CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 dicembre 2019, n. 33944
Tributi – Impresa immobiliare – Accertamento induttivo maggiori ricavi – Cessioni immobili – Rettifica valori di vendita – Presunzione basata su discordanza con valori OMI e importo dei mutui stipulati per gli acquisti – Illegittimità
Rilevato che
La s.r.l. Immobiliare B.C., esercente in Cittadella attività immobiliare, impugnava innanzi alla CTP di Treviso gli avvisi di accertamento NN.844030300623 e 844030300625/2009, notificatile dall’Agenzia delle Entrate di Treviso, con i quali questa, sulla scorta di alcuni elementi indiziari, aveva contestato gravi incongruità dei ricavi dichiarati rispetto a quelli dei valori commerciali normali degli immobili venduti o comunque a quelli ricavabili dai mutui accesi per l’acquisto, ed aveva accertato ai sensi degli artt. 39 e 40 DPR n. 600/1973, maggiori ricavi e redditi rispettivamente pari, per l’esercizio 2005, a €.124.478,00, e per l’esercizio 2004 ad € 925.035,00, richiedendo maggiori IRES, IVA ed IRAP, ed irrogando le connesse sanzioni.
Nel contraddittorio con l’Agenzia resistente, l’adita CTP pronunciava sentenza N.98/02/2010, con la quale respingeva il ricorso. Su appello della Società, detta decisione è stata riformata dalla CTR del Veneto, Sez. Distacc. di Mestre, con la sentenza oggi impugnata, con la quale ha accolto l’appello principale ed ha annullato gli avvisi impugnati, condannando l’Agenzia al rimborso delle spese del giudizio. Il Giudice d’appello, premesso che a seguito dell’abrogazione, da parte dell’art. 24 Legge n. 88/2009, dell’art. 54 co.3 DPR n.633/1972 non è più consentito all’Agenzia di provare l’occultamento di imponibile scaturente da cessioni immobiliari mediante ricorso ai valori normali dei beni immobili secondo le rilevazioni OMI, ha ritenuto gli elementi indiziari indicati dall’Agenzia a sostegno dell’accertamento non dotati di gravità precisione e concordanza; in particolare ritenendo che: l’utile complessivo aziendale alla fine dell’operazione era stato superiore al 10% nonostante il fallimento dell’impresa appaltatrice; i valori dichiarati, ancorchè inferiori a quelli medi, erano comunque superiori a quelli minimi che ostavano all’accertamento di maggior valore ed erano confortati dalla perizia giurata prodotta già nel precedente grado; che la mancata giustificazione dei finanziamenti dei soci poteva giustificare un accertamento reddituale nei loro confronti, ma era irrilevante nella presente controversia; infine che l’importo dei mutui stipulati per gli acquisti, stante l’incidenza sugli stessi di rapporti tra banca e clienti, relativi alla fiducia ed alle garanzie da questi offerte, e l’incremento costante dei valori immobiliari, costituiva elemento scarsamente significativo per inferirne il maggior prezzo ricavato per le vendite.
L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione di detta sentenza, con atto notificato a mezzo del servizio postale il 27.03.2012, articolando due motivi di censura.
La Immobiliare B.C. resiste con controricorso.
Considerato che
L’Agenzia denuncia, con il primo motivo di ricorso, insufficiente motivazione della sentenza d’appello ai sensi dell’art.360 co.1 n.5 c.p.c. circa la ritenuta adeguatezza dell’utile realizzato, sia in quanto apoditticamente affermato senza indicare la fonte dei dati utilizzati, sia perché contrastante con le documentate percentuali di ricarichi negativi fornite dall’Ufficio; circa il richiamo della perizia di parte appellante ne deduce l’illogicità per aver commisurato la redditività delle compravendite ad un arco temporale più ampio rispetto a quello oggetto di contestazione.
Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c. e dei principi in tema di notorio, ai sensi dell’art. 360 co.1 n.5 c.p.c., per avere fondato la valutazione circa l’attendibilità dei ricavi dichiarati anche sulla scorta del fatto notorio costituito dalla prassi bancaria del periodo in considerazione di concedere mutui a prezzi più elevati anche dei prezzi di acquisto “in quanto gli istituti tenevano conto da un lato delle possibilità finanziarie dei debitori, dall’altro della continua e consistente rivalutazione del valore degli immobili protrattasi per diversi anni”; così introducendo nell’iter decisionale elementi non forniti dalle parti, non vagliati né controllati e quindi privi della tipica valenza delle prove o degli indizi, ma neppure riferibili al concetto di notorio quale elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, cioè quale “fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile”.
