CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 ottobre 2021, n. 28606
Licenziamento per giusta causa – Svolgimento di attività lavorativa durante la malattia – Prova – Permessi 104 – Espletamento di attività estranea rispetto all’assistenza familiare – Lesione del vincolo fiduciario
Rilevato che
– con sentenza in data 19 ottobre 2018, la Corte d’Appello di Venezia, riformando la decisione resa in sede di opposizione dal locale Tribunale, in accoglimento del reclamo proposto, ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a R.C. da ATER, Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale della Provincia di Venezia (in seguito ATER), respingendo, quindi, la domanda proposta dal lavoratore in primo grado;
– in particolare, il giudice d’appello, pur avendo ritenuto, conformemente al primo giudice, che non fosse stato del tutto dimostrato l’assunto posto dall’Ente a fondamento della contestazione, relativo allo svolgimento di attività lavorativa durante due giorni di malattia, ha ritenuto in ogni caso adeguatamente provato l’espletamento di attività estranea rispetto alla dovuta assistenza familiare con riguardo ad un giorno di permesso ex art. 33 L. 104 del 1992 ed ha concluso, quindi, ritenendo che da tale comportamento fosse derivata una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, con conseguente legittimità del licenziamento intimato per giusta causa;
– per la cassazione della sentenza propone ricorso, assistito da memoria, R.C., affidandolo a sei motivi;
– resiste, con controricorso, la ATER.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 7 e 18 della legge n. 300 del 1970 per violazione dei principi di immutabilità della contestazione e stretta connessione fra contestazione e licenziamento oltre che per violazione dei diritti di difesa del lavoratore;
– con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 L. n. 104 del 1992, nonché degli artt. 2697, 2729 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ.;
– con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2119 cod. civ. in relazione agli obblighi del lavoratore durante il permesso per malattia;
– con il quarto motivo si censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 63 del codice disciplinare ATER, con conseguente sproporzione della sanzione irrogata;
– con il quinto motivo si deduce la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 7 della legge n. 300 del 1970 e 12 comma 2 dello Statuto ATER;
– con il sesto motivo si allega la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia sulle istanze istruttorie;
– il quinto e il sesto motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico – sistematiche, sono inammissibili;
– va premesso, al riguardo, che, perché possa parlarsi di omessa pronuncia, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cfr., ex plurimis, fra le più recenti, Cass. n. 5730 del 03/03/2020) occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti;
– nel caso di specie, in assenza di puntuali indicazioni di segno contrario, offerte ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., deve affermarsi come invece il giudice di secondo grado abbia ben preso in esame la delibera n. 154 del 9/11/2015 con la quale venne decretato il licenziamento da parte del Consiglio d’amministrazione di ATER del ricorrente, unitamente agli antecedenti logico – giuridici di esso quali l’esame delle controdeduzioni e difese formulate dal C. e concludersi, al riguardo, come ogni diversa valutazione si traduca in una rivalutazione del fatto, inammissibile in sede di legittimità;
– va, poi, rilevato che,, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, né deducendosi la mancata ammissione di mezzi istruttori ritenuti irrilevanti ai fini della decisione, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960);
– anche il quarto motivo è inammissibile, traducendosi lo stesso in una richiesta di rivisitazione del fatto, non consentita in sede di legittimità e propugnandosi, tramite la censura prospettata, una interpretazione di una norma contrattuale inconferente rispetto alla vicenda, atteso che, suo tramite, si tenta di veicolare una comparazione fra situazioni diverse, quale quella inerente alla lesione di fiducia connessa all’abuso dei permessi retribuiti e quella relativa all’uso fraudolento di tesserino magnetico, invocandosi, ancora, una valutazione di merito inammissibile in sede di legittimità;
– il primo, il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati;
– giova premettere che, contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente nella prima censura, correttamente la Corte di merito ha reputato sussistente la correlazione e corrispondenza fra la contestazione e il contenuto della lettera con cui è stato comunicato il recesso, essendo stato contestato al C. proprio lo svolgimento di attività diversa rispetto a quella assistenziale, oltre all’espletamento di attività lavorativa (in proprio) durante il godimento della sospensione per malattia;
– aspetto ulteriore e distinto rispetto a quello appena richiamato, l’altro, concernente la dimostrazione effettiva circa lo svolgimento di attività lavorativa (in particolare j durante la malattia), trattandosi di questione in punto di prova ritenuta, peraltro, come si vedrà, irrilevante nella valutazione fattuale compiuta dalla Corte di merito;
– orbene, va premesso che questa Corte ha affermato, in tema di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, che l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all’art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale (Cass. n. 19580/2019 cit.);
