CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 dicembre 2021, n. 40733
Tributi – Sentenza contenente l’ordine di riliquidazione delle somme accertate – Cartella di pagamento – Assenza del dettaglio dei calcoli per la quantificazione del dovuto – Vizio di motivazione – Nullità
Rilevato che
1. L’Agenzia delle Entrate propose appello avverso la sentenza della C.T.P. di Napoli n. 5431/9/2016 con la quale era stato accolto il ricorso di F. P., socio della F. di F. P. & C. s.a.s., avverso la cartella di pagamento, per l’anno 2005 emessa in esito al passaggio in giudicato della sentenza della C.T.R. della Campania n. 208/32/2012, con la quale era stato dichiarato inammissibile il gravame avverso la sentenza della C.T.P. n. 417/30/2010 che, richiamando la sentenza pronunciata nei confronti della società, che aveva accertato un ricarico sul venduto del 15 per cento, aveva parzialmente accolto il ricorso proposto dal socio avverso l’avviso di accertamento notificatogli ai sensi dell’art. 5 del T.U.I.R., «mandando all’Ufficio di rideterminare il reddito sulla base della decisione assunta…nei confronti della società».
2. La Commissione tributaria regionale respinse l’appello.
Rilevò che mentre, in linea di principio, il riferimento al titolo giudiziale poteva soddisfare l’onere motivazionale nei casi in cui la sentenza contenesse già in sé i parametri di calcolo ed i conteggi compiutamente sviluppati in base agli stessi, nel caso di specie la sentenza richiamata, limitandosi a dichiarare l’inammissibilità dell’appello, era una mera pronuncia in rito nella quale non erano riscontrabili i suddetti requisiti. Infatti, la C.T.P., con la sentenza n. 417/30/2010, passata in giudicato, aveva ordinato all’Ufficio di procedere separatamente alla rideterminazione del reddito di partecipazione in applicazione del parametro indicato con riguardo al reddito societario, ma l’Agenzia delle entrate aveva effettuato detta rideterminazione con la cartella esattoriale impugnata, dalla quale non era tuttavia possibile evincere la corretta applicazione della prescrizione giudiziale e, di conseguenza, l’esattezza del calcolo effettuato anche con riferimento a sanzioni ed interessi.
3. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della suddetta decisione d’appello, con tre motivi.
Il contribuente resiste mediante controricorso, ulteriormente illustrato con memoria ex art. 380-bis.1. cod. proc. civ..
4. Con istanza del 17 dicembre 2020 l’Agenzia delle entrate, facendo presente che è intervenuto provvedimento di diniego del condono ex art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, non impugnato dal contribuente, ha chiesto la fissazione dell’udienza di discussione.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso la difesa erariale denuncia la violazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., lamentando che la C.T.R. avrebbe trascurato che, sebbene la sentenza di secondo grado n. 208/32/12, richiamata dalla cartella, si limita a dichiarare l’inammissibilità dell’appello, il relativo giudicato investe la motivazione della sottostante sentenza di primo grado, che risulta definitivamente confermata, come pure risulta confermato il contenuto dell’accertamento societario entro i limiti accertati. Secondo la ricorrente, pertanto, non risponde al vero che il richiamo al giudicato della sentenza della C.T.R. n. 208/32/12 non è da solo sufficiente ad indicare i parametri di calcolo delle somme dovute, considerato che l’avviso di accertamento contiene un chiaro prospetto di calcolo del maggior reddito in origine accertato, agevolmente rideterminabile in base alla pronuncia di primo grado, mentre le sanzioni sono state fissate nel minimo edittale, con il più favorevole cumulo materiale, e gli interessi sono stabiliti per legge.
2. Con il secondo motivo, censurando la decisione gravata per violazione dell’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973 (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la ricorrente sostiene che in ogni caso la statuizione con cui la C.T.R. ritiene la cartella immotivata, perché non indicante il dettaglio dei calcoli per la quantificazione del dovuto, non è condivisibile perché non vi è norma che imponga tale indicazione e ciò indipendentemente dai contenuti della sentenza fondante l’iscrizione a ruolo e del relativo giudicato.
Rileva, al riguardo, che la cartella di pagamento è un atto meramente liquidatorio, dalle esigenze motivazionali nettamente inferiori rispetto a quelle dell’avviso di accertamento e dal contenuto vincolato, fissato dal citato art. 25, nonché dal decreto ministeriale che ne stabilisce il modello, per cui la cartella di pagamento redatta in conformità a tale modello contiene tutto quanto il legislatore ha ritenuto fosse indispensabile inserirvi. Nella specie, soggiunge la ricorrente, la cartella impugnata indica correttamente tutti gli elementi, primo fra tutti il «titolo», ossia la sentenza della C.T.R. n. 208/32/12, diventata definitiva, in tal modo soddisfacendo le esigenze motivazionali previste dalla legge, non sussistendo la necessità di esporre specifici conteggi per comprendere la pretesa posta in riscossione.
