CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 ottobre 2020, n. 22692
Tributi – IRPEF – Ritenute fiscali – Stock options ed emolumenti variabili – Addizionale ex art. 33 del D.L. 78/2010 – Ambito di applicazione – Indebito versamento – Diritto al rimborso
Rilevato che
La L.G. s.p.a., quale sostituto d’imposta, ha assoggettato a ritenuta la parte variabile della retribuzione corrisposta ai suoi dirigenti nell’anno 2010, applicando l’aliquota addizionale del 10% prevista dall’art. 33 del D.L. 78/2010, convertito con modificazioni dalla legge 122 del 2010. Ne ha domandato successivamente la restituzione, ritenendo insussistente il presupposto soggettivo per l’applicazione dell’imposta addizionale.
Avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione Finanziaria, ha proposto ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che lo ha accolto, ritenendo che l’addizionale fosse applicabile alla quota variabile della retribuzione dei soggetti operanti nel settore bancario e creditizio.
Su appello dell’Agenzia delle Entrate la Commissione Tributaria Regionale, con la sentenza qui impugnata, ha confermato quella di primo grado.
L’Agenzia delle Entrate ricorre per un unico motivo per la cassazione della sentenza sopra indicata.
La società ha resistito depositando tempestivo controricorso, altresì ribadendo la non debenza del prelievo per violazione del principio di irretroattività delle modifiche arrecate ai tributi periodici, in forza dell’art. 3, comma 1, I. 212/2000; questione non affrontata dalla Commissione Tributaria Regionale perché ritenuta assorbita dalla soluzione data alla questione principale.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, domandando il rigetto del ricorso.
Per la trattazione della causa è stata fissata l’adunanza in camera di consiglio del 17 settembre 2019, ai sensi degli artt. 375, ult. co., e 380 bis 1, c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. in legge n. 197 del 2016.
Considerato che
1. Con l’unico motivo la ricorrente denuncia <<violazione e falsa applicazione dell’art. 33 del D.L. 78/2010, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.>>, in quanto la Commissione Tributaria Regionale avrebbe escluso l’applicabilità dell’addizionale ritenendo la contribuente holding industriale e ritenendo di comprendere nel “settore finanziario” i soli soggetti che, a norma dell’art. 106 del d. lgs.vo 385/1993 (Testo Unico Bancario) svolgessero attività nei confronti del pubblico. Osserva in generale che anche le holding come quella in questione, attraverso le correlazioni con le società che coordinano, possono di fatto incidere sui comportamenti adottati nei mercati finanziari, rientrando quindi nella ratio della norma.
Specificamente rileva che:
– la contribuente partecipava al 100% al capitale di L.L. s.r.l., che si occupava di leasing finanziario;
– l’art. 106 del d.lgs. 385/1993 (T.U.B.), nella formulazione vigente all’epoca di entrata in vigore del decreto legge, includeva nel settore finanziario anche i soggetti che esercitavano nei confronti del pubblico l’attività di “assunzione di partecipazioni”;
– in base all’art. 155 del t.u.b. nel settore finanziario sono compresi anche i CONFIDI, che operano in via prevalente nei confronti delle imprese consorziate o socie;
– l’art. 1 del d.lgs. 87/1992, nella formulazione all’epoca vigente, riteneva attività finanziaria l’assunzione di partecipazioni al fine di successivi smobilizzi;
– la sentenza della Corte Costituzionale n. 201/2014, contrariamente all’assunto della Commissione Tributaria Regionale, non aveva avvalorato l’esclusione delle holding industriali dal perimetro del settore finanziario, in quanto aveva individuato i soggetti passivi dell’addizionale in coloro che in ragione del tasso di professionalità, dell’autonomia operativa, del potere decisionale di cui godono e dell’aspirazione a maggiori guadagni personali … sono in grado di porre in essere attività speculative suscettibili di pregiudicare la stabilità finanziaria.