– nondimeno, essa ha precisato che soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente (ancora Cass. n. 19580/2019 cit.);
– la Corte territoriale, d’altro canto, nel dar conto della giurisprudenza di legittimità che richiede che i permessi vengano fruiti in coerenza con la loro funzione ed in presenza di un nesso causale con l’attività di assistenza, ha fatto corretta applicazione delle regole di giudizio che presiedono a tale ambito, valorizzandone l’esclusivo rilievo in termini di lesione del vincolo fiduciario;
– in particolare, il giudice di secondo grado ha escluso che potesse reputarsi compatibile con l’espletamento di attività assistenziale Tessersi il ricorrente recato, durante il tempo del permesso, il giorno 14 ottobre 2015, prima presso l’Hotel Cristallo, gestito dalla moglie, poi presso il negozio, di proprietà della moglie stessa, denominato “Chance”, che aveva aperto con proprie chiavi e presso cui si era trattenuto per poi portarsi di nuovo presso l’Hotel, in difetto di prova circa l’aver comunque prestato assistenza;
non ha la Corte reputato sufficiente, al riguardo, l’assunto del C. di essersi trattenuto per cinquanta minuti presso la propria abitazione per preparare un pasto per la mamma, non convivente, a dimostrare la perdurante assistenza in favore della stessa;
– deve, d’altro canto, rilevarsi che, nell’osservanza dei principi generali, in taluni casi, in fatto, può rivelarsi sottile il discrimen fra uso corretto del permesso ed esercizio/i abusivo e, tuttavia, tale valutazione richiede una indagine fattuale, quale quella esperita dalla Corte territoriale nella specie, atteso che occorre verificare in concreto se l’eventuale esercizio di altra attività possa integrare un uso legittimo del permesso: tale valutazione ove, come nella specie, circostanziata ed immune da vizi logici, e sottratta al giudizio di legittimità;
– ribadito, pertanto, che attiene alla violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente una attività interpretativa della medesima, la stessa piana lettura delle modalità di formulazione delle censure ed il riferimento ad una diversa valutazione dei mezzi istruttori, di spettanza esclusiva del giudice di merito, induce ad escludere, ictu oculi, la deduzione di una erronea sussunzione nella violazione delle disposizioni normative mentovate della fattispecie considerata, dovendo invece ritenersi proposta una istanza volta ad ottenere una inammissibile rivalutazione del merito della vicenda;
– in ogni caso, la congruità della motivazione e, in particolare, il rispetto dei canoni che presiedono alla fruizione dei permessi come elaborati dall’interpretazione normativa offerta dalla giurisprudenza di legittimità inducono a ritenere che la Corte abbia fatto buon governo dei principi che regolano la materia;
– in particolare, poi, con riguardo alla dedotta violazione degli articoli 2119, 1175, 1375 del codice civile e 33 legge n. 104/92, va rilevato come il giudice di secondo grado abbia fatto applicazione dei principi dettati da questa Corte (per esempio mediante il richiamo alla sentenza n. 17698 del 2016) evidenziando non solo il difetto di funzione compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza prestata al disabile e sottolineando che lo stesso non può essere utilizzato per esigenze diverse (qualsiasi esse siano) rispetto a quelle proprie per la funzione cui la norma è preordinata (il richiamo è anche a Corte Cost. n. 213 del 2016) atteso che il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal lavoratore e dalla coscienza sociale meritevoli di tutela;
– posti questi principi, nel merito la Corte ha negato che le circostanze valorizzate dal giudice di secondo grado, come l’assenza di clienti, fossero idonee ad escludere che il C. si trovasse nel negozio della moglie (peraltro indicato dal fratello in sede j testimoniale come negozio di proprietà del C. stesso) per provvedere a necessità del tutto estranee rispetto a quelle connesse all’accudimento della madre e con le stesse non compatibili;
– orbene, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori;
– sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento;
– quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate);
– questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonché la giurisprudenza ivi citata);
– tale distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018);
– è, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n.18247 del 2009 e n. 7838 del 2005);
– nel caso di specie, appare evidente che le doglianze, veicolate per il tramite dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in realtà corrono lungo i binari della censura fattuale in quanto mirano ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado;
– con riguardo alla proporzionalità tra addebito e recesso, in sede di legittimità è stato affermato che rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere ia fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza ;
– spetta al giudice di merito verificare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 17321 del 2020);
– tale valutazione ha compiuto la Corte motivando sulle ragioni che, con riguardo alla natura e consistenza dell’addebito ed alla posizione lavorativa inducevano a reputare adeguata la sanzione espulsiva e anche tale motivazione si sottrae al sindacato di legittimità;
– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto;
– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, che liquida in euro 5250,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.