CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 febbraio 2021, n. 4597
Licenziamento – Illegittimità – Accertamento – Differenze retributive – Svolgimento della prestazione lavorativa secondo l’orario contrattuale pattuito
Rilevato che
Il Tribunale di Salerno rigettava la domanda di A.G. di condanna al pagamento di differenze di retribuzione e di accertamento della illegittimità dell’irrogato licenziamento;
la Corte territoriale, in parziale accoglimento del gravame del lavoratore, ha dichiarato illegittimo il recesso e riconosciuto la tutela ex lege nr. 604 del 1966; ha confermato, per il resto, la decisione di primo grado;
a fondamento del rigetto della richiesta di differenze retributive, la Corte di appello ha giudicato corretto l’inquadramento professionale operato dalla parte datoriale e ha accertato lo svolgimento della prestazione lavorativa «secondo l’orario contrattuale pattuito»; ha, quindi, escluso il diritto di credito del lavoratore che «non (aveva) neppure dat(o) prova della percezione di somme inferiori di quelle indicate nelle buste paga in atti […]»;
avverso la decisione, ha proposto ricorso per cassazione A.G., articolato in due motivi;
è rimasta intimata la parte datoriale;
la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio;
Considerato che
Con il primo motivo è dedotta – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, con particolare riferimento all’art. 2697 cod.civ. e all’art. 115 cod.proc.civ., per non avere la Corte di appello correttamente applicato la regola di riparto dell’onere di prova;
parte ricorrente assume che la domanda di condanna al pagamento di differenze di retribuzione era fondata non solo sulla deduzione di un diverso inquadramento professionale e dello svolgimento di un differente orario di lavoro ma, altresì, sulla allegazione di aver percepito, pur a fronte dell’inquadramento e dell’orario di lavoro riconosciuti dal datore di lavoro, somme inferiori rispetto a quelle emergenti dalle buste paga, non quietanzate;
con il secondo motivo è dedotta – ai sensi dell’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ. – l’omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;
parte ricorrente deduce l’omessa pronuncia sulla domanda di pagamento del trattamento di fine rapporto, per avere la Corte di appello ritenuto che il lavoratore avesse richiesto esclusivamente le differenze del TFR scaturenti dal riconoscimento delle differenze di retribuzione, senza considerare che in ricorso era chiesto e rivendicato tout court «il mancato pagamento del trattamento di fine rapporto»;
i due motivi possono congiuntamente esaminarsi, presentando analoghi profili di inammissibilità;
entrambe le censure difettano di specificità, in quanto argomentate senza il rispetto degli oneri di deduzione e documentazione imposti dagli artt. 366 nr, 6 e 369 nr. 4 cod.proc.civ.;
deve invero rilevarsi che, secondo quanto emerge dalla parte narrativa della sentenza impugnata, le domande proposte dall’odierno ricorrente, rigettate dal tribunale, avevano ad oggetto – oltre all’impugnazione del licenziamento – la condanna della società datrice di lavoro al pagamento di differenze retributive rivenienti dal preteso superiore inquadramento e dallo svolgimento di lavoro straordinario (pagina 2, secondo periodo); non vi è traccia, in particolare, di una domanda autonoma di pagamento di somme scaturenti dalla differenza tra quanto riportato nella busta paga (e asseritamente superiore) e quanto di fatto percepito dal lavoratore (e asseritamente inferiore);
neanche nel riportare i motivi di appello, la Corte fa riferimento ad una specifica censura riguardo a questa parte della domanda;
il ricorso, sotto questo aspetto, è del tutto carente, giacché non trascrive, neppure nelle parti salienti, né l’atto introduttivo del giudizio di primo grado né quello del giudizio di appello. Gli stessi sono riportati in via di mera sintesi e, dunque, in modo inadeguato a dare contezza dell’effettivo ambito della domanda e, quindi, a consentire la verifica di fondatezza dei rilievi;
vero è che nella motivazione la Corte accenna ad una richiesta di pagamento, da parte del ricorrente, della differenza tra le somme indicate nelle buste paga e il percepito: tuttavia, a prescindere dal rilievo che non è chiaro se si tratti di una domanda autonoma e ulteriore rispetto alle altre, né se le buste paga fossero state quietanzate oppure no (con conseguente inversione dell’onere probatorio nel primo caso), la Corte ha ritenuto di condividere il giudizio espresso dal tribunale che l’ha rigettata sulla base delle «emergenze processuali di prova orale» (pag. 3, punto 8);
e, in chiusura e a maggior chiarimento, ha precisato che l’appello «per quanto attiene le differenze da corrispondere, eventualmente, dopo la valutazione delle emergenze processuali, relativamente alla qualità e quantità delle prestazioni rese, si appalesa […] assolutamente infondato, con necessaria conferma della sentenza impugnata» (pag. 3, punto 10);
in altri termini, con riguardo alle domande aventi ad oggetto le differenze retributive, la Corte ha confermato il giudizio del Tribunale, che, sulla scorta delle risultanze istruttorie, le ha rigettate;
a fronte di un siffatto richiamo espresso alle ragioni poste dal Tribunale, era onere del ricorrente dimostrare, attraverso la trascrizione della sentenza di primo grado, che tale rigetto era stato determinato da una violazione dell’art. 2697 cod.civ. (e non invece da un apprezzamento degli elementi di prova raccolti), che tale violazione era stata censurata con l’atto di appello e quindi, attraverso la conferma della sentenza, reiterata dalla Corte;
in questo contesto motivazionale e a fronte del difetto di specificità del ricorso, la frase non proprio perspicua della Corte secondo cui «non è stata neppure data prova della percezione di somme inferiori a quelle indicate nelle buste paga in atti» – e specificamente censurata con il primo motivo, avulsa dal contenuto specifico degli atti processuali, appare del tutto insufficiente a comprovare la dedotta violazione dell’articolo 2697 codice civile, la quale ricorre solo ove il giudice abbia posto l’onere della prova su una parte diversa da quella su cui grava, non anche quando il giudizio di infondatezza della domanda sia espresso sulla base della valutazione delle acquisizioni istruttorie, e se ne lamenti l’incongruenza, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (Cass. nr. 17313 del 2020), nella specie non dedotto;
sulla base delle svolte argomentazioni, il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile;
nulla deve provvedersi in merito alle spese, poiché la società datoriale è rimasta intimata;
sussistono, invece, i presupposti per il raddoppio del contributo unificato a carico del ricorrente, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.
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