2. La questione devoluta alla Corte concerne l’individuazione del “settore finanziario” all’interno del quale operano dirigenti e titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, che sono i soggetti passivi dell’imposta addizionale del 10% introdotta dal d.l. 78/2010. In particolare, la questione riguarda la correttezza del criterio discretivo individuato dalla Commissione Tributaria Regionale nella destinazione dell’attività finanziaria “nei confronti del pubblico” o “non nei confronti del pubblico”, sulla falsariga delle disposizioni del T.U.B. che poneva “status” diversi fra gli operatori dell’uno o dell’altro settore.
L’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella formulazione prò tempore vigente, prevedeva che:
“1. In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici potenzialmente distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock options, sui compensi a questo titolo, che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione, attribuiti ai dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti nel settore finanziario nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore è applicata una aliquota addizionale del 10 per cento.
2. L’addizionale è trattenuta dal sostituto d’imposta al momento di erogazione dei suddetti emolumenti e, per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, è disciplinata dalle ordinarie disposizioni in materia di imposte sul reddito”.
Il riferimento che la norma fa alle “decisioni assunte in sede di G20 e” agli “effetti economici potenzialmente distorsivi proprie delle forme operate sotto forma di bonus e stock options” è da intendersi collegato specificamente alla risoluzione del 24 aprile 2009 (,http://www.europarl.europa.eu/sides/qetDoc.do?PubRef=- //EP//TEXT+TA+P6-TA-2009-0330+0 + DQC+XML+V0//m, dove si legge che il Parlamento Europeo (punto 15): “accoglie con favore la decisione del G20 di promuovere l’integrità e la trasparenza nei mercati finanziari e una maggiore responsabilità degli attori finanziari; plaude alla promessa del G20 di riformare i sistemi di rimunerazione in modo più sostenibile come parte della revisione normativa in campo finanziario e ribadisce l’importanza di legare gli incentivi a prestazioni a lungo termine, evitando incentivi che inducono all’irresponsabilità e garantendo l’applicazione a livello settoriale dei nuovi principi al fine di assicurare condizioni di concorrenza uniformi; intende restare estremamente vigile sull’effettiva applicazione dei principi relativi ai pagamenti e alle rimunerazioni negli istituti finanziari e chiede che siano adottate misure più severe in questo campo”.
La Corte Costituzionale – chiamata a risolvere il dubbio di costituzionalità sollevato da alcune Commissioni tributarie con riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione – è intervenuta con la sentenza n. 201 del 2014, dove ha confermato che lo scopo dell’intervento normativo è stato quello di disincentivare forme di remunerazioni variabili, legate più a logiche speculative di breve periodo che all’effettiva produttività, e come tali capaci – a differenze che in altri settori – di pregiudicare la stabilità finanziaria.
La sentenza impugnata, sulla base di questa ratio, ha escluso dall’ambito di applicazione della norma le c.d. holding industriali – nelle quali ha inserito la controricorrente – ritenendo di individuare il settore finanziario, al quale la norma è testualmente riferita, in quello nel quale l’attività è “rivolta al pubblico” – così come testualmente previsto dall’art. 106 e dalla rubrica dell’art. 155 del d.lgs. 385/1993 (Testo Unico Bancario) – e perciò soggetta ad autorizzazione e controllo del Ministro del Tesoro, della Banca d’Italia e della CONSOB.
3. La ricorrente, rilevando che la norma non individua una specifica categoria di soggetti, ma un settore all’interno del quale si possano verificare i temuti effetti distorsivi, sostiene che anche “le holding quale quella in questione, attraverso le correlazioni con le società che coordinano, possano di fatto incidere sui comportamenti adottati nei mercati finanziari, rientrando quindi nella ratio della norma”. E ricorda, innanzi tutto, che la L.G. ha partecipazioni in varie società, fra cui anche il 100% della L.L. S.r.l., che si occupa di leasing finanziario.
