CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 febbraio 2019, n. 4803
Licenziamento per giusta causa – Funzionario commerciale – Sistema di smaltimento illecito dei telefoni giacenti in magazzino – Pregiudizio economico per la società
Rilevato che
Il Tribunale di Firenze accoglieva la domanda proposta da R.B. nei confronti della V.I. s.p.a. volta a conseguire pronuncia di illegittimità del recesso per giusta causa intimatogli in data 21/9/2011 e di condanna della società alla reintegra nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno alla stregua dell’art. 18 L. 300/70 nella versione di testo applicabile ratione temporis.
Detta pronuncia veniva parzialmente riformata, quanto all’ammontare della domanda risarcitoria, dalla Corte distrettuale, che accertava la misura dell’aliunde perceptum nel periodo intercorso fra il licenziamento e la riammissione in servizio, nell’importo di euro 134.272,70.
Nel pervenire a tali conclusioni, ed in via di premessa, il giudice del gravame argomentava che oggetto dell’addebito formulato da parte datoriale consisteva nella circostanza che il B., nella sua qualità di funzionario commerciale incaricato di seguire i rivenditori esterni, avesse suggerito ad alcuni di essi, un sistema di smaltimento illecito dei telefoni smartphone giacenti in magazzino, con conseguente pregiudizio economico per la società, tenuta al rimborso del costo di tali apparecchi ai rivenditori.
Deduceva, peraltro – così condividendo l’iter argomentativo percorso dal giudice di prima istanza – ed in estrema sintesi, che il quadro probatorio delineato in prime cure non evidenziava inequivoche emergenze in ordine alla fondatezza dell’atto di incolpazione, considerata l’inattendibilità dei testimoni che avevano suffragato le tesi di parte appellante (nei confronti dei quali era stata altresì disposta in sede penale, condanna per il reato di falsa testimonianza), ed avuto riguardo anche alla circostanza che la diffusione delle descritte irregolarità nei rapporti commerciali con i rivenditori, era stato accertato risalisse già agli inizi dell’anno 2009, in relazione a soggetti che non avevano avuto alcun rapporto con il B.. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la Corte di merito giungeva all’argomentato convincimento della insussistenza di qualsivoglia dimostrazione dell’assunzione di comportamenti di rilievo disciplinare, da parte del lavoratore.
Avverso tale pronuncia la società V. interpone ricorso per cassazione sostenuto da cinque motivi. Resiste con controricorso l’intimato.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 111 c. 6 Cost e 132 c. 2 n. 4 c.p.c. Ci si duole, in sintesi, che il giudice del merito non abbia preso in considerazione le difese articolate dalla società in relazione alla cospicua documentazione versata in atti ed alla valutazione del peso probatorio rivestito dalle dichiarazioni dei testi B. e M. i quali “confessando la prassi suggerita loro dall’odierno appellato…hanno ammesso di aver truffato V. riconoscendo di essere debitori nei confronti della società appellante, della somma complessiva di euro 143.471,00 erogata loro quale rimborso per i finti premi”. Si deduce che la statuizione in merito all’esito non univoco delle prove raccolte ed alla loro inidoneità alla definizione della fondatezza dell’atto di incolpazione, si sia tradotto in motivazione apparente e perplessa, laddove, accanto alla inattendibilità delle testimonianze, aveva argomentato in ordine alla mancata presa di posizione “sulle numerose e gravi incongruenze nelle prove fornite in primo grado a preteso sostegno della fondatezza dell’addebito…né sulla evidente difformità delle due versioni fornite al giudice del lavoro dal M., teste chiave della versione datoriale”.
2. Il secondo motivo prospetta violazione degli artt. 1362 e seguenti c.c.
Si lamenta che la Corte di merito non abbia correttamente ricostruito “la portata dei motivi d’appello proposti dalla V….” che aveva “puntualmente evidenziato le ragioni per cui la parziale ritrattazione offerta dal sig. M. non avrebbe dovuto inficiare la valutazione circa la fondatezza degli addebiti”.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2106 e 2119 c.c. nonché violazione dell’art. 48 par. B c.c.n.l. Telecomunicazioni.
Deduce che il B., come emerso alla luce della espletata attività istruttoria, era perfettamente edotto delle irregolarità poste in essere dai rivenditori esterni già nel 2010, e ciò nondimeno, aveva omesso di darne notizia al suo datore di lavoro, ponendo così in essere una condotta che si prospetta in evidente contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede e di diligenza nell’esecuzione dell’obbligazione lavorativa, oltre che della disposizione convenzionale che giustifica l’applicazione della sanzione espulsiva nel caso in cui il comportamento del dipendente arrechi grave nocumento morale e materiale all’azienda.
