CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 giugno 2019, n. 16595
Risarcimento del danno professionale – Demansionamento – Risarcimento del danno biologico ed alla reputazione
Rilevato che
Il Tribunale di Roma, con sentenza 18/12/2008, accoglieva in parte le domande proposte da F.A. nei confronti di T.I. s.p.a. e condannava detta società al risarcimento del danno professionale liquidato in una somma pari al 50% della retribuzione percepita dal ricorrente, dal 16/7/1997 (epoca del demansionamento dal ruolo di dirigente a quello di addetto alla linea di supporto), fino all’estinzione del rapporto di lavoro (12/9/2015).
Tale pronuncia, con sentenza resa pubblica in data 2/9/2014, veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che – per quanto qui rileva – riduceva l’ammontare del risarcimento del danno patrimoniale da demansionamento nella misura del 30% delle retribuzioni maturate nel periodo controverso, condannando altresì la società datoriale al risarcimento del danno biologico ed alla reputazione, che liquidava in via equitativa, nella misura di euro 20.248,50.
La cassazione di tale decisione è domandata da F.A. sulla base di unico motivo, cui resiste con controricorso la parte intimata.
Considerato che
1. Con unico motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art.1226 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c. nonché omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti.
Si duole che la Corte di merito in sede di liquidazione del danno patrimoniale, abbia tenuto conto esclusivamente del danno alla professionalità, trascurando le ulteriori specifiche voci rivendicate (quali i mancati incrementi retributivi, la perdita di benefit). Nel procedere a tale nuova quantificazione del pregiudizio risentito, nella ridotta misura del 30%, il giudice del gravame aveva fatto riferimento alla prassi in uso presso la giurisprudenza capitolina di merito; non aveva tuttavia indicato, come doveroso, le ragioni per le quali il criterio adottato fosse stato ritenuto come il più adeguato a quantificare, in rapporto alla fattispecie concreta, l’ammontare del danno.
Il ricorrente si cura inoltre di evidenziare i profili di incongruità che connotano la decisione impugnata laddove ha ritenuto di non disporre di indicazioni più specifiche per discostarsi da un criterio di liquidazione che ha indicato come adeguato per un danno medio, così ponendosi in contraddizione rispetto alle precedenti statuizioni della medesima pronuncia, con le quali era stata correttamente qualificata in termini di assoluta gravità, la dequalificazione professionale subita.
2. Il motivo è fondato.
Un ordinato iter motivazionale induce a fare sintetico richiamo ai principi invalsi nella giurisprudenza di legittimità sulla delibata materia del risarcimento del danno derivante da dequalificazione professionale per violazione dell’art. 2103 c.c..
La disposizione, al comma 1, prevede che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto … ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”.
Si tratta di protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile (vedi Cass. 10.12.2009 n. 25897, Cass.12.6.2015 n. 12253), rispetto alla quale dell’art. 2103 c.c., comma 2, sancisce la nullità di ogni patto contrario.
La norma è violata, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori.
In siffatto ambito, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (fra le altre v. Cass. 10.6.2004 n. 11045). Invero la violazione dell’art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro (vedi in motivazione., Cass. cit.n.12253/2015).
3. Con riferimento al tema della prova e della liquidazione del danno professionale, deve rammentarsi che questa Corte, in base ad orientamento privo di contrasti al quale si intende dare continuità, ha affermato il principio in base al quale il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (vedi ex plurimis, Cass. 26.2.2009 n. 4652, Cass. 19.9.2014 n.19778).
Sempre avuto riguardo alla questione probatoria, si è avuto modo di rimarcare come i danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorra automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma possa essere provato dal lavoratore anche mediante il meccanismo presuntivo, secondo i dettami dell’art.2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi gravi, precisi e concordanti (vedi da ultimo, Cass. 3.1.2019 n.21).
In definitiva, una volta adempiuto l’onere di allegazione da parte del lavoratore – qui non in discussione – preludio alla formazione della prova anche in via di presunzione, per quanto sinora detto, compete al giudicante di procedere alla quantificazione del danno, anche in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c..
I criteri di valutazione equitativa la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità dei giudici devono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (Cass. cit. n.12253/2015), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.
In tale prospettiva, si è infatti sottolineato come la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato in motivazione, a rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento (argomenta da Cass. 13.9.2018 n. 22272). Al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario quindi che il giudicante indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità dei danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine ai “quantum” (cfr. Cass. 31.1.2018 n.2327).
4. Orbene, nello specifico, la Corte di merito non si è attenuta agli enunciati principi laddove, procedendo alla rinnovata liquidazione del danno alla professionalità risentito dal lavoratore – già liquidato in prime cure nella misura del 50% con valutazione ritenuta apodittica dai giudici del gravame – ha tout court provveduto a ridurlo nella misura del 30%, richiamandosi semplicemente alla prassi invalsa presso il distretto territoriale, senza procedere ad una enunciazione più specifica dei criteri applicati né all’adeguamento della liquidazione alle particolarità del caso concreto.
Nell’ottica descritta non appare congrua la disposta non trascurabile diminuzione del risarcimento del danno patrimoniale liquidato in favore del lavoratore rispetto e quello definito dal giudice di prima istanza, perché non sorretta da una struttura motivazionale idonea a rendere ragione della riforma della impugnata decisione, non potendo questa essere ricondotta validamente alla richiamata “prassi in uso presso la giurisprudenza capitolina”.
Mentre ha seguito un corretto iter motivazionale con riferimento alla liquidazione del danno cd. non patrimoniale (danno alla reputazione e danno biologico), la Corte distrettuale ha omesso di procedere ad una altrettanto argomentata determinazione del danno patrimoniale, sia pur sommaria, nell’ambito dei ristretti limiti imposti da una liquidazione di tipo equitativo, non potendo il richiamo alla mera prassi adottata in sede distrettuale, soddisfare il requisito di esistenza effettiva della motivazione.
In tal senso si sostanzia una violazione dei canoni sanciti dall’art.1226 c.c. come definiti alla luce dei principi summenzionati, e nel contempo, la ipotesi di mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale” di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile” (Cass. s.u. 7.4.2014, n. 8053; Cass. 12.10.2017, n. 23940) ravvisabile nei casi in cui la motivazione risulti inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, tramutandosi in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé.
Per concludere, al lume delle superori argomentazioni ed in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata.
Ai sensi dell’art. 384 c.p.c. la controversia va rimessa ad un diverso giudice designato in dispositivo che procederà ad un nuovo esame della controversia facendo applicazione dei principi innanzi enunciati.
Al giudice di rinvio va demandata anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese dei presente giudizio di legittimità.
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