CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2022, n. 22788
Avvocato – Negligente espletamento di un incarico professionale – Impugnativa di licenziamento disciplinare – Mancata proposizione di un’eccezione di mancato rispetto di termini perentori – Insussistenza
Fatti di causa
M.D.S. ha agito in giudizio nei confronti dell’avvocato A.M.P. per ottenere il risarcimento dei danni che assume di avere subito a causa del negligente espletamento di un incarico professionale allo stesso conferito (avente ad oggetto l’impugnazione in giudizio di un licenziamento). Il professionista convenuto, nel resistere alla domanda, ha chiamato in giudizio la propria compagnia assicuratrice della responsabilità civile, G.I. S.p.A., per essere eventualmente garantito in caso di soccombenza.
La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Verona.
La Corte di Appello di Venezia ha confermato la decisione di primo grado.
Ricorre il D.S., sulla base di due motivi.
Resistono con distinti controricorsi il P. e G.I. S.p.A..
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..
Il ricorrente D.S. ed il controricorrente P. hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia «Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti accordi collettivi nazionali di lavoro art. 360, comma 1° n. 3 c.p.c. per aver la Corte d’Appello ritenuto l’inapplicabilità dell’art. 119 DPR n. 3/57 per espressa disposizione dell’art. 72, comma 4° D.Lgs. n. 165/2001 a seguito della stipulazione del CCNL 1994/97 contrattazione collettiva entrata in vigore il 17/05/1995, malgrado le circostanze di fatto che avevano comportato il licenziamento e i provvedimenti cautelari di sospensione del lavoratore fossero avvenuti ed emessi in epoca precedente, con conseguente dichiarazione di irrilevanza della tardività dell’eccezione proposta dal difensore».
Si premette che l’incarico professionale conferito all’avvocato convenuto dal ricorrente aveva ad oggetto l’impugnazione in giudizio del licenziamento a quest’ultimo irrogato dall’ente pubblico datore di lavoro (Agenzia delle Entrate) nel giugno 2004 per ragioni disciplinari, a seguito del passaggio in giudicato di una sentenza penale di condanna a suo carico per fatti di corruzione (dopo che un primo licenziamento, irrogatogli anni prima, era stato annullato per ragioni di forma).
L’impugnazione in questione è stata rigettata, con sentenza ormai passata in giudicato: il ricorrente D.S. sostiene che l’esito negativo del giudizio sarebbe stato causato dalla negligenza professionale del proprio difensore, avvocato P.; i giudici di merito, con doppia decisione conforme, hanno invece ritenuto corretta la condotta professionale dell’avvocato P. e, comunque, che l’attore non avesse adeguatamente dimostrato che l’impugnazione del suo licenziamento avrebbe avuto concrete prospettive di accoglimento nel merito.
Con il motivo di ricorso in esame, il ricorrente sostiene:
– che i fatti materiali che avevano portato al suo licenziamento disciplinare erano avvenuti nel giugno 1994, quando egli era stato arrestato in flagranza per il reato di corruzione;
– che la sentenza impugnata nella presente sede è fondata sull’esclusione dell’applicabilità al proprio rapporto di lavoro, in quanto «contrattualizzato», delle norme sui licenziamenti disciplinari di cui al T.U. n. 3 del 1957 (T.U. impiegati civili dello Stato) e, in particolare, dell’art. 119 di detto T.U., ciò in virtù delle previsioni di cui al D. Lgs. n. 165/2001 (art. 72, comma 4), che avevano escluso tale applicabilità ai rapporti di lavoro pubblico contrattualizzati, a far data dalla data di entrata in vigore dei nuovi C.C.L.N. per il triennio 1994/1997, cioè dal 17 maggio 1995 (con conseguente ritenuta irrilevanza della tardività di una eccezione sollevata dall’avvocato P. nel giudizio di impugnazione del licenziamento, sulla base della disposizione richiamata);
– che, nella specie, il T.U. n. 3 del 1957 era, invece, applicabile, dato che i fatti sostanziali per cui aveva avuto luogo il licenziamento erano anteriori a tale ultima data. Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.
In primo luogo, esso introduce una questione nuova, non specificamente affrontata nella decisione impugnata (questione che richiede anche accertamenti di fatto in ordine alle circostanze disciplinarmente rilevanti in concreto poste alla base del licenziamento irrogato nel 2004), ed il ricorrente non indica specificamente se, in quali esatti termini e in quali atti difensivi essa era stata eventualmente già sollevata nel corso del giudizio di merito.