Argomenta in ordine alla erroneità degli approdi ai quali era pervenuta la Corte di merito ritenendo che le richiamate circostanze fossero prive di rilevanza sotto il profilo disciplinare, posto che la non corretta prospettiva adottata, inficiava il giudizio di compromissione dell’elemento fiduciario elaborato dalla Corte, che prescindeva dalla considerazione degli aspetti concreti della vicenda, attinenti alla natura ed alla qualità dello specifico rapporto.
4. La quarta censura concerne violazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Ci si duole della mancata valorizzazione, da parte dei giudici del gravame, di quanto emerso all’esito dell’istruttoria svolta, in merito alla connivenza manifestata dal B. rispetto alla prassi irregolare perpetrata dai rivenditori esterni ai danni di V.
5. I motivi, che possono essere congiuntamente trattati per connessione, vanno disattesi.
I rilievi formulati dalla ricorrente — che si riferiscono a violazioni prospettate come violazione di legge – sono volti, nella sostanza, a sindacare un accertamento di fatto condotto dal giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere non fosse stata dimostrata, alla stregua delle circostanze definite all’esito della articolata attività istruttoria, la fondatezza dell’addebito disciplinare e, di conseguenza, la legittimità del provvedimento espulsivo irrogato ai sensi dell’art. 2119 c.c.
A tale ricostruzione il ricorrente ne contrappone infatti, una difforme proponendo una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti, non consentita nella presente sede di legittimità.
Ma detta operazione non appare consentita nella presente sede giacchè, per costante insegnamento di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (ex plurimis, vedi Cass. 11/1/2016 n.195).
6. Con riguardo al nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis, neanche sono ravvisabili la contraddittorietà o incoerenza della motivazione, né la mancanza della stessa, come espressamente contestato dalla società, in particolare, nel primo motivo di ricorso.
Ed invero la Corte di merito non ha mancato di rimarcare le gravi incongruenze che spiccavano nel quadro probatorio definito in prime cure, ivi compresa la evidente difformità nelle due versioni fornite dal M., teste chiave della parte datoriale, il quale aveva dapprima accusato l’appellato di aver suggerito per la prima volta ai rivenditori, di adottare la prassi scorretta di smaltimento illecito di giacenze di magazzino ai danni della datrice di lavoro, e successivamente fornito una ben diversa versione che scagionava il B.; né ha sottaciuto che il predetto testimone, unitamente alla moglie, era stato condannato per falsa testimonianza.
Ha, quindi, proceduto ad una globale valutazione della complessa vicenda di fatto sottoposta al suo scrutinio, considerandone tutti gli elementi di criticità – dalla appurata diffusione di irregolarità anche su rivenditori esterni non seguiti dal B. e da epoca anteriore all’estate 2010, in cui la società collega l’inizio della attività illecita da parte del dipendente, alla falsità delle accuse dei coniugi M. – dai quali inferiva l’insussistenza di alcun profilo di responsabilità a carico del dipendente nei termini oggetto dell’atto di incolpazione, negando potesse configurarsi alcuna violazione dei doveri scaturenti dalla obbligazione lavorativa.
La quaestio facti rilevante in causa è stata dunque trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, le critiche formulate non superando gli stringenti limiti posti dal novellato n. 5 del comma primo art. 360 c.p.c.
Pervero, anche prima della riformulazione dell’art. 360 comma primo n.5 per effetto della novella di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134, costituiva consolidato insegnamento essere sempre vietato invocare in sede di legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, Cass. sez. un., 21/12/2009, n. 26825; Cass. 26/3/2010, n. 7394; Cass. 16/12/2011, n. 27197).
All’esito della riforma del 2012, come sottolineato dalle sezioni unite di questa Corte (Cass. 7/4/2014 n. 8053), è divenuta denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”. nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Residua, dunque, il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. 27/4/2017 n. 10416) che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche che non rispondono ai requisiti della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità.
6.Con il quinto motivo è denunciata violazione dell’art. 3 L. 604/1966 in relazione all’art. 360 comma primo nn. 3 e 4 c.p.c.
Ci si duole che la Corte distrettuale non abbia riscontrato i requisiti di validità ed efficacia, pur sussistenti, del licenziamento in termini di giustificato motivo soggettivo.
Al di là dei profili di inammissibilità per la promiscua tecnica redazionale con la quale si contestano errores in judicando e in procedendo, per gli aspetti di irredimibile contraddittorietà che lo connotano, dovendo ciascun motivo rinvenire una autonoma collocazione (cfr. Cass. 9/6/2012 n. 9341) anche questo motivo va disatteso, perché muove da un presupposto – la responsabilità del B. in ordine alle mancanze ascritte – la cui sussistenza è stata motivatamente esclusa dal giudice del gravame, all’esito della attività istruttoria espletata.
In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della soccombenza.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 1 co. 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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