CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 dicembre 2018, n. 32996
Tributi – Accertamento – Registrazione fatture – Operazioni soggettivamente inesistenti
Rilevato che
1. l’Agenzia delle Entrate ricorre con tre motivi contro Z.G. per la cassazione della sentenza n. 171/63/2012 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, depositata il 29/8/2012 e non notificata, che, in controversia relativa all’impugnativa dell’avviso di accertamento per maggiori Irpef, Irap ed Iva per l’anno di imposta 2003 e 2004, ha accolto l’appello del contribuente, riformando la sentenza della C.T.P. di Brescia che lo aveva rigettato;
2. con la sentenza impugnata, per quanto di interesse, la C.T.R. della Lombardia, sul presupposto che l’avviso di accertamento avesse ad oggetto operazioni soggettivamente inesistenti, riteneva “dirimente in materia la disposizione dell’art. 8, commi 1 e 2, d.l. n. 16/2012, in forza del quale l’indeducibilità viene limitata al caso di costi dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo (e solo a condizione che il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio)”;
secondo la C.T.R. la contestazione della falsità ideologica delle fatture non rappresenta più elemento idoneo a renderle indeducibili, per cui nel caso di specie, in cui non era contestata con l’avviso di accertamento l’inerenza dei costi, le fatture dovevano ritenersi deducibili;
3. a seguito del ricorso, il contribuente resiste con controricorso;
4. il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 28 novembre 2018, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n. 168, conv. in legge 25 ottobre 2016, n. 197;
Considerato che
1.1. con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 8 D.L. n. 16/2012 e 19 d.P.R. n. 633/72, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.;
secondo la ricorrente la C.T.R. erroneamente avrebbe ritenuto applicabile l’art. 8 citato all’indebita detrazione dell’Iva, poiché il suddetto articolo sarebbe riferibile solo alle imposte dirette;
con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 8 D.L. n. 16/2012, 109 T.u.i.r. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.;
la ricorrente deduce che il giudice, nel ritenere deducibili, ai sensi dell’art. 8 d.l. n. 16/2012, i costi portati dalle fatture, avrebbe omesso di valutare la loro deducibilità alla luce dei requisiti dell’inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ritenendo erroneamente che “in sede di avviso di accertamento non risulta contestata l’inerenza dei costi in discussione ex art. 109 d.P.R. n. 917/86 e nulla osta pertanto al loro riconoscimento, dato che una loro contestazione in sede giudiziale risulterebbe tardiva”;
con il terzo motivo, la ricorrente denunzia l’insufficiente motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., laddove la sentenza impugnata omette di motivare in ordine alle ragioni per le quali ritiene irrilevanti la effettività, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei costi portati in deduzione, ritenendo che la sola inerenza possa essere fonte del diritto alla detrazione;
1.2. il primo motivo è fondato;
1.3. invero, il comma 1 dell’articolo 8 del decreto citato introduce una nuova previsione che sostituisce, restringendone l’ambito di applicazione, la formulazione del previgente comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 537/1993;
il nuovo testo circoscrive l’indeducibilità dei costi ai soli componenti negativi relativi ai beni o alle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di fattispecie penalmente rilevanti aventi natura delittuosa non colposa;
inoltre, in base alla nuova formulazione della norma è necessario che, in relazione alla fattispecie delittuosa non colposa cui il costo è direttamente connesso, sia stata formalmente esercitata l’azione penale ovvero il giudice abbia, comunque, emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 codice di procedura penale;
la norma dell’art. 14, comma 4 bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1 del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, trova evidentemente applicazione in tema di imposte sui redditi, stabilendo che non sono deducibili i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo;
ai fini dell’Iva rimangono, invece, ferme le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto;
in particolare, “in materia di detrazione IVA, liquidata nella fattura passiva emessa dal cedente e versata in rivalsa dal cessionario, qualora sia contestata la inesistenza soggettiva dell’operazione, grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche in via presuntiva, ex art. 2727 cod. civ., la interposizione fittizia del cedente ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione, eventualmente da altri soggetti, nonché la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa; spetta, invece, al contribuente che intende esercitare il diritto alla detrazione o al rimborso, provare la corrispondenza anche soggettiva della operazione di cui alla fattura con quella in concreto realizzata ovvero l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale, ingenerato dalla condotta del cedente” (Sez. 5, Sentenza n. 13803 del 18/06/2014);
nel caso in esame il giudice di appello ha ritenuto che fosse dirimente la norma di cui all’art. 8 d.l. n. 16/2012, senza distinguere tra la deducibilità dei costi ai fini delle imposte dirette e la detraibilità dell’Iva in relazione alle fatture relative alle operazioni, che il giudice ha qualificato soggettivamente inesistenti;
la sentenza impugnata, quindi, è incorsa nella lamentata violazione di legge e va cassata, con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, che, alla luce dei principi sopra esposti, valuterà se l’interposizione fittizia del cedente ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione, eventualmente da altri soggetti, era conoscibile da parte del cessionario della frode commessa e se il contribuente, che intende esercitare il diritto alla detrazione o al rimborso, abbia provato la corrispondenza anche soggettiva della operazione di cui alla fattura con quella in concreto realizzata;
2.1. il secondo motivo è, invece, infondato;
2.2. come è stato detto, “in tema di imposte sui redditi, la partecipazione alla frode carosello o la mera consapevolezza della stessa, da parte del cessionario, non determina “ex se” il venire meno dell’ “inerenza” all’attività d’impresa del bene di cui all’operazione soggettivamente inesistente e non ne esclude, pertanto, la deducibilità, dovendosi tenere distinti gli effetti della condotta del contribuente in relazione alla disciplina dell’IVA e a quella delle imposte dirette, atteso che, nel primo caso, la condotta dolosa o consapevole del cessionario, a cui è parificata l’ignoranza colpevole, impedisce l’insorgenza del diritto alla detrazione per mancato perfezionamento dello scambio, non essendo l’apparente cedente l’effettivo fornitore, mentre, ai fini delle imposte dirette, l’illecito o la mera consapevolezza di esso non incide sulla realtà dell’operazione economica e sul pagamento del corrispettivo in cambio della consegna della merce, per cui il costo dell’operazione, ove imputato al conto economico, può concorrere nella determinazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette nella misura in cui il bene o servizio acquistato venga reimpiegato nell’esercizio dell’attività d’impresa e sempre che non venga utilizzato per il compimento di un delitto non colposo (Sez. 5, Sentenza n. 13803 del 18/06/2014; Sez. 5, Sentenza n. 16719 del 09/08/2016);
nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate con l’avviso di accertamento non ha contestato l’inerenza, né la certezza e la competenza dei costi in discussione, per cui correttamente il giudice di appello ha ritenuto che un’eventuale contestazione in sede giudiziaria sarebbe stata tardiva, sul presupposto che la mancanza di inerenza degli stessi non potesse presumersi “ex se” dal carattere soggettivamente inesistente dell’operazione;
non vi è quindi, alcuna violazione di legge riscontrabile nella decisione adottata;
3.1. il terzo motivo, infine, è inammissibile, perché a seguito del rigetto del secondo, la ricorrente non ha alcun interesse ad una pronuncia sul punto (riguardante l’omessa motivazione in ordine ai requisiti diversi da quello dell’inerenza);
3.2. in conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, rigettati gli altri, la sentenza impugnata, deve essere cassata, con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, per nuovo esame ed anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, rigettato il secondo e dichiarato inammissibile il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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