D’altra parte, la legittimità del secondo licenziamento – almeno per quello che si evince dall’esposizione di cui al ricorso, anche integrato con quanto emerge dalla sentenza impugnata
– era stata affermata (nel giudizio di impugnazione dello stesso) sul presupposto che il giudicato penale, formatosi solo nel 2004, costituisse effettivamente un “fatto nuovo” che consentiva l’apertura di un nuovo procedimento disciplinare e l’irrogazione di un nuovo licenziamento (non trattandosi, quindi, di mera reiterazione del primo licenziamento annullato per vizi di forma).
Sotto tale aspetto, trattandosi di un nuovo licenziamento, risulta infondato in diritto l’assunto del ricorrente per cui la relativa procedura dovesse essere assoggettata al regime normativo di cui al T.U n. 3 del 1957, ormai inapplicabile ratione temporis al momento della sua irrogazione.
Inoltre, tale assunto finisce per scontare i medesimi motivi di inammissibilità che saranno meglio illustrati in relazione al secondo motivo del ricorso (nella parte in cui con quest’ultimo si assume che non sarebbe stato sostenuto dall’avvocato P., nel giudizio dallo stesso patrocinato, che i fatti posti alla base del secondo licenziamento in realtà non erano affatto nuovi).
2. Con il secondo motivo si denunzia «Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei CCNL art. 360, comma I° n. 3 c.p.c. e violazione dell’art. 360, comma I° n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo. Omessa motivazione e/o motivazione meramente apparente relativamente al motivo di gravame per la mancata proposizione dell’eccezione relativa all’omesso rispetto dei termini perentori per la rinnovazione del licenziamento per tre distinti profili:
a) omesso rispetto dei termini perentori per il rinnovamento del procedimento disciplinare;
b) obbligatorietà della sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di quello penale;
c) errata e arbitraria qualificazione di un presunto “fatto nuovo” posto a base del secondo licenziamento».
Anche questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Si premette che l’esposizione è oggettivamente poco chiara e di ardua intelligibilità.
Come esplicitato nella rubrica, le censure fanno peraltro espressamente riferimento alla questione relativa alla proposizione della sola «eccezione relativa all’omesso rispetto dei termini perentori per la rinnovazione del licenziamento», cioè hanno ad oggetto esclusivamente una delle ragioni di addebito della responsabilità professionale oggetto della domanda originaria e, segnatamente, quella relativa alla mancata proposizione, da parte dell’avvocato P., di un’eccezione in ordine al mancato rispetto dei termini perentori per la rinnovazione del licenziamento disciplinare.
Lo stesso ricorrente, in effetti:
– illustra il suddetto addebito come fondato sull’omessa proposizione, da parte del suo difensore, di un’eccezione di violazione dei termini perentori per l’apertura del secondo procedimento di licenziamento disciplinare;
– afferma che il tribunale ha ritenuto infondato tale addebito, statuendo, nella sostanza, che la proposizione dell’eccezione in questione era priva di rilievo ai fini dell’esito del giudizio, in quanto i termini per l’apertura del secondo procedimento erano stati rispettati (dovendo essi essere conteggiati a decorrere dalla data di formazione del giudicato penale di condanna del D.S., non dai fatti originari);
– precisa di avere proposto appello, in relazione a tale ultima statuizione, sostenendo che il secondo licenziamento era invece effettivamente tardivo, diversamente da quanto ritenuto dal tribunale in primo grado, perché irrogato in violazione delle norme di cui agli artt. 119 e 120 del T.U. n. 3 del 1957.
Così ricostruito, nonostante la scarsa chiarezza dell’esposizione di cui al ricorso, l’oggetto delle censure di cui al motivo in esame, osserva la Corte che la questione controversa, in ogni suo aspetto, è – come del resto riferisce lo stesso ricorrente – fondata sul presupposto dell’applicabilità del T.U. n. 3 del 1957.
Di conseguenza, la motivazione della decisione impugnata sul relativo motivo di gravame in realtà esiste e non è affatto apparente, avendo la corte stessa espressamente escluso l’applicabilità al caso di specie del T.U. n. 3 del 1957, ed è altresì una motivazione del tutto adeguata, diversamente da quanto sostenuto nel motivo di ricorso in esame, fondandosi sul richiamo di un precedente di legittimità sostanzialmente in termini.
Altrettanto corretto risulta, altresì, l’assorbimento delle ulteriori doglianze prospettate dal ricorrente (sempre sulla base dell’applicabilità del T.U. n. 3 del 1957), rispettivamente indicate come «omesso esame dei termini perentori per il rinnovamento del procedimento disciplinare» e come «obbligatorietà della sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di quello penale» (e ciò è a dirsi pur in mancanza di una specifica censura avente ad oggetto l’erronea valutazione dell’assorbimento).
