CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 ottobre 2021, n. 28626
Licenziamento per giusta causa – Indicazione di un numero di ore lavorate superiore rispetto a quello risultante dalle rilevazioni interne – Prova della violazione delle regole aziendali
Rilevato che
La Corte d’appello di Ancona, in riforma della pronuncia resa dal giudice di prima istanza, rigettava le domande proposte da P.M. nei confronti della T.E.C. s.p.a. volte a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole in data 30/11/2015, con il quale le era stato addebitato di aver indicato per sé e per il suo responsabile A.V., un numero di ore lavorate superiore rispetto a quello risultante dalle rilevazioni interne;
all’esito di un’ampia ricognizione del quadro istruttorio delineatosi in prime cure, la Corte distrettuale, in estrema sintesi, reputava comprovata la consapevole violazione, da parte della lavoratrice, delle regole aziendali vigenti in tema di corretta quantificazione dei compensi da elargire al personale dipendente;
premesso che costituiva evidenza istruttoria quella alla cui stregua la società aveva adottato una politica aziendale finalizzata al sistematico recupero delle ore lavorate in eccedenza rispetto al limite contrattualmente fissato mediante la fruizione di permessi o riposi compensativi, era emerso che, in violazione delle suddette regole ed in assenza di alcuna autorizzazione, la M. si era arrogata il potere di attribuire a sé e al V. un numero di ore remunerabili superiore a quello previamente concordato con la parte datoriale, approfittando del ruolo fiduciario rivestito all’interno dell’assetto organizzativo aziendale;
la cassazione di tale pronuncia è domandata da P.M. sulla base di cinque motivi;
resiste la società intimata con controricorso, illustrato da memoria ex art.380 bis c.p.c.;
Considerato che
1. con il primo e il secondo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell’art. 360 comma primo n.5 c.p.c.;
ci si duole che la Corte distrettuale abbia omesso l’esame di un fatto decisivo la cui esistenza risultava dalla documentazione prodotta in giudizio dalla ricorrente, inerente alla stipula di una serie di contratti a chiamata con la Immobiliare 1.m. s.r.l. (gestita dalla famiglia P., la stessa cui fa capo la TEC s.r.l.) che avevano ad oggetto la gestione del ristorante C. e dai quali si desumeva lo svolgimento di attività che non era stata remunerata (primo motivo);
si ribadisce che per l’attività svolta in base alla pluralità di contratti di lavoro a chiamata non sia mai stata retribuita come desumibile dalle testimonianze raccolte (secondo motivo);
2. i motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, presentano profili di inammissibilità per plurime concorrenti ragioni;
s’impone l’evidenza del difetto di specificità del motivo che riporta solo uno stralcio dell’atto introduttivo del giudizio inidoneo a consentire di rendere adeguata contezza circa le difese articolate sul punto dalla ricorrente, ed è carente quanto alla riproduzione del tenore dei contratti posti a fondamento della doglianza;
i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono infatti essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, (vedi Cass. 13/11/2018 n. 29093, Cass. 4/10/2018 n. 24340);
in ogni caso si verte sempre in ipotesi di censura attinente al non corretto vaglio del quadro istruttorio che non supera gli angusti limiti entro i quali è limitato il sindacato di legittimità, secondo i consolidati dieta di questa Corte;
ed invero, anche prima della novella del 2012 del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134, costituiva consolidato insegnamento essere sempre vietato invocare in sede di legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v. Cass. 17/11/2005, n. 23286, Cass. 23/12/2009, n. 27162; Cass. sez. un., 21/12/2009, n. 26825; Cass. .16/12/2011, n. 27197);
non può, dunque, essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla corte territoriale, essendo la valutazione di quelle – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20/4/2012 n. 6260);
nel sistema l’intervento di modifica dell’art.360 c.p.c., n.5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto; con esso si è invero avuta (Cass. Sez. Un., 7/4/2014 n.8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è i solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;
in tale contesto, il nuovo testo dell’art.360 c.p.c. n.5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti;
nello specifico il vizio, nei sensi denunciati, non rientra nel paradigma devolutivo e deduttivo della novellata disposizione;