3. Con il terzo motivo, deducendo la violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, del d.lgs. n. 546 del 1992 (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.), l’Agenzia delle entrate lamenta che la motivazione della sentenza è meramente apparente là dove afferma che dalla cartella «non si evince la corretta applicazione della prescrizione giudiziale», trattandosi di affermazione non confacente al caso in esame, in cui era sufficiente applicare all’accertamento i dati dichiarati e i soli ricavi accertati – come rideterminati in giudizio – per ottenere i risultati della cartella.
4. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi, vanno respinti.
4.1. Questa Corte, già con la sentenza n. 8651 del 9 aprile 2009, ha affermato, con riferimento alla cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato, che il fatto che si tratti di iscrizione a ruolo di somme a seguito di sentenza passata in giudicato non significa che per ciò solo il contribuente sia stato messo in grado di verificare la correttezza del calcolo dell’importo di cui si intima il pagamento.
4.2. Più esattamente, con la successiva sentenza n. 28276 del 18 dicembre 2013, resa in fattispecie analoga a quella in esame, questa Sezione ha censurato, per difetto di motivazione, la cartella di pagamento – scaturita da sentenza d’appello divenuta definitiva che confermava la sentenza di primo grado con la quale si ordinava all’ufficio impositore di riliquidare l’imposta, previa detrazione dei costi contabilizzati e dell’imposta versata e previa verifica delle operazioni non imponibili – rilevando che essa non conteneva le informazioni necessarie e sufficienti per consentire al contribuente la verifica dell’applicazione dei criteri di riliquidazione dell’imposta indicati nella sentenza passata in giudicato (in conformità anche a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 11722 del 14 maggio 2010, secondo cui la cartella di pagamento che non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente, ma costituisca il primo ed unico atto con il quale l’ente impositore esercita la pretesa tributaria, deve essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo e contenere, quindi, gli elementi indispensabili per porre il contribuente nella condizione di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell’imposizione).
4.3. E’ stato, peraltro, chiarito che a tale conclusione non osta il principio, pure enunciato da questa Corte (Cass., sez. 5, 31/01/2013, n. 2373), secondo cui il difetto di motivazione della cartella di pagamento non può condurre alla dichiarazione di nullità qualora la cartella sia stata impugnata dal contribuente, il quale abbia dimostrato, in tal modo, di avere piena conoscenza dei presupposti dell’imposizione, per averli puntualmente contestati. E ciò in quanto tale ipotesi si riferisce al caso in cui la cartella faccia rinvio ad altro atto costituente il presupposto dell’imposizione, situazione questa non configurabile nel caso di sentenza passata in giudicato che si limita a stabilire i criteri di liquidazione dell’imposta, senza tuttavia esplicitarli in modo specifico.
4.4. Reputa questo Collegio di dover dare continuità, nella fattispecie in esame, all’indirizzo espresso da Cass. n. 28276 del 2013, posto che, qualora la cartella di pagamento scaturisca da sentenza passata in giudicato che ridetermina il carico fiscale, trova giustificazione un particolare onere motivazionale.
La cartella esattoriale oggetto di impugnazione richiama la sentenza della C.T.R. della Campania n. 208/32/12, ormai divenuta definitiva, che ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello, ma tale sentenza non contiene in sé i criteri di calcolo necessari per la rideterminazione dell’imposta, degli interessi e delle sanzioni di cui si chiede il pagamento con l’atto impugnato. Infatti, l’accertamento dal quale trae origine la cartella esattoriale è stato annullato dalla sentenza della C.T.P. di Napoli n. 417/30/2010 che, accogliendo il ricorso, ha rimesso all’Ufficio finanziario la rideterminazione del reddito di partecipazione, sulla base della decisione, assunta nei confronti della società, che aveva ridotto la percentuale di ricarico applicabile sul venduto dal 46 per cento, prevista nell’originario avviso di accertamento, al 15 per cento.
Rettamente, pertanto, i giudici di appello hanno rilevato che il riferimento, contenuto nella cartella esattoriale, alla sentenza n. 208/32/12 non assolve all’onere motivazionale al cui rispetto è tenuta l’Amministrazione finanziaria, perché dalla stessa non è possibile evincere i criteri di calcolo utilizzati per la rideterminazione del reddito di partecipazione e per la quantificazione di interessi e sanzioni, sicché è impossibile per il contribuente verificare la correttezza del calcolo con il quale si è addivenuti all’importo totale riportato nella cartella (in senso conforme, Cass., sez. 6-5, 22/06/2017, n. 15554 e Cass., sez. 5, 21/03/2012, n. 4516, che hanno affermato il principio secondo cui la cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato deve essere motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev’essere messo in grado di valutare la correttezza del calcolo degli interessi stessi).
5. Alla stregua delle considerazioni svolte deve pure escludersi il difetto di motivazione dedotto con il terzo mezzo di ricorso, considerato che il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito illustra le ragioni del decisum e rende intellegibile l’iter logico eseguito per addivenire al rigetto dell’appello.
6. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Quanto alla regolazione dell’obbligo del pagamento del doppio del contributo unificato, va fatta applicazione – nei confronti dell’Agenzia delle entrate – del principio secondo cui, nei casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso (Cass., sez. 5, 15/05/2015, n. 9974; Cass., sez. U, 25/11/2013, n. 26280).
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge.
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