CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 dicembre 2018, n. 32886
Verbale ispettivo – Azione di accertamento negativo – Verbale non è suscettibile di autonoma impugnabilità in sede giurisdizionale
Rilevato che
la Corte d’Appello di Ancona, con sentenza n. 238/2013, ha respinto il gravame dispiegato nei riguardi della pronuncia del Tribunale della stessa sede con la quale era stata dichiarata inammissibile, nei confronti del Ministero del Lavoro e della Direzione Provinciale del Lavoro e rigettata, di I.N.P.S. ed I.N.A.I.L., l’azione di accertamento negativo dispiegata da P.F. e P.M. avverso un verbale ispettivo, con il quale era stata accertata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti P., da un lato e tale S.R.;.
avverso la sentenza i P. hanno proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, resistiti dall’I.N.A.I.L. con controricorso, mentre l’I.N.P.S. si è limitato a depositare procura speciale ed il Ministero del Lavoro e la Direzione del Lavoro sono rimasti intimati;
Considerato che
con il primo motivo è affermata la violazione (360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 22 L. 689/1981, da dichiararsi eventualmente previa rimessione alla Corte Costituzionale di questione di legittimità per violazione degli artt. 3, 24, 47 e 111 Cost., ad opera della medesima norma, nella parte in cui essa non consentirebbe l’azione di accertamento negativo avverso il verbale di accertamento prima dell’emissione dell’ordinanza ingiunzione; il motivo va disatteso;
esso riguarda la controversia nei riguardi del Ministero e della Direzione Provinciale del Lavoro e non quella nei confronti di I.N.P.S. ed I.N.A.I.L., che è stata decisa nel merito;
rispetto alle menzionate autorità amministrative l’unico interesse ad agire può in astratto riguardare la valenza del verbale al fine dell’applicazione delle sanzioni conseguenti alle violazioni amministrative in esso accertate; è tuttavia consolidato, e va qui confermato, il principio per cui «in tema di opposizione a sanzioni amministrative, il verbale di accertamento ispettivo (…) non è suscettibile di autonoma impugnabilità in sede giurisdizionale, trattandosi di atto procedimentale inidoneo a produrre alcun effetto sulla situazione soggettiva del datore di lavoro, la quale viene invece incisa soltanto quando l’amministrazione, sentite eventualmente le contrarie ragioni dell’interessato, determina l’entità della sanzione e, a conclusione del procedimento amministrativo, la infligge con l’ordinanza ingiunzione, dovendosi ritenere che solo da tale momento sorga l’interesse del privato a rivolgersi all’autorità giudiziaria» (Cass. 12 luglio 2010, n. 16319, Cass. 10 maggio 2010, n. 11281; Cass. 30 agosto 2007, n. 18320);
la disciplina è dunque diversa da quella speciale e tipica prevista dal codice della strada, ove è pacifica l’opponibilità in sede giudiziale già del verbale di accertamento (ora, v. art. 7 d. Igs. 1 settembre 2011, n. 150), ma ciò in quanto atto che, in mancanza di impugnativa amministrativa o giudiziale è destinato a divenire, esso stesso, titolo esecutivo, come non accade nel sistema generale della L. 689/1981, ove il verbale e l’atto di contestazione sono solo elementi prodromici rispetto alla successiva, ed eventuale, adozione dell’ordinanza ingiunzione, che soltanto costituisce titolo esecutivo; né può dirsi che la normativa, così impostata solleciti in alcun modo dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3) o dei diritti di difesa (art. 24) ed al giusto processo (art. 111 Cost.), in quanto semmai le garanzie per l’interessato ricevono una ancora maggior tutela, data dal fatto che in esito (o contestualmente) al verbale, deve procedersi alla contestazione delle infrazioni, la quale apre una fase di possibili difese e valutazioni in sede amministrativa, da cui potrebbe anche derivare la rinuncia della P.A. rispetto alla pretesa sanzionatoria;
