CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 dicembre 2018, n. 32849
Tributi – Accertamento – Rideterminazione del reddito – Presunzioni degli studi di settore – Prova contraria a carico del contribuente
Rilevato
che la società contribuente reagiva all’avviso di accertamento con cui l’Ufficio rideterminava il suo reddito per l’anno di imposta 2002, in ragione di cessione d’azienda con minusvalenza dichiarata e perdita di esercizio che non trovava riscontro negli studi di settore;
che analoghi ricorsi presentavano i soci come rubricati in premesse, in ragione della conseguente proporzionale rideterminazione del rispettivo reddito individuale;
che, nel particolare, l’Ufficio evidenziava come il socio M.L., evocato al contraddittorio procedimentale non si fosse presentato agli uffici, né avesse prodotto documentazione atta a superare le presunzioni degli studi di settore, proponendo in fase conteziosa giustificazioni in ordine al fallimento di un cliente importante, ma senza dimostrarne l’effettiva incidenza nell’andamento societario, né dato conto degli scostamenti fra costi e ricavi;
che il giudice di prossimità riuniva i ricorsi, costituendo il litisconsorzio processuale, ed apprezzava in parte le ragioni dei contribuenti, mentre l’Ufficio spiccava appello che lo vedeva integralmente vittorioso con rigetto dell’impugnazione incidentale della parte privata;
che la parte contribuente propone ricorso per cassazione affidandosi a due motivi;
che resiste l’Avvocatura dello Stato con puntuale controricorso;
che in prossimità dell’udienza parte ricorrente ha depositato memoria.
Considerato
che con il primo motivo si lamenta nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4 e/o violazione e falsa applicazione degli articoli 111, sesto comma, Costituzione, 118 disp. att. cod. proc. civ., 112, 276, secondo comma, e 279 stesso codice di rito, nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per violazione di norma di diritto sostanziale ex art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ. e/o per inidoneità della motivazione ex art. 360, comma primo, n. 5 in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 e 5 cod. proc. civ.;
che, nella sostanza, si lamenta l’assenza o l’insufficienza della motivazione, resa in violazione di norme sostanziali e processuali;
che deve premettersi essere ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (Cass. Sez. VI – 5, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass V, n. 24313/2018) e che, in questo senso, la motivazione va desunta dal complesso dell’atto;
che, nello specifico, l’autonomo convincimento del giudice di secondo grado in adesione alla tesi dell’Ufficio è riportato nella prima pagina della sentenza, quarto capoverso, ove valorizza l’assenza di prova contraria offerta dal contribuente in contrapposizione alle presunzioni dell’Ufficio derivanti dallo studio di settore;
che sul punto è intervenuta questa Corte, anche a Sezioni unite, affermando che «La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano stati disattesi. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente» (Cass. sez. un. 18/12/2009, n. 26635);
che tale principio ha ben governato la sentenza in esame, sicché il profilo di doglianza è infondato;
che per gli ulteriori profili del motivo, in ordine a violazione di norma sostanziale o di ultra petizione, parte ricorrente non assolve all’onere dall’autosufficienza e sono quindi inammissibili;
che con il secondo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 e degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ., nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in parametro all’art. 360, comma primo, n. 3 e 5, involgente la prova dei presupposti legittimanti gli avvisi di accertamento anche per erronea applicazione dei principi di disponibilità della prova;
che, nella sostanza, si critica la sentenza per aver dato per motivati gli avvisi di accertamento impugnati, sul presupposto trattarsi di atto di cessione di ramo d’azienda e non dell’intera azienda, lamentando che la CTR non abbia esaminato il contratto esposto in atti e statuito sulla sua natura sostanziale di cessione dell’intera azienda, da cui ne è seguito lo scioglimento senza liquidazione e la cancellazione della società, già inoperosa per aver ceduto l’unica licenza di esercizio (recte, autorizzazione alla mescita) di cui disponeva;
che il motivo non assolve l’onere dell’autosufficienza, non indicando e riportando i passi in cui tale domanda sia stata formulata;
che il motivo d’appello del quale si lamenta l’omesso esame non risulta infatti compiutamente riportato nella sua integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano nuove e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (v. Cass. n. 17049/2015; n. 29368/2017);
che, in definitiva, il ricorso è in parte inammissibile in parte infondato e va rigettato;
che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti, in solido fra loro alla rifusione delle spese di lite a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in €.quattromilacento, oltre a spese prenotate a debito.
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