A questo argomento la C.T.R. ha condivisibilmente obbiettato che il problema non è tanto stabilire se e in che misura la società controllante possa incidere sul mercato dove sono collocate le azioni della controllata – cosa peraltro scontata – quanto stabilire se e quando un’attività finanziaria svolta all’interno di un gruppo valga da sé sola a collocare la relativa holding (e i suoi dirigenti) nel “settore finanziario”. In questo caso, il fatto che L.G. s.p.a. detenesse la totalità delle quote di L.L. s.r.l. non consente l’illazione che i suoi dirigenti (non quelli di L.L. s.r.l.) operassero “nel settore finanziario”: intanto occorre ben distinguere fra posizione di controllo e amministrazione di fatto e, ai fini specifici dell’individuazione dei destinatari della norma fiscale in esame, fra amministratori e meri dirigenti, i quali ultimi in nessun caso esercitano influenza sulla gestione della controllata; in secondo luogo, normalmente, nei casi in cui la situazione di controllo genera, in capo alla controllante, specifici riflessi giuridici, derivanti dalla natura dell’attività della controllata, questi non vanno oltre i requisiti di onorabilità, competenza e correttezza e agli obblighi di informazione agli organismi di sorveglianza (artt. 25, 52 bis e ter – per la disciplina attuale – del T.U.B.; artt. 14 e 34 D.Lgs. 58/1998 – T.U.F.); artt. 14 e 77 del D.Lgs. 209/2005 – Codice delle assicurazioni private).
4. Sostiene ancora l’Agenzia che l’art. 106 del T.U.B., nella formulazione vigente al momento dell’entrata in vigore del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (31 maggio 2010) nell’individuare le attività riservate agli intermediari finanziari, prevedeva fra l’altro, al comma 1, l’attività nei confronti del pubblico di “assunzione di partecipazioni”; ma che l’esercizio dell’attività potesse svolgersi anche non “esclusivamente” nei confronti del pubblico trovava conferma nell’inclusione – fra i soggetti operanti nel settore finanziario – dei CONFIDI (art. 155 dello stesso Testo Unico Bancario), che operano in via prevalente nei confronti delle imprese consorziate o socie.
Neppure questo rilievo è convincente.
L’art. 155, comma 4, del TUB, letto interamente, non porta infatti alle conclusioni cui perviene l’Agenzia. Esso così recitava:
“I consorzi di garanzia collettiva fidi, di primo e di secondo grado, anche costituiti sotto forma di società cooperativa o consortile, previsti dagli articoli 29 e 30 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, sono iscritti in un’apposita sezione dell’elenco previsto dall’art. 106 del presente decreto legislativo; essi non sono sottoposti alle disposizioni del titolo V del presente decreto legislativo e del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197. L’iscrizione nella sezione non abilita a effettuare operazioni riservate agli intermediari finanziari”.
Se ne deduce che detti consorzi erano iscritti in una sezione speciale dell’elenco generale dal Ministero; che detta iscrizione non li abilitava a svolgere l’attività riservata agli intermediari finanziari; che non erano sottoposti alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario (artt. 106 e segg. TUB), in essa compresa anche quella prevista per i soggetti che svolgevano attività finanziaria non nei confronti del pubblico (art. 113); e neppure alla normativa antiriciclaggio: si trattava quindi di soggetti che, pur svolgendo attività di finanziamento creditizia non rivolta al pubblico, la svolgevano nei confronti di soggetti qualificati (per lo più operatori commerciali) e limitatamente ad una ristretta tipologia di operazioni: attività che per un verso li teneva ben distinti – come la norma aveva inteso precisare – dagli intermediari finanziari; e che per un altro verso, costituendo un supporto indispensabile per gli operatori economici, esigeva trasparenza e controlli, ancorché meno penetranti di quelli previsti per gli attori del settore finanziario rivolto al pubblico.
Contrariamente all’assunto della ricorrente, quindi, l’essenzialità del settore finanziario, come disciplinato dal TUB e richiamato dalla norma tributaria in esame, restava costituita da un’attività rivolta al pubblico, a nulla rilevando la marginale disciplina dei COFIDI, che anzi la confermava.
