CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 ottobre 2021, n. 28560
Tributi – IVA – Operazioni intracomunitarie – Revoca autorizzazione – Cancellazione dal cd. VIES – Motivazioni – Elementi rappresentativi di criticità e di rischio
Rilevato che
– la C.M.S.T. S.r.l. impugnava il provvedimento del 4/4/2013 con cui l’Agenzia delle Entrate, ai sensi del punto 6 del Provvedimento prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010, disponeva la revoca dell’autorizzazione alla società ad effettuare operazioni intracomunitarie e, dunque, la sua cancellazione dal sistema elettronico di scambio di dati sull’IVA (cosiddetto VIES, VAT information exchange system, banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie, prevista dall’art. 17 del Regolamento (CE) n. 904/2010 del Consiglio del 7 ottobre 2010);
– la Commissione Tributaria Provinciale di Milano respingeva il ricorso della società;
– la C.T.R. della Lombardia, con la sentenza n. 6611/2014 dell’11/12/2014, accoglieva l’appello della C.M.S.T. e dichiarava la nullità della revoca dell’autorizzazione; in particolare, il giudice del gravame osservava che la motivazione del provvedimento di revoca non faceva riferimento alle operazioni commerciali con società polacche non iscritte al VIES (circostanza emersa soltanto nel giudizio e sulla quale «la decisione di primo grado è interamente e unicamente basata») e che non erano dimostrati crediti tributari relativi ad esse, non riscontrabili nella motivazione della sentenza della C.T.P. (senza alcun appello, sul punto, da parte dell’Agenzia);
– avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi;
– la C.M.S.T. resiste con controricorso.
Considerato che
1. Col primo motivo, l’Agenzia ricorrente deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 35, comma 15-quater, D.P.R. n. 633 del 1972, come integrato dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010 ratione temporis vigente, per avere la C.T.R. ritenuto illegittimo il provvedimento per mancanza di un credito tributario certo e definitivo dell’Amministrazione nei confronti della società.
Col secondo motivo, l’Agenzia prospetta (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 35, comma 15-quater, D.P.R. n. 633 del 1972, come integrato dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010 ratione temporis vigente, nonché in relazione all’art. 3 Legge n. 241 del 1990 e all’art. 2 D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere la C.T.R. considerato inidonea a sorreggere il provvedimento la motivazione addotta, conforme alle disposizioni normative con riguardo alla «presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata», i quali sono poi stati compiutamente illustrati nel corso del giudizio.
I motivi, che per la loro connessione logica possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
Adeguando l’ordinamento alla normativa europea in materia di operazioni intracomunitarie ai fini del contrasto delle frodi, l’art. 27 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, intervenendo sull’art. 35 D.P.R. n. 633 del 1972, ha istituito l’obbligo di iscrizione alla banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie (VAT information exchange system, altrimenti detta VIES).
In particolare, il menzionato art. 35 (nella formulazione ratione temporis applicabile) prevede che «Con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono stabilite le modalità di diniego o revoca dell’autorizzazione di cui al comma 7-bis» (comma 7-ter) e che «Ai fini del contrasto alle frodi sull’IVA intracomunitaria, con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono stabiliti i criteri e le modalità di inclusione delle partite IVA nella banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie» (comma 15-quater).
In attuazione del disposto legislativo, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate ha emanato il Provvedimento prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010, che contiene (tra l’altro) la disciplina dei presupposti per la revoca dell’autorizzazione all’effettuazione di operazioni intracomunitarie, la quale comporta «la esclusione dall’archivio dei soggetti autorizzati alle operazioni intracomunitarie con effetto dalla data di emissione» (punto 6).
Nello specifico, il punto 2.2. del citato Provvedimento prevede che l’esclusione dall’archivio dei soggetti autorizzati alle operazioni intracomunitarie sia «subordinata ad una ulteriore valutazione della posizione del contribuente, fondata su … altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio».
Nel provvedimento impugnato dalla C.M.S.T. l’Agenzia delle Entrate così spiega le ragioni della revoca: «presenza di elementi di rischio relativi alla posizione fiscale del soggetto richiedente l’inclusione nell’Archivio Vies: – presenza di ruoli non pagati negli ultimi cinque anni per importi rilevanti; – presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata».
Come si evince anche dalia sentenza della C.T.R., nel corso del giudizio di primo grado l’Agenzia delle Entrate ha spiegato che gli elementi di rischio indicati nel provvedimento erano costituiti dall’effettuazione di operazioni intracomunitarie con società polacche non iscritte nel VIES e, dunque, potenzialmente pregiudizievoli per l’Erario.