la Corte distrettuale ha infatti dato conto del proprio convincimento procedendo ad un ampio scrutinio delle acquisizioni probatorie, senza trascurare il prospettato dato relativo allo svolgimento della attività lavorativa anche all’esterno della struttura T.E.C. s.r.l. ma giungendo a definire come acclarata la linea aziendale di procedere al sistematico recupero delle ore lavorate in eccedenza rispetto al limite di contratto mediante fruizione di permessi, ferie o riposi compensativi e a destituire di funzione fondativa del diritto azionato, le deduzioni relative alla attività svolta dalla ricorrente per la gestione del ristorante C., all’esito del , vaglio delle dichiarazioni testimoniali e documentali acquisite;
da ciò deriva, in definitiva, che i motivi in esame si traducono nell’invocata revisione dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova valutazione ed un diverso apprezzamento dei fatti, non concessa, perché estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità;
3. il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.227 c.c.n.l. di settore;
ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di valutare la tempestività del provvedimento intimato, alla luce dei dettami di cui alla richiamata disposizione pattizia secondo cui l’adozione del provvedimento disciplinare va comunicata al lavoratore con lettera raccomandata entro 15 giorni dalla scadenza del termine previsto per presentare le proprie giustificazioni termine che, in caso difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni, può essere prorogato di ulteriori 30 giorni;
4. la censura non è ammissibile;
non può sottacersi che le critiche formulate dalla ricorrente in questa sede di legittimità configurano un tema d’indagine che non rinviene alcun riscontro nel tessuto motivazionale che sorregge il provvedimento impugnato, e detta prospettazione, introducendo questioni non sottoposte allo scrutinio del giudice di merito, incorre nello stigma della novità, giacché delinea nuove questioni di diritto che presuppongono lo svolgimento di differenti indagini ed accertamenti in fatto, non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio, come tali non proponibili per la prima volta in questa sede di legittimità;
in proposito va rammentato l’orientamento espresso da questa Corte, del tutto privo di contrasti, secondo cui qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del , principio di autosufficienza del ricorso (vedi ex aliis, Cass. 12/6/2018 n. 15196, Cass. 24/1/2019 n. 2038);
5. il quarto motivo prospetta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell’art.360 comma primo n.5 c.p.c.;
la ricorrente lamenta che il giudice di seconda istanza abbia omesso di esaminare la circostanza della inesistenza di alcun provvedimento disciplinare a carico del V. per fatti sovrapponibili a quelli oggetto di incolpazione a suo carico;
6. il motivo non è fondato, essendosi la Corte di merito fatta carico, nel proprio iter argomentativo, di esaminare anche la posizione dell’altro dipendente, osservando come le sue pronte dimissioni, fossero esplicative della scelta datoriale di non adottare provvedimenti disciplinari a suo carico;
7. con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. dell’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si osserva che l’apprezzamento della legittimità e congruità della sanzione applicata deve essere condotto con riguardo alle circostanze soggettive ed oggettive del caso concreto, nella specie non realizzato essendo mancato l’esame della stipulazione di contratti a chiamata, la disamina del mancato pagamento delle ore di lavoro straordinario; quella dell’annullamento della contestazione a carico del collega V. nonché del mancato pagamento per l’attività svolta presso il ristorante C.;
8. il motivo non è ammissibile;
il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1 n.3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione;
risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione – come nella specie – di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (vedi Cass. 29/11/2016 n.24298);
nello specifico questa argomentata enunciazione delle ragioni di violazione della disposizione di legge rubricata è mancata, essendosi la ricorrente limitata ad enunciare una serie elementi fattuali che assume siano stati trascurati dal giudice del gravame nella elaborazione del giudizio di proporzionalità fra la condotta oggetto di incolpazione e la sanzione disciplinare applicata;
sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di la doglianza degrada in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione certamente non consentita .in sede di legittimità (cfr. Cass., S. U., 17/12/2019, n. 33373, Cass. S.U. 27/12/2019 n.34476);
in definitiva, al lume delle sinora esposte considerazioni i summenzionati motivi vanno complessivamente respinti;
le spese inerenti al presente giudizio seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.