5. Con il richiamo all’art. 1 del d.lgs 27 gennaio 1992, n. 87 (Attuazione della direttiva n. 86/635/CEE relativa ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari, e della direttiva n. 89/117/CEE relativa agli obblighi in materia di pubblicità dei documenti contabili delle succursali, stabilite in uno Stato membro, di enti creditizi ed istituti finanziari con sede sociale fuori di tale Stato membro) la ricorrente ribadisce l’equiparazione fra partecipazione societaria e attività finanziaria, dimostrata dall’art. 1, comma 3, dove si statuiva che “ai fini del presente decreto la detenzione o la gestione di partecipazioni è considerata attività finanziaria soltanto se riguarda partecipazioni in enti creditizi o in imprese finanziarie; è altresì considerata attività finanziaria l’assunzione di partecipazioni al fine di successivi smobilizzi”.
Questo rilievo è inconferente.
Intanto, la partecipazione societaria resta tale sia che punti al controllo o al collegamento fra società, sia che formi oggetto di trading nel mercato mobiliare. Ma all’interno di un gruppo societario le partecipazioni fra le varie società e fra queste e la capogruppo sono tendenzialmente stabili, perché sono funzionali all’esercizio di un’impresa che sul piano economico è unica. Non così per le partecipazioni nel mercato mobiliare: l’art. 2424 cod. civ., che determina il contenuto dello stato patrimoniale nel bilancio, prende atto di questa diversità, stabilendo per le partecipazioni stabili la loro collocazione nell’attivo fra le immobilizzazioni finanziarie; per le altre la collocazione all’attivo nel capitale circolante.
Il fatto quindi che il d.lgs. 87/92 includesse nell’attività finanziaria il trading di partecipazioni non dà alcun sostegno alla tesi secondo cui L.G. s.p.a. fosse una società finanziaria in ragione della sua partecipazione in L.L. s.r.l.; conferma invece la necessità che all’interno dell’ampia nozione di attività finanziaria si distingua fra le sue varie e differenti articolazioni.
6. In ogni caso, la nozione di “settore finanziario” contenuta nel testo originario dell’art. 106 del TUB, già a partire dal 19 settembre 2010 era stata modificata dall’art. 10 del d. lgs. 13 agosto 2010, n. 141, dal quale scompariva il riferimento all’attività di assunzione di partecipazioni. Non avendo l’art. 33 richiamato esplicitamente l’art. 106, deve escludersi ogni ipotesi di rinvio recettizio alla norma del TUB ancora vigente. Sicché, se da un lato non può dedursi il concetto di settore finanziario dalla formulazione dell’art. 106 introdotta dal d. lgs. 141, tanto meno sarebbe ammissibile la cristallizzazione della nozione asseritamente portata dal testo originario anche in epoca successiva alla sua modifica.
Vale qui la puntuale osservazione della controricorrente, che nel richiamare il meccanismo di calcolo della retribuzione variabile sulla quale si applica l’addizionale norma dell’art. 33 del d.l. 78/2010 e la natura stessa dell’imposta addizionale, ha eccepito sia l’impossibilità di una trattenuta frazionata sulla retribuzione operata dal sostituto d’imposta – dovendosi comunque attendere la fine dell’esercizio per il calcolo della base imponibile, costituita dal triplo di quanto corrisposto in via continuativa e fissa – sia l’inapplicabilità dell’addizionale all’anno 2010 per il principio di irretroattività posto dall’art. 3, comma 1, della legge 212/2000 (“Statuto del contribuente”) per i tributi periodici. Eccezioni che appaiono entrambe fondate e la seconda altresì confortata da costante giurisprudenza che richiede, per il superamento del principio di irretroattività, l’espressa deroga del legislatore (Cass., 26.6.2018, n.16227; Cass., 28.2.2014, n. 4815).
Il ricorso va quindi rigettato.
La specificità della questione induce alla compensazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa interamente fra le parti le spese del giudizio.
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