavoro con sua collocazione da lunedì a giovedì dalle 14,00 alle 19,00 ed il venerdì dalle 7,00 alle 10,00, in appello ha per la prima volta domandato – oltre ad una distribuzione del tutto diversa – anche un risarcimento mai richiesto avanti al Tribunale (in ragione, fra l’altro, di una facoltà di estensione dell’orario e dello scorrimento dei riposi non dedotti nel ricorso di primo grado>.
16. Ergo, come ben emerge da questa parte della motivazione della sentenza impugnata, la ragione per la quale fu respinto il secondo motivo d’appello del L. avverso la decisione di primo grado consisteva nell’essere del tutto nuova la domanda con tale mezzo fatta valere; nuova, sotto diversi profili, sia in termini di petitum che di causa petendi.
17. Anche in questo caso, perciò, prescindendo dalle deduzioni del ricorrente che attengono al merito di tale pretesa, occorre preliminarmente controllare se egli abbia ammissibilmente, prima che fondatamente, impugnato detta ratio decidendi in punto d’inammissibilità di tale domanda nuova.
18. E la risposta del Collegio non può che essere negativa a riguardo, perché ancora una volta il ricorrente non considera in modo completo e pertinente quanto effettivamente considerato e deciso in proposito dalla Corte distrettuale.
19. In particolare, al punto IV.1. del motivo in esame, il ricorrente deduce: <Si afferma che il sig. L. nelle conclusioni dell’appello avrebbe inammissibilmente modificato la distribuzione dell’orario contenuta nelle conclusioni di primo grado>. La Corte d’Appello non ha tenuto in debito conto che il ricorrente ha proposto un’impugnazione solo parziale, rinunciando alla richiesta di riforma di quel capo della sentenza che ha respinto la sua domanda di accertamento di essere assunto per numero di ore superiori. Mentre in primo grado le conclusioni sono state dunque formulate sulla base di un preteso orario settimanale di 23 ore, in appello è stato invece necessario riformulare l’orario sulla base del differente orario di 18 ore settimanali, conseguente al passaggio in giudicato del relativo capo della sentenza. Dovendo allora riformulare l’orario in base a tale parametro, la scrivente difesa ha ritenuto di indicare quello da ultimo osservato dal sig. L. (che frattanto, passando gli anni tra un grado e l’altro, come si può immaginare era cambiato), ma avendo comunque sempre cura di specificare nelle conclusioni “o il diverso orario ritenuto di giustizia”. … In ogni caso la decisione in parte qua è affetta da vizio di violazione di legge con particolare riferimento alla falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.>.
20. Orbene – a prescindere dalla considerazione che è erroneo il nuovo e generico richiamo all’art. 345 c.p.c. in quanto, trattandosi di procedimento assoggettato al rito del lavoro, è applicabile in tema di domande nuove in appello il disposto precipuo di cui all’art. 437, comma secondo, primo periodo, c.p.c. -, come si è già notato, la Corte di merito ha ben tenuto conto che era in presenza di un appello che sollecitava una riforma parziale della sentenza di primo grado.
E’ fin troppo ovvio, poi, che il fatto che una determinata domanda avanzata in primo grado sia stata respinta nel merito per come all’epoca concepita non abiliti la parte così soccombente a riformulare la pretesa in modo del tutto diverso in grado d’appello.
Ciò non toglie, infatti, che si tratti di domanda nuova, non consentita dal cit. art. 437, comma secondo, primo periodo, c.p.c.
Del resto, il giudice a quo ha reputato inammissibili le nuove richieste dell’allora appellante a riguardo, non solo per il minor numero di ore di lavoro indicato in grado d’appello, ma soprattutto (anche se non solo) perché, come si è visto, erano indicati giorni e ore d’inizio e fine della prestazioni del tutto diversi da quelli pretesi in prime cure.
21. Ma la Corte di merito, come pure si è visto, ha ritenuto del tutto nuove le richieste del L. circa l’orario di lavoro, anche perché “Neppure era stata domandata nel ricorso di primo grado la declaratoria di nullità parziale del contratto di lavoro per omessa determinazione degli orari di svolgimento della prestazione”.
Su questo aspetto, l’impugnante in questa sede non svolge alcun rilievo.
22. Circa, invece, la richiesta risarcitoria in proposito, parimenti ritenuta nuova dalla Corte milanese, il ricorrente deduce che: <Al punto 4 delle conclusioni del ricorso di primo grado abbiamo espressamente domandato al Tribunale di “condannare R.G. s.p.a. al pagamento della maggiorazione del 11,5% sulla retribuzione a titolo di indennità di flessibilità, o la diversa somma ritenuta di giustizia, anche con ricorso a valutazione equitativa, sino a quando non sarà legittimamente individuata la collocazione temporale della prestazione del ricorrente”; al punto 2 delle medesime conclusioni si chiede per lo stesso titolo l’importo relativo al periodo novembre 2013/maggio 2014, in forma aggregata agli altri importi richiesti, ma con il relativo dettaglio specifico a pag. 6 del ricorso, pari ad euro 542,08. In sostanza il ricorrente ha ritento di quantificare il risarcimento dei danni a lui dovuti in misura pari all’indennità di flessibilità prevista dall’art. 33 del CCNL, ma rimettendosi comunque alla “valutazione equitativa del giudice”. …Siamo di fronte ad un’altra palese falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.>.
23. Su questo punto, allora, il ricorrente pretende di ritenere possibile qualificare ora ciò che era stato richiesto in prime cure a titolo di indennità di flessibilità come fondato ab origine in chiave di richiesta di risarcimento dei danni; tesi, questa, che, a tacer d’altro, neppure è allegato fosse stata sostenuta in grado d’appello.
24. Resta, dunque, confermata l’inammissibilità del quarto motivo di ricorso.
25. Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 1.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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