Il primo motivo è inammissibile.
E’ noto, come da ultimo affermato da Cass. SU 25.10.2013 n. 24148, che “La motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati“. Orbene, dalla lettura della sentenza confrontata con l’esposizione degli argomenti di contrasto illustrati nel motivo, si evince chiaramente che la CTR ha esplicato, per ciascun elemento indiziario addotto nell’atto di accertamento e/o valorizzato dai primi Giudici, una argomentata adesione alle tesi esposte dall’appellante, sufficiente ad individuare il procedimento logico che ne ha determinato il convincimento.
D’altro canto lo stesso motivo è impostato su una sequenza di controargomentazioni alle ragioni esposte nella sentenza impugnata, dirette o a negarne la valenza attribuita, ovvero a sostenere una concludenza nel senso contrario a quello postulato dal Giudice dell’appello, senza indicare la sussistenza di elementi logici o probatori da cui evincere la sicura infondatezza dell’argomento utilizzato dal Giudice d’appello; sicchè appare ancor più chiaro che la censura è diretta ad ottenere una diversa valutazione degli elementi indiziari controversi.
Peraltro proprio in considerazione del fatto che la motivazione circa il fatto controverso principale (occultamento di un maggior corrispettivo delle vendite) sia articolata sulla base di una pluralità di fatti secondari, ritenuti o meno significativi ai sensi dell’art. 2727 segg. c.c., difetta nel motivo alcuna illustrazione circa la decisività di uno o più dei fatti secondari contestati al fine di poter ritenere raggiunta la prova presuntiva in ordine all’unico fatto principale, tenuto conto che l’apprezzamento di tale sufficienza degli indizi è istituzionalmente rimessa all’apprezzamento del Giudice di merito ed inibita a quello di legittimità (cfr. la già citata Cass. SU n.24148/2013).
Il secondo motivo è infondato. La ricorrente Agenzia denuncia un ricorso al notorio che nella specie non sussiste, ma risulta evocato esclusivamente sulla base di un improprio uso del termine nella motivazione; precisamente la CTR ha affermato che “costituisce fatto notorio, in quanto ampiamente reclamizzato dagli istituti bancari, come negli anni considerati venissero offerti finanziamenti per importi ben superiori al prezzo di acquisto”.
Orbene, contrariamente a quanto presupposto dall’Agenzia ricorrente, la circostanza di fatto, dedotta a contestazione dello specifico elemento indiziario enunciato negli avvisi di accertamento, era già stata, secondo quanto esposto nella sentenza oggi impugnata, oggetto di valutazione negativa da parte della CTP; e, per quanto sempre emergente dalla narrativa in fatto di quest’ultima, “parte appellante produceva articoli tratti da riviste specializzate da cui risultava la prassi bancaria di concedere mutui per l’acquisto della prima casa fino al 120% del valore dell’immobile”, evidentemente per superare tale negativa valutazione.
E’ pertanto evidente che l’apprezzamento dell’esistenza di un’ampia, ancorchè non sistematica, prassi bancaria di eccedere dai limiti consigliati dalle direttive degli Istituti di controllo è scaturito non già dall’affermazione ufficiosa di un fatto notorio di generale conoscenza, bensì dall’utilizzazione, quali fonti probatorie di contrasto, di quegli articoli di stampa specializzata, sui quali lo stesso Giudice d’appello, impiegando il termine “notorio” nel senso di “noto”, fonda il suo convincimento (“ampiamente pubblicizzata dagli istituti bancari”). Appare quindi evidente che non di ricorso al notorio si è trattato, ma, eventualmente, di indebita valutazione di fonti probatorie “atipiche”, il cui impiego avrebbe potuto e dovuto essere censurato attraverso la denuncia della violazione di norme procedurali diverse.
P.Q.M.
respinge il ricorso e condanna l’Agenzia alla rifusione, in favore della Società controricorrente, delle spese di fase, che liquida in complessivi €.10.100,00, oltre IVA e CPA come per legge.
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