La C.T.R. ha riformato la decisione di prime cure reputando insufficiente la motivazione originaria del provvedimento, in quanto solo nel giudizio l’Agenzia aveva individuato gli elementi di rischio in «condotte, dettagliate negli atti del processo con dovizia di particolari, importi, date nonché documentate attualmente e finanziariamente».
Seppur implicitamente il giudice d’appello ha ritenuto inammissibile la motivazione – “postuma” – del provvedimento dell’Agenzia, situazione che si verifica quando l’Amministrazione colma ex post – e, cioè, in giudizio – le lacune dell’atto caratterizzato da un’insufficiente esposizione delle ragioni su cui si fonda.
Preliminarmente si osserva che non trova applicazione nella fattispecie de qua l’art. 42 D.P.R. n. 600 del 1973, norma che impone un significativo obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento in vista di un suo immediato controllo (in proposito, tra le altre, Cass., Sez. 5, Sentenza n. 30039 del 21/11/2018, Rv. 651552-01), ma, piuttosto, l’art. 7, comma 1, primo periodo, della Legge n. 212 del 2000 («Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente»), il quale stabilisce che «Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione».
Il rinvio alla legge sul procedimento amministrativo consente di esaminare l’obbligo di motivazione dei provvedimenti in materia tributaria – e, segnatamente, del provvedimento di revoca dell’autorizzazione ad effettuare operazioni intracomunitarie e di cancellazione dal VIES – anche alla luce della giurisprudenza del Giudice Amministrativo (che principalmente si è occupato dell’applicazione della menzionata Legge n. 241 del 1990), la quale tendenzialmente esclude la possibilità di una “motivazione postuma” del provvedimento che ne sia privo, perché non corrispondente al principio di parità tra P.A. e cittadino, dato che quest’ultimo verrebbe ad apprendere le ragioni dell’amministrazione soltanto nel giudizio:
«È infatti insegnamento tradizionale e consolidato quello in base al quale, nel processo amministrativo la motivazione deve precedere e non seguire il provvedimento, a tutela oltre che del buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela secondo il diritto europeo (art. 1 c.p.a.) i quali convergono nella centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa. …» (Cons. Stato, Sez. IV, Sentenza n. 1018 del 4/3/2014).
Tuttavia, proprio la stessa giurisprudenza precisa che il principio del divieto di integrazione postuma della motivazione non è assoluto e perentorio e che le sue conseguenze debbono essere attenuate – in ragione della ratio dell’obbligo ex art. 3 Legge n. 241 del 1990 (garantire il diritto di difesa), del principio di leale collaborazione tra privato ed amministrazione e del ruolo di “giudice del rapporto” (e non solamente demolitorio dell’atto) assunto dal G.A. (al pari del giudice tributario; v., ex multis, Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 12597 del 25/06/2020, Rv. 658046-01) – nei casi in cui la successiva esternazione di una compiuta motivazione «- non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato; – nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato; – nei casi di atti vincolati» (Cons. Stato, Sez. IV, Sentenza n. 1018 del 4/3/2014).
Occorre così distinguere l’integrazione di un provvedimento privo di motivazione (per tale ragione invalido) dall’illustrazione e dimostrazione dei fondamenti di un atto che – pur contenendo una succinta esposizione dei motivi (sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di difesa) – non li indichi espressamente: in proposito, seppure senza formulare uno specifico principio di diritto sul punto, si è affermato che «alla luce degli insegnamenti giurisprudenziali evidenziati, la motivazione può anche essere oggetto di un’illustrazione postuma che non costituisce integrazione della medesima, bensì applicazione di quanto dispone l’art. 21 octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241/1990″ e che “in particolare il vizio riscontrabile è un vizio solo formale” in relazione alla mancanza della “integrale applicazione dello schema legale della motivazione per retationem, ex art. 3» della stessa legge (così Consiglio di Stato, Sentenza n. 4194/2013, depositata il 20/8/2012, richiamata da Cass., Sez. U, Sentenza n. 9282 del 9/5/2016).
In conclusione, un conto è l’invalidità (insanabile nel corso del giudizio) di un provvedimento del tutto immotivato, un altro è l’insufficienza (o carenza) della motivazione dell’atto – che, pur omettendo di esplicitare tutti i suoi presupposti, contenga sufficienti elementi per rendere edotto il destinatario della sua ragione ultima e assicurargli il diritto di difesa (soprattutto quando le ragioni sottese all’emissione dell’atto gravato siano desumibili dagli atti inerenti la fase infraprocedimentale nei cui confronti, quindi, la motivazione postuma si atteggia a semplice specificazione o chiarimento) – alla quale può porsi rimedio nel contraddittorio processuale.
