CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2018, n. 19410
Tributi – IRPEF – Soggettività passiva – Requisito della residenza – Contribuente residente nel Principato di Monaco – Presunzione di residenza in Italia – Prova contraria – Caratteristiche e condizioni – Valutazione del giudice
Rilevato che
Par. 1. D.S. propone tre motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 7 del 10 marzo 2011, con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Liguria, a conferma della prima decisione, ha ritenuto fondato l’avviso di accertamento notificatogli dall’Agenzia delle Entrate per ulteriore reddito imponibile ai fini Irpef anno 2000 (compensi Federazione Italiana Tennis non dichiarati per lire 508.813.000).
La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, ha ritenuto che: – correttamente l’amministrazione finanziaria avesse affermato, ex art. 2 co. 2° T.U.I.R., la soggettività fiscale in Italia del S., non risultando che questi risiedesse in effetti, nell’anno di riferimento, in Montecarlo, dove si era solo anagraficamente trasferito il 4 novembre 1998; – legittimamente l’amministrazione finanziaria avesse disconosciuto gli effetti della scrittura privata 30 giugno 1999, con la quale il S. aveva ceduto i diritti e proventi rinvenienti dalla sua attività di tennista professionista alla Indaco SA, società di San Marino facente capo, a conferma della identità di interessi tra i contraenti, al padre Diomede S..
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Par. 2.1. Con il primo motivo di ricorso il S. lamenta – ex art. 360, 1° co. n. 5 cod.proc.civ. – omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio, costituito dalla effettività della sua residenza, fin dal 1° novembre 1998, in Montecarlo. In particolare, per avere la commissione tributaria regionale fondato il proprio convincimento esclusivamente sul contratto di locazione in Montecarlo (Impasse La Fontain n. 6) avente effetto soltanto dal dicembre 2000; omettendo, per contro, di considerare ulteriori documenti decisivi, attestanti la sua reale residenza in Montecarlo da epoca antecedente (contratto di locazione con effetto dal 1° novembre 1998, in Boulevard de Suisse n. 20; ricevute di regolare versamento del canone di locazione 1999/2000; fatture di utenza elettrica per gli stessi anni; rilascio carta di credito, nel giugno ’99, da parte di un istituto monegasco).
Con il secondo motivo di ricorso il S. deduce – ex art.360, 1° co. n. 4 cod.proc.civ. – violazione dell’articolo 112 cod.proc.civ. Per avere la Commissione Tributaria Regionale omesso di pronunciarsi sul motivo di appello con il quale egli aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui si era basata sull’acritico recepimento della tesi dell’amministrazione finanziaria (prendendo a riferimento un contratto preliminare di locazione non registrato né sottoscritto, prodotto non nel presente ma in un diverso giudizio), e senza valutare documenti decisivi di segno opposto, perché attestanti la sua reale residenza in Montecarlo fin dal 1998 (tra i quali, oltre ai documenti già indicati: utenza televisiva; certificazione ATP degli allenamenti sostenuti in Montecarlo; biglietti di viaggi aerei 1999).
Par. 2.2. Questi due motivi di ricorso – suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle questioni giuridiche dedotte – sono fondati.
In base all’art. 2, co. 2°, T.U.I.R., “ai fini delie imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.
Il fatto controverso e decisivo per il giudizio consisteva, nella specie, nella individuazione del luogo di domicilio o residenza del S. nell’annualità di imposta 2000.
Su tale presupposto, era onere del contribuente superare la presunzione di residenza in Italia, ex art. 2 cit., fornendo la prova che, in tale annualità, il centro principale dei suoi affari ed interessi si collocasse effettivamente nel Principato di Monaco (Stato rientrante tra quelli a fiscalità privilegiata o ‘black list’, come individuati dal D.M. 4 maggio 1999), e non in Italia.
In altri termini, spettava al S. la dimostrazione di avere con il Principato di Monaco il più stretto collegamento nella abituale e preminente gestione dei propri interessi di vita ed economico-patrimoniali; secondo la nozione di domicilio o residenza desumibile dall’articolo 43 cod.civ..
Orbene, la Commissione Tributaria Regionale si è limitata ad affermare che l’operato dell’ufficio era legittimo ex art. 2, 2° co. T.U.I.R. cit., così come desumibile dalle “controdeduzioni all’appello e in relazione ai concetti di domicilio e residenza di cui all’articoio 43 cod.civ.”; senza tuttavia in alcun modo esplicitare – pur dopo aver dato atto, nell’esposizione dei fatti di causa, degli opposti elementi dimostrativi addotti dal contribuente – le ragioni di tale convincimento in rapporto alla fattispecie concreta.
In particolare, la Commissione Regionale ha tralasciato del tutto di prendere posizione su una serie – potenzialmente decisiva – di documenti che il S. aveva prodotto in giudizio proprio a riprova del fatto che le nozioni di domicilio e residenza di cui al codice civile dovevano, nella specie, indurre a collocare in Montecarlo, e non in Italia, il centro principale dei suoi interessi economici e personali.
Si trattava infatti di documenti (quelli su menzionati, riprodotti per autosufficienza nel ricorso per cassazione) con i quali egli intendeva, tra l’altro, dimostrare di: – risiedere realmente in Montecarlo non a partire dal 2001, ma fin dal novembre 1998, allorquando aveva colà locato un appartamento, corrispondendo regolarmente i fitti; – utilizzare effettivamente l’abitazione così locata, come risultante dal pagamento di varie utenze; – allenarsi presso le strutture ATP del Principato; – trovare abitualmente base in quest’ultimo (in partenza ed arrivo) nei viaggi che lo portavano in giro per il mondo nel normale espletamento della sua attività agonistica.