Pare opportuno osservare, per completezza, che i due profili appena indicati potrebbero sembrare argomentati, nel ricorso, oltre che sulla base dell’applicabilità delle norme di cui al T.U. n. 3 del 1957 (come avvenuto nel giudizio di merito, per quanto emerge dal ricorso e dalla sentenza impugnata), anche sulla base delle disposizioni del C.C.N.L. per il triennio 1994/1997 e successivi, ma senza il richiamo adeguato, puntuale e specifico del contenuto del ricorso introduttivo del giudizio, della sentenza di primo grado e dell’appello (in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3 e 6, c.p.c.), da cui possa eventualmente evincersi che si trattava di questione già posta, in siffatti termini, nel corso del giudizio di merito e non di una questione del tutto nuova, come tale non deducibile per la prima volta nella presente sede (anche considerato che essa richiede accertamenti di fatto).
Il terzo profilo evocato nell’ambito del motivo di ricorso in esame (indicato come «errata e arbitraria qualificazione di un presunto fatto nuovo posto a base del secondo licenziamento») sconta infine analoghi profili di inammissibilità, avendo anch’esso ad oggetto una questione nuova, che richiede anche accertamenti di fatto e risulta avanzata per la prima volta in sede di legittimità.
Il ricorrente sostiene che, negligentemente, l’avvocato P. non avrebbe dedotto che il suo secondo licenziamento, avvenuto nel 2004, fosse tardivo in quanto comminato, in sostanza, per i fatti del 1994 e, dunque, che il “fatto nuovo” costituito dal giudicato penale intervenuto nel 2004 e posto a base dello stesso non era in realtà tale.
Dalla stessa esposizione dei fatti di causa contenuta nel ricorso emerge peraltro che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento, l’eccezione di tardività del secondo licenziamento era stata in effetti proposta: essa era stata rigettata in primo grado, avendo il tribunale ritenuto il predetto licenziamento tempestivo (a decorrere dal giudicato penale) ed era stato anche avanzato appello sul punto (anche se esso era stato dichiarato inammissibile).
Inoltre, con riguardo al presente giudizio, emerge altresì che l’addebito della mancata proposizione dell’eccezione relativa alla tempestività del secondo licenziamento è stata rigettata in primo grado, avendo il tribunale ritenuto che fosse una eccezione inutile e infondata, per essere il secondo licenziamento in realtà effettivamente tempestivo (anche in tal caso a decorrere dalla data del giudicato penale, individuato ancora una volta, almeno implicitamente, come “fatto nuovo” rilevante); l’appello, sul punto, come già chiarito, risulta proposto dal D.S. sulla base dell’invocazione della disciplina di cui agli artt. 119 e 120 del T.U. n. 3 del 1957 (a sostegno dell’assunto che in realtà il licenziamento fosse tardivo) ed è stato quindi, coerentemente, rigettato dalla corte di appello, per la ritenuta inapplicabilità del T.U. in questione.
Anche in questo caso, nel ricorso non è richiamato in modo adeguato e specifico il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio, quello della sentenza di primo grado e quello dell’appello (in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3 e 6, c.p.c., a mio parere), da cui possa eventualmente evincersi che in realtà l’addebito era stato formulato, sia in primo grado che in appello (anche) in termini che prescindessero dall’applicabilità del T.U. n. 3 del 1957 e, in particolare, che era stato formulato sulla base di argomenti tali da prospettare la mancata deduzione, da parte del difensore, di una specifica censura volta a contestare la natura di fatto nuovo del giudicato penale.
Le argomentazioni svolte nel ricorso in proposito richiamano precedenti di questa Corte che confermerebbero l’assunto del ricorrente in ordine alla fondatezza di una siffatta ragione di impugnazione del licenziamento, ma, per sostenere adeguatamente la censura di omessa pronuncia e/o di omessa motivazione, avanzate con il motivo di ricorso in esame, sarebbe stato quanto meno necessario allegare e documentare che siffatte argomentazioni erano già state prospettate in sede di appello.
In mancanza, deve concludersi, anche in relazione al profilo in esame, che si tratta di censura del tutto nuova, non ammissibile nella presente sede.
3. Il ricorso è rigettato.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.
Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, liquidandole in complessivi € 8.000,00 per il controricorrente P., ed in complessivi € 6.000,00, per la controricorrente G.I. S.p.A., oltre (per ciascuno dei controricorrenti) € 200,00 per esborsi, nonché spese generali ed accessori di legge.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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