avverso l’ordinanza ingiunzione sono poi ammesse piene tutele cautelari (v. ora, art. 5 e 6, co. 7, d. Igs. 150/2011 cit.) e di merito, nell’an e nel quantum, e quindi non vi è proprio alcuna compressione dei diritti del soggetto privato; il secondo, terzo, quarto e quinto motivo riguardano invece la controversia nei riguardi degli enti previdenziali e con essi si assume la violazione o falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 2094 c.c., per non essersi considerati tre indefettibili presupposti necessari per affermare la natura dipendente del rapporto e consistenti nell’orario di lavoro, nella subordinazione e nella retribuzione (secondo motivo), nell’omesso esame di un fatto controverso e decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.) consistente nella richiesta di audizione come teste del lavoratore (terzo motivo), nella nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte territoriale fatto discendere l’accertamento della subordinazione dall’esistenza di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa ed a progetto, di cui nessuna delle parti aveva mai fatto menzione (quarto motivo) ed infine (quinto motivo) nell’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.) da individuare nella asserita confessione stragiudiziale resa dal lavoratore S.R. dinanzi all’ambasciata italiana in Ucraina;
i predetti motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro connessione, e vanno disattesi;
la Corte d’Appello, la cui sentenza è l’unica a dover essere valutata in questa sede, non ha per nulla fatto discendere la qualificazione dalla previa identificazione di un rapporto di lavoro a progetto illegittimo, avendo invece argomentato sull’assetto fattuale del medesimo;
non è neppure vero che siano state trascurati i profili attinenti alla retribuzione (definita «paga» e riconosciuta come settimanale nella sentenza), dell’orario (ritenuto fisso, per circa otto ore al giorno) oltre a varie circostanze inequivocabilmente tipiche della subordinazione (l’adibizione delle semplici mansioni «di pulizia» degli ambienti e «nutrizione» dei cani, riconosciute altresì come «essenziali nell’organizzazione e funzionamento della struttura» per come impostata dai titolari);
la formazione del convincimento attraverso un quadro probatorio, e poi motivazionale, completo, non imponeva del resto di procedere all’audizione, come testimone, anche del lavoratore;
la completa analisi fattuale compiuta dal giudice di secondo grado (giunto al rigetto del gravame attraverso il richiamo a plurime circostante attinenti la presenza assidua in cantiere, l’orario di lavoro, la paga percepita e il lavoro svolto) esclude intanto che la mancata assunzione della testimonianza rilevi sotto il profilo dell’omesso esame di una circostanza decisiva (art. 360 n. 5 c.p.c.);
d’altra parte è consolidato l’orientamento secondo cui l’esclusione di un mezzo istruttorio non necessita di specifica motivazione, potendo risultare per implicito dalla decisione di merito (Cass. 22 aprile 2009, n. 9551), con l’unico limite che il giudice non può non ammettere un mezzo istruttorio ed al contempo decidere la causa imputando alla parte che per esso aveva insistito di non avere assolto all’onere della prova (Cass. 23 febbraio 1987, n. 1913), ma già si è detto che nel caso di specie la Corte d’Appello non ha deciso sulla base della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., ma ha positivamente accertato, sulla base di altri riscontri istruttori, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato; neppure è poi vero che siano state trascurate le emergenze derivanti dalla dichiarazione resa dal medesimo lavoratore all’ambasciata italiana in Ucraina, alle quali non può in questa causa (di cui il lavoratore non è parte) riconoscersi portata confessoria e che la Corte ha compiutamente analizzato, quale elemento istruttorio atipico, valutandole tuttavia come non attendibili per varie ragioni di sospetto (dubbi sulla spontaneità dell’iniziativa; assenza di spiegazioni sul motivo per cui esse divergessero da quanto dichiarato nell’immediatezza dei fatti) che danno ampiamente conto del motivato convincimento raggiunto; alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità, in favore dell’I.N.A.I.L., avendo l’I.N.P.S. soltanto depositato procura ed essendo le altre parti rimaste intimate;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a rifondere all’I.N.A.I.L. le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00 per compensi ed euro i 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.
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