Sono gli stessi documenti che egli aveva richiamato – con uno specifico motivo di appello della cui formulazione anche la Commissione Tributaria Regionale dà conto, ma sul quale non si è pronunciata – altresì a smentita del convincimento del primo giudice; il quale si era asseritamente basato su un unico documento (contratto preliminare di locazione non registrato) prodotto in un diverso giudizio, e comunque superato dal contratto definitivo, regolarmente registrato.
Va poi considerato che la commissione tributaria regionale non indica neppure quali elementi – tra quelli dedotti dall’amministrazione finanziaria nelle “controdeduzioni all’appello e in relazione ai concetti di domicilio e residenza di cui all’articolo 43 cod.civ.” – abbia ritenuto dirimenti nel senso del mancato superamento della presunzione legale di residenza in Italia. Elementi che non vengono menzionati nemmeno nella parte dedicata allo svolgimento del giudizio, nella quale si dà atto, quanto a collegamento con la fattispecie concreta, della sola circostanza che “l’ufficio espone numerosi indizi che legano il contribuente al territorio nazionale”; senza tuttavia menzionarli, né soppesarne la tenuta dimostrativa in rapporto e bilanciamento con i documenti di segno contrario.
Non varrebbe obiettare, con l’amministrazione finanziaria controricorrente, che il presente ricorso sarebbe finanche inammissibile in quanto in realtà finalizzato ad ottenere, in sede di legittimità, un ulteriore vaglio di risvolti prettamente probatori e fattuali.
Va infatti considerato che la censura motivazionale in esame – ancora rispondente alla previgente definizione normativa di omessa o insufficiente motivazione ex art.360, 1° co. n. 5 cod.proc.civ.- mira a far emergere dei limiti intrinsechi alla motivazione contestata; sotto l’aspetto, come detto, della mancata considerazione di fondamentali elementi fattuali capaci di diversamente orientare il giudizio e, segnatamente, della mancata evidenziazione (all’esito di un controllo di globale interdipendenza probatoria) di ragioni idonee a sorreggere la decisione.
In altri termini, non si intende porre qui in dubbio il consolidato principio, secondo cui (da ultimo, Cass.ord.29404/17) “con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità”; e nemmeno la regola costantemente affermata (tra le ultime, Cass. ord. 19547/17), in base alla quale: “la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge”.
Quanto, piuttosto, evidenziare come il limite del sindacato di legittimità della valutazione operata dal giudice di merito debba trovare superamento – in presenza di motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria – allorquando (orientamento altrettanto pacifico perché innumerevoli volte affermato) “nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (Cass. ord.da ultimo cit.).
Il che si riscontra quando – come nel caso di specie – la valutazione del giudice di merito non conduca, per la sostanziale assenza di motivazione sul punto, ad esiti davvero controllabili nel processo logico-giuridico di loro formazione.
Si osserva, da ultimo, come analogo esito abbiano avuto i procedimenti relativi agli avvisi di accertamento Irpef per l’anno 1999 e per lo stesso anno qui dedotto (2000); così come emerge dalle sentenze emesse da questa corte di legittimità tra le medesime parti (Cass. 5388-5389/17).
Par. 3.1 Con il terzo motivo di ricorso il S. lamenta insufficiente motivazione, nonché violazione dell’articolo 2729 cod.civ. per avere la commissione tributaria regionale ritenuto legittima l’imputazione alla sua persona degli ulteriori compensi FIT in questione (relativi alla Coppa Davis ’98-’99), nonostante che questi ultimi rientrassero nell’accordo di cessione forfettaria dei proventi stipulato nel giugno ’99 con la Indaco SA. Accordo non disconosciuto dall’amministrazione finanziaria, e la cui effettività causale e sostanza economica extrafiscale risultavano da plurimi elementi, non considerati dal giudice di merito (stipulazione di un corrispettivo annuo minimo indipendente dai risultati agonistici conseguiti; copertura dei costi di trasferta, allenamento e collaboratori; attestazione FIT di corresponsione di tali compensi direttamente alla Indaco SA).
Par. 3.2 Anche questa doglianza – comunque dipendente dall’esito della questione di residenza e soggettività fiscale passiva in Italia – deve ritenersi fondata.
La commissione tributaria regionale ha ritenuto non opponibile all’amministrazione finanziaria la scrittura 30 giugno 1999 in oggetto, nella sola considerazione “di quanto sostenuto dall’ufficio”‘, ed essenzialmente riconducibile al fatto che la Indaco SA era società amministrata dal padre del S..
Ora, ferma restando l’indubbia valenza indiziaria di tale elemento, doveva la commissione tributaria regionale farsi tuttavia carico di tutti gli altri elementi addotti dal contribuente al fine di superare tale valenza indiziaria; e costituiti dalla affermata sussistenza, nell’accordo in questione, di obbligazioni reciproche tali da integrare una sostanza economica ed una causa contrattuale autonome e reali, non tout court riconducibili al solo intento elusivo di risparmio fiscale.
Aspetto fondamentale di causa, quest’ultimo, sulla quale è mancata del tutto qualsivoglia critica motivazione da parte del giudice di merito.
In definitiva, la sentenza va cassata con rinvio alla commissione tributaria regionale della Liguria la quale, in diversa composizione, riconsidererà la fattispecie, dando congrua motivazione della decisione assunta. Il giudice di rinvio liquiderà anche le spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla commissione tributaria regionale della Liguria in diversa composizione.
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