Applicando alla fattispecie in esame il seguente principio di diritto «In tema di obbligo di motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 7, comma 1, primo periodo, della Legge n. 212 del 2000, è ammessa nel corso del giudizio tributario l’integrazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato una decisione dell’amministrazione succintamente motivata, qualora la successiva esternazione di una compiuta motivazione non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato o quando i fondamenti del provvedimento poi impugnato fossero già percepibili, in base al principio di leale collaborazione tra privato e p.a., nella fase endoprocedimentale»,
deve reputarsi erronea la motivazione della sentenza della C.T.R., la quale ha ritenuto sempre inammissibile l’integrazione della motivazione riportata nel provvedimento, senza interrogarsi sulla sufficienza delle originarie indicazioni in esso contenute («presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata») a garantire il diritto di difesa del contribuente, sulla percepibilità delle ragioni dell’atto in base alla documentazione acquisita e resa disponibile alla C.M.S.T. e sulla possibilità di specificare e chiarire i presupposti del provvedimento innanzi al giudice del merito del rapporto tributario.
A ciò si aggiunge (con specifico riferimento al primo motivo) che la disciplina della revoca dell’autorizzazione ad effettuare operazioni intracomunitarie (il già citato punto 2.2. del Provvedimento prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010) non richiede che agli «altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio» si accompagni necessariamente un insoluto tributario, come invece afferma la C.T.R. sostenendo che «l’Erario non ha dimostrato di essere titolare di un diritto di credito tributario certo e definito relativo a tali condotte» in riferimento alle operazioni con le società polacche non iscritte al VIES.
Infatti, il tenore letterale del Provvedimento riguarda «altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio», da un lato evidenziando (con le parole «criticità» e «rischio») un pregiudizio anche soltanto potenziale e non già concretizzatosi nella sottrazione all’imposizione IVA, dall’altro ponendo detti elementi in alternativa (come si evince dal termine «altri») al già avvenuto «riscontro di gravi inadempimenti relativi agli obblighi dichiarativi IVA nei cinque periodi d’imposta precedenti a quello in corso».
2. Col terzo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza (ex art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) per violazione degli artt. 49 e 50 D.Lgs. n. 546 del 1992 in combinato disposto con gli artt. 323 cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ravvisato il passaggio in giudicato della sentenza della C.T.P. perché non impugnata dall’Agenzia (nella parte relativa all’inesistenza di debiti tributari insoluti), pur essendo la decisione a questa totalmente favorevole.
Anche questa censura è fondata.
La C.T.R. ha statuito che l’esistenza di un debito tributario per ruoli non pagati (e, cioè, l’altra ragione sulla quale si basa il provvedimento di revoca: «presenza di ruoli non pagati negli ultimi cinque anni per importi rilevanti») non è stata ritenuta «pregevole di valutazione dalla commissione di primo grado … e su tale fatto l’Agenzia non ha proposto appello, quindi tale fatto è coperto dal giudicato».
Il giudice d’appello fonda, dunque, un giudicato interno sul fatto che la C.T.P. ha respinto l’impugnazione della C.M.S.T. facendo riferimento esclusivamente alla «presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata» e alle operazioni con le società polacche, senza menzionare l’altra ragione della revoca dell’iscrizione al VIES.
Anche tale parte della motivazione è errata, posto che il giudicato può riguardare le domande avanzate e le eccezioni rimaste assorbite e non riproposte in grado di appello, ma non le ulteriori motivazioni a supporto del provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che è stato oggetto di impugnazione da parte del contribuente.
In altre parole, l’Amministrazione è risultata totalmente vittoriosa in primo grado, in quanto la C.T.P. ha ritenuto sufficiente ad escludere la denunciata illegittimità del provvedimento gli «altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio» e non ha nemmeno preso in esame la dedotta «presenza di ruoli non pagati negli ultimi cinque anni per importi rilevanti», la quale non era oggetto di domande o eccezioni della parte.
L’Agenzia, dunque, non aveva alcun onere di impugnazione della decisione di prime cure o di riproposizione delle ragioni fondanti il provvedimento impugnato dalla C.M.S.T., spettando casomai a quest’ultima reiterare in appello la contestazione inizialmente svolta anche sotto questo profilo.
3. In conseguenza di quanto esposto, dunque, la sentenza deve essere cassata con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso;
cassa la decisione impugnata con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.
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