CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2020, n. 15408
Compenso per lavoro straordinario – Computo delle ore – Orario di lavoro settimanale fissato dalle parti sociali in sede di accordo aziendale – Valore della tariffa oraria applicabile sulla base del divisore – Dettato costituzionale letto non in relazione ai singoli elementi retributivi
Rilevato che
La Corte d’Appello di Roma confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva parzialmente accolto l’opposizione proposta da C. s.p.a nei confronti di N.M. avverso il provvedimento monitorio con il quale le era stato ingiunto il pagamento della somma di euro 6.113,95 a titolo di compenso per lavoro straordinario prestato negli anni 2002-2004 oltre le 36 ore dell’orario di lavoro settimanale fissato dalle parti sociali in sede di accordo aziendale, condannando la società alla corresponsione in favore della lavoratrice, del minore importo di euro 3.736,92.
La Corte di merito, condividendo l’iter motivazionale percorso dal primo giudice, osservava come, con riferimento alla tariffa oraria applicabile nonché all’individuazione del corretto divisore relativo al computo del compenso per le ore di lavoro straordinario prestate, la giurisprudenza di legittimità fosse costante nel ritenere che è del tutto legittima perché non si pone in contrasto né con l’art. 36 Cost. né con l’art. 2108 cod.civ. la condotta del datore di lavoro il quale – in presenza della contrattazione che predetermini, nell’esercizio dell’autonomia delle organizzazioni sindacali, un orario normale inferiore rispetto a quello massimo fissato per legge ora individuato dall’art. 2 del d.lgs. n.66 del 2003 (nella specie di 36 anziché di 39 ore) – corrisponda ai propri dipendenti, che abbiano superato il limite convenzionale senza superare quello (massimo) legale, un corrispettivo per il suddetto lavoro inferiore a quello prescritto dall’art. 2108 cod. civ. per l’orario straordinario (disciplinato attualmente dagli artt. 1, comma secondo, lett. c), e 5 del citato d.lgs. n. 66 del 2003).
Ha quindi rimarcato, in forza di tali principi, la correttezza del comportamento posto in essere dalla azienda che aveva continuato a determinare il valore della tariffa oraria applicabile sulla base del divisore 195 anche dopo che, per effetto di accordi aziendali, l’orario di lavoro era diminuito da 39 a 36 ore settimanali; deduceva altresì la condivisibilità del conteggio all’uopo predisposto dalla C. s.p.a. e recepito dal Tribunale adito, elaborato alla stregua del divisore 195 calcolato sulla base retributiva di 39 ore (anziché del divisore 187 invocato dalla lavoratrice calcolato sulla base di 36 ore).
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la lavoratrice, sulla scorta di unico motivo, cui oppone difese la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Considerato che
1. Con unico motivo si denuncia violazione, ai sensi dell’art.360 comma primo n.3 c.p.c., “delle norme contenute negli accordi sindacali che indicano in che misura va calcolato lo straordinario” in base al combinato disposto “degli artt. 1 e 11 dell’accordo nazionale per gli autoferrotranvieri 12.3.1980 e c.c.n.I. 23.7.1976 che fissa l’orario in 39 ore settimanali e da cui discende il divisore 195”.
Ci si duole altresì, anche ai sensi del n.5 comma primo art.360 c.p.c., che la Corte di merito, anche in caso di applicazione del parametro 195, non abbia considerato la maturazione in suo favore, di un credito maggiore rispetto a quello riconosciuto; infatti, nella prospettazione dei conteggi elaborati dalla lavoratrice, era stato applicato il divisore 195.
2. Il ricorso non è fondato.
La Corte, nel suo incedere argomentativo, si è conformata ai consolidati principi invalsi nella giurisprudenza di legittimità alla cui stregua l’art. 5 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692, nella parte in cui stabilisce che la maggiorazione per il lavoro straordinario non può essere inferiore al dieci per cento della retribuzione ordinaria, si riferisce esclusivamente alle prestazioni di lavoro svolte oltre il limite di orario normale, che l’art. 1 dello stesso r.d.l. fissa in otto ore giornaliere e quarantotto ore settimanali, sicché, ove la contrattazione collettiva stabilisca un orario massimo di lavoro normale inferiore ai predetti limiti (nella specie, trentasei ore settimanali), il compenso dovuto per le ore di lavoro svolto in eccedenza, ma fino al limite di quello legale, può essere legittimamente determinato anche in misura inferiore rispetto al dieci per cento della paga ordinaria (6/7/2015 n. 13842).
Si è infatti considerato che non si pone in contrasto né con l’art. 36 Cost. né con l’art. 2108 cod. civ. la condotta del datore di lavoro il quale corrisponda ai propri dipendenti, che – come nella specie, abbiano superato il limite convenzionale senza superare quello (massimo) legale – un corrispettivo per il suddetto lavoro, inferiore a quello prescritto dall’art. 2108 cod. civ. per l’orario straordinario, atteso che il dettato costituzionale deve essere letto non in relazione ai singoli elementi retributivi, ma al complessivo trattamento economico riconosciuto al lavoratore subordinato ed, inoltre, perché l’inderogabilità del menzionato art.2108 cod. civ. opera soltanto in presenza di violazioni dei tetti massimi di “orario normale”, previsti da norme legislative (vedi Cass. 16/7/2007 n. 15781 che ha ritenuto corretto l’operato della società che aveva calcolato lo straordinario su una base retributiva di 39 ore, sicché le voci reclamate dai lavoratori erano state effettuate su una quota oraria determinata sul divisore 39, conseguendone l’infondatezza della domanda di ricalcolo sul divisore 37).
3. Con riferimento poi, al dedotto vizio attinente alla violazione del n. 5 art. 360 cpc, la doglianza è inammissibile, in base alla sua nuova formulazione nella interpretazione resa dalle S.U. 7/4/2014 n.8053.
L’anzidetta censura, mossa con riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., esorbita, infatti, dal perimetro di denunciabilità secondo il novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui applicabile ratione temporis, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo; fermo restando, per altro verso, che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass.S.U.7/4/2014. nn. 8053 e 8054, Cass. 10/2/2015 n. 2498, Cass. 26/6/2015 n. 13189, Cass. 21/10/2015 n. 21439).
Nella specie, inoltre, deve escludersi, per quanto concerne l’impugnata sentenza, ogni motivazione al disotto del c.d. minimo costituzionale, laddove peraltro la motivazione di per sé non rileva più come vizio denunciabile ex cit. art. 360 n. 5, ma soltanto sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., purché la censura risulti debitamente formulata ex art. 366 c. 1 c.p.c. ed univocamente in termini di nullità ex art. 360 n. 4 (cfr. Cass. 25/09/2018 n. 22598).
In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c.. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma,n. 4, c.p.c..
In altre parole, il riferimento della censura al fatto secondario, in base alla citata disposizione, non implica che possa denunciarsi anche l’omesso esame di determinati elementi probatori, così come verificatosi nel caso di specie in cui la Corte ha vagliato il materiale istruttorio acquisito, ed ha mostrato di condividere il conteggio elaborato dalla parte appellata – già adottato nel corso del giudizio di primo grado – ponendolo a fondamento del decisum.
4. In definitiva, al lume delle sinora esposte considerazioni, il ricorso